Adriana Pedicini, collaboratrice di Lèucade |
Carlotta
Nobile
OXYMORON
Aracne
editrice 2012
Recensione
di Adriana Pedicini
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“Siamo
burattini mal fabbricati
che
ballano una danza senza passi
su
un palcoscenico di cartone che è la Vita.
Ma
conosciamo l’Amore
e
questo cambia ogni cosa”.
(Carlotta
Nobile)
“Assomiglia
a un ricordo ma non è successo mai”
Così
inizia il libro intitolato Oxymoron di Carlotta Nobile e immediatamente giunge
alla mente l’eco dell’aforisma che recita: Non è difficile ricordare il
passato, lo è molto di più ricordare il futuro quale ce lo immaginiamo.
Le
ambizioni legittime e le occupazioni doverose, l’arte e la musica, i concerti e
gli allestimenti artistici, e ancora la direzione del Louvre prosciugavano la
linfa vitale di Cloe Deverieux. Pertanto ogni due anni avvertiva la necessità
di andare a rilassarsi nella piccola ma confortevole dimora ereditata dalla
nonna in Normandia. Il silenzio del mare bastava a tenerle compagnia. L’
essenzialità della casa le consentiva uno straordinario empito di
consapevolezza ponendola di fronte alla lacerante sfida tra quello che era e
quello che avrebbe voluto davvero essere. Non che non fosse contenta della sua
vita, ma la tormentava la domanda se la sua vita l’avesse scelta davvero lei.
Come
un alter ego, come una presenza invisibile, Anna, l’amica di sempre, viene a
trovarla in questa casa di tanto in tanto. Samaritana di un animo, quello di
Cloe, perforato dal logorante senso rotatorio
della mancanza, dalla percezione dolorosa di due vuoti incolmabili.
Anna
medica le ferite senza esacerbarle, senza far cenno di Maxence, il grande
tormento. Molto più probabilmente Anna della protagonista è la coscienza, che
evoca ricordi passati, come Andrè, emerso casualmente dalle nebbie del tempo
giovanile attraverso una busta da lettera trovata per caso in fondo al
cassetto.
Ma
bisogna pur conoscersi una buona volta e sprofondarsi dentro, vedere il buio,
andare a captare i suoni che producono le corde tese dell’animo, andare a
trovare la materia spirituale così diversa dalla materiale evanescenza del corpo. L’ossimoro! Grande
maestra la musica che abitua a cercare i contrari, e l’arte, che crea dagli
opposti. Tutto questo è vita, possibile solo laddove si smetta di esistere.
L’ossimoro! Tuttavia è il miglior modo per essere al mondo, magari feriti, non
inariditi.
Dal
buio la luce, nel buio la luce che non è una
linea retta ma assume i contorni ovoidali di una maschera, anzi di tante
maschere quale unico sostegno per sopravvivere. Maschere infinite per tipo,
colore, a indicare gioia e dolore, angoscia, amarezza, sogni e disperazione
come quelle che
“recano
ciascuna su di sé una croce e sotto la croce la lapide e sotto la lapide te”.
Maschere
come guaine attorno all’anima, maschere ancorate a brandelli di pelle. Sì,
perché anche cambiando maschera, quando si percorrono i ricordi, davvero si
rischia di morire risucchiati dal vortice delle emozioni, della vita vissuta e
da come la si ricorda.
Nella
finzione epistolare con il suo interlocutore André, la protagonista racconta
appunto di questa vita parallela nascosta, scandita secondo i ritmi del sogno
per quel che riguarda l’anima, mentre per il tempo esteriore sono in fila sul
tavolo serie ordinate di maschere da
indossare, una per ogni attimo, una per ogni giorno da vivere.
Echeggia
come lamento ricorrente di animale ferito il ricordo del futuro negato,
impossibile da vivere. Lo strazio della mente che uccide progetti al primo
segnale e del cuore che culla figlie mai nate.
La
vita è un camminare in bilico su un filo di perle, un dondolare su un’altalena
schiacciata tra i muri, una fuga in avanti.
André
e Maxence sono la personificazioni di due memorie, non di attimi che si
susseguono diacronicamente, ma di due tempi interiori, di due situazioni psicologiche che,
seppure cambiano e si trasformano nel percorso esistenziale, lasciano dietro di
sé, in tutti coloro che ne sono stati partecipi, qualcosa di inamovibile, di
perpetuo, di inciso per sempre nella
umana memoria. Ma il distacco dall’attimo pregno di vita, dalla lucida
consapevolezza del contrario si risolve in una dichiarazione soffusa d’amore a
lasciar perdere, ad accettare che l’amore stesso (la vita) sfumi pian piano nel
nulla, mentre
“ne
sento il soffio freddo sulle spalle”.
Prosegue
lo snocciolare dei ricordi immaginati nella caparbietà di
immaginare passi di un vissuto che non
saranno mai tali nella realtà.
Eppure
“le parole sanno di verità. “
Vero
protagonista di tale condizione è il silenzio, valido legame che travalica
perfino la materia, crea contatto anche nell’assenza. Che si nutre d’amore e
nutre l’amore comunque, perché l’amore ha il volto anche dell’assenza e
contiene in sé la possibilità di viversi comunque.
I
ricordi sono gocce di vita. Nuvole impalpabili come l’anima al suo dissolversi.
C’è un momento, appunto questo, in cui
la vita assume i contorni di un atto teatrale, tragico per la precisione. Dove
l’elemento più tragico è l’inganno del non sapere quando il sipario cali
davvero. E tuttavia ci si inabissa nei marosi non per arrancare ma per
rinascere ancora. Con l’amore, nell’amore per questo difficile esistere.
Nella
finzione letteraria ad André le parole
“Amami
un’ultima volta e poi aiutami a lasciarti andare”.
Non
è il tempo ancora della resa incondizionata,
bisogna inseguire
”
la meta che non attende”,
avvilupparsi
nei pensieri di traguardi mai raggiunti.. vivere l’ultimo
abbraccio.....l’ultimo respiro come flebile suono di violino. Infatti è nella
musica che la vita spicca il suo volo al di là delle cime tempestose dei
sentimenti, dei dolori, delle nostalgie e consente di vivere vite nuove pur
nella contraddizione delle sensazioni, pur nel silenzio assordante da cui una
voce nuova nascerà.
E
ancora, nello straniamento di una vita che è scandita dal ritmo ottuso del tempo.
Provare
ad entrare nella coscienza, nell’anima per captare il nous è impresa ardua ed è preferibile l’oblio di
sé ma questo gioco di specchi alla fine è un gioco al massacro con una data
“che non ritorna. “
“E
ce l’ho ancora scritta sul corpo”
Uno
scivolamento di piani, dunque, un intersecarsi di segmenti fantastici e riflessivi, reali e immaginari, temporali e
atemporali, di scambi di ruolo nell’interlocuzione.
E
nella energia vitale che nulla distrugge ma tutto trasforma si desta nella
protagonista l’umano timor panico quello che come un’onda rischia di travolgere
la coscienza che indietreggia atterrita. Ma è solo un attimo: perché dalla
paura nasce il coraggio, dalle lacrime inerti nasce il vento impetuoso, dalla
ferita sanguinante il desiderio di mondarla con parole carezzevoli.
Si
è nella vita come alieni che vanno alla ricerca di qualcosa che non si sa bene
cosa sia, schiacciati tra un passato che ci blocca e un futuro che ci sfugge.
Al di là dei limiti della mente e dello spirito, al di là delle barriere del
corpo. Siamo come un ricamo di cui possiamo ammirare solo il rovescio, come un
cristallo che riflette una luce che ci è estranea. Eppure ci sono attimi in cui
la perfezione avviene, nasce il sublime nel tremendo vuoto della nostra
imperfezione.
Nella
lettera immaginaria al suo André la protagonista ancora si sofferma sulla
possibilità di nutrire sogni, sulla possibilità che questi si realizzino. Per
un attimo. Al sublime di prima corrisponde in antitesi il campo disseminato di
croci in cui vanno a perdersi i sogni.
“E
sentire cose che a quell’età credevi lontane”
“Io
ero l’illusione di una felicità che aspettavo”
Il
tempo vola via lasciando sulla pelle i segni del suo passaggio e le cicatrice
dell’incompiuto, del non fatto, negando il più delle volte una seconda
possibilità. Ci vorrebbe allora un
binario parallelo, con un altro corso
“una
vita altra, stagliata oltre la fine della realtà”
L’unica
possibilità di sopravvivere, il ricordo
Il
ricordo che però non è vita nella sua pienezza, anzi fa più grande il vuoto e
si trasforma in necessità di andare avanti, di dare al vuoto un’altra forma.
“No
so perché lo strappo dell’anima debba essere così violento, quando finisce un
amore”
“No
so perché la ferita sia inguaribile come i tagli sulle tele di Fontana”
Attraverso
gli squarci, le lacune, i vuoti, ognuno cerca se stesso, cerca il balsamo con
cui lenire le ferite. E accoglie con gratitudine l’attimo fuggente che irrompe
nella vita spesso sotto la specie di un amore, di un amore nuovo.
Ma è solo una forma di consolazione anche
questa, che non impedisce né il peregrinare dell’anima e la frammentazione
dell’esistere sempre proteso tra dolore e speranza, né il capire che tutto
cambia in un solo istante nel vano tentativo di ricomporre un’unità “lesa e
turbata”.
In
tale frammentazione è difficile sentire la realtà, l’appartenenza a qualcosa di
duraturo, di stabile. Prevale il senso di sospensione e la ricerca di senso
attraverso i sensi. L’esperienza tende a creare una sagoma definitiva duratura.
Eppure il miracolo può compiersi se solo riusciamo a guardare il mondo con gli
altrui occhi, se riusciamo a creare una fusione che non ci annulla ma ci
definisce meglio.
Il
vuoto riemerge in tutta la sua violenza nella desolazione dell’artista immobile
davanti alla tela bianca. Il nulla che non è il nero della concentrazione di
tutti i colori in un colore assente, ma il bianco dell’assenza nell’illusione di un arcobaleno di colori.
Come nelle tele bianche e vuote di Robert Ryman.
Cosicché si vive con l’illusione di libertà in
un groviglio di catene che avvolgono l’anima e il corpo.
Ma
qualcosa spinge ad andare avanti, a guardare all’orizzonte nel punto in cui
scompare donandoci l’illusione di infinità. E la vita prende il sopravvento. E
il camminare nel mondo, attraverso il mondo, per trovare conforto, calore,
nell’unica cosa reale, la solitudine del dolore.
Nel
sogno invece è possibile attingere una goccia di felicità, tanto intensa da
sembrare reale. È nel sogno la dimensione più vera, la dimensione onirica
diventa porto sicuro come terra ospitale
e rigogliosa.
Perché
infatti è nel sogno che è presente il non detto, il segreto, il racconto di un
passato che se nella realtà rappresenta il crollo delle illusioni, delle
speranze, l’arrestarsi di un viaggio, nel sogno ha la possibilità di proseguire
versa una meta non altrimenti concessa.
“E anche quando la realtà è l’approdo di ogni
possibile sogno, c’è qualcosa che resta indecifrato e stonato. Qualcosa che
spaventa”
Come
la felicità di un soggiorno immaginato a Venezia col suo amore. Somma di
contraddizioni: calore degli abbracci in una freddissima nebbia, la perfezione
della gioia con in nuce il declino della stessa. Difatti all’anima sospesa
sfugge la certezza del percorso che porti a compimento il progetto di vita. E
il tempo sembra dilatarsi e non esistere al tempo stesso, risucchiato da una
coltre spessissima di nebbia, metafora della nostra incapacità di vedere oltre.
Di capire cosa si celi dietro quella spessa cortina così lontana, così
indefinita. Qualcosa che manca, che fa di ciascuno una quercia senza radici, in
balia del vento dell’esistenza.
Fino
a perdersi, lontano da tutto e da tutti col solo desiderio di tornare in un
modo o nell’altro, un giorno o l’altro. Ma di sicuro c’è solo l’inganno, la
disillusione, la delusione che tutto ciò che si è costruito si disfa in un
attimo al primo colpo di vento avverso.
Sogni
e speranze come cumuli di neve sporca ai lati della strada che vanno
disciogliendosi fino a non lasciare traccia.
La
tela è tutta a brandelli, così è nella vita, mentre ci illudiamo di essere
perfetti. Il rimedio è non porsi domande, non attendere risposte. Mentre
all’orizzonte si staglia l’abisso.
Un
flusso di quesiti irrisolti. Ma forse la risposta c’è ed è una condizione,
raggiungere la terra promessa, che contenga e argini il male di vivere tra il
rimpianto delle parole non dette, dei gesti non compiuti, tra l’inganno della
vita vissuta in sospensione e quello della vita desiderabile solamente
immaginata.
Difficile
tramutare in parole questo spaccato di senso, dare voce al silenzio che della
voce è la più alta espressione. Allora ben venga un ricordo, solo un ricordo.
Solo un frammento di passato per riconciliarsi con la vita che ha preso una
piega diversa. In certo qual modo riconciliarsi con se stessi per non rischiare
l’alienazione. Per poter guardare al futuro, per poter attendere altre risposte
pur non sapendo ancora le domande.
“Non
so oggi cosa cerco ma lo capirò quando mi ci troverò davanti”
Una
forma di crescita, di maturazione, che consiste nel recuperare il passato per
riuscire a superarlo. Un bisogno inestinguibile di raccontarsi, di
riappropriarsi di una vita sfuggita..di emozioni fluite via. Di vivere la
consapevolezza. L’unica cosa certa, Il futuro è tutto da scrivere.
Solo
che ciò rende l’ossimoro più drammaticamente evidente: la consapevolezza
dell’alter ego inesistente e reale, muto interlocutore e silenzioso
consigliere.
E
ancora
“C’è
un vincolo tra ciò che siamo e ciò che non saremo mai ed è il rispetto verso le
mille altre strade che rappresentano la vita in controluce”
Spesso
il nostro Io più autentico è ciò che non siamo diventati.
Perché
il destino non è mai puntuale o ritarda o arriva troppo in anticipo e contro di
esso siamo impotenti.
La
vita che ci attende o quella trascorsa è comunque un groviglio di passi incerti,
avventurosi, a tratti drammatici e spesso l’inizio coincide con la fine...ognuno
dei due è speculare all’altro con i suoi errori e i suoi traumi e la ricerca
della serenità che giungerà inaspettata quando emerge la certezza di non sapere
più che cosa sia.
“Tornerà
quando accetterò di averla perduta”
Nulla
rimane uguale a se stesso e ognuno è non quello che sente di essere ma ciò che
sta per diventare.
Una
conclusione che, comunque la si consideri, infonde una speranza, quella che
tutto alla fine possa avere un senso, che il dissidio tra libertà e destino sia
superato in nome di una forza altra, che
non è quella che coltiviamo con i nostri dubbi e le nostre pretese, con le
prove e le testimonianze, ma una forza spirituale che sgorga all’improvviso,
riconosciuta e seguita mentre compie i suoi giri concentrici verso un centro
indistinto, presente anche se in apparenza inesistente. E’ questa forza che
distrae la protagonista, l’allontana dal suo passato in cui rischiava la morte,
il soffocamento.
Un’ombra
le si presenta allo sguardo di spalle. Sapere chi sia, cosa sia è difficile.
Probabilmente il respiro dell’universo, la Vita oltre la vita.
Si
avvicinano l’uno all’altra. Due muti sguardi che guardano al mistero di fronte,
sulle onde dell’oceano.
E
poi, in silenzio, i passi procedono all’unisono, simultanei verso l’infinito.
Come sempre quando nasce Amore.
Il
dramma dell’esistenza, il senso della vita, la lotta impari di conciliare il
passato con il futuro attraverso un presente
incoerente come sabbia, affrontati attraverso una sorta di narrazione
poetica, sempre elegante e raffinata per quanto a tratti di difficile esegesi
per i tanti richiami inespressi, per il carattere chiuso e circolare del
racconto. Scelta stilistica che certamente conferisce maggior pathos all’opera
per il fatto che le coordinate di riferimento tendono ad assumere connotati più
psichici che materiali, e la narrazione procede spesso per piani cronologici in
un continuo contrasto tra l’asse temporale degli avvenimenti narrati e il punto
di vista della protagonista-Autrice.
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