mercoledì 13 luglio 2016

ADRIANA PEDICINI SU: "OXYMORON" DI CARLOTTA NOBILE



Adriana Pedicini, collaboratrice di Lèucade

Carlotta Nobile
OXYMORON
Aracne editrice 2012
Recensione di Adriana Pedicini
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“Siamo burattini mal fabbricati
che ballano una danza senza passi
su un palcoscenico di cartone che è la Vita.
Ma conosciamo l’Amore
e questo cambia ogni cosa”.
(Carlotta Nobile)


“Assomiglia a un ricordo ma non è successo mai”
Così inizia il libro intitolato Oxymoron di Carlotta Nobile e immediatamente giunge alla mente l’eco dell’aforisma che recita: Non è difficile ricordare il passato, lo è molto di più ricordare il futuro quale ce lo immaginiamo.
Le ambizioni legittime e le occupazioni doverose, l’arte e la musica, i concerti e gli allestimenti artistici, e ancora la direzione del Louvre prosciugavano la linfa vitale di Cloe Deverieux. Pertanto ogni due anni avvertiva la necessità di andare a rilassarsi nella piccola ma confortevole dimora ereditata dalla nonna in Normandia. Il silenzio del mare bastava a tenerle compagnia. L’ essenzialità della casa le consentiva uno straordinario empito di consapevolezza ponendola di fronte alla lacerante sfida tra quello che era e quello che avrebbe voluto davvero essere. Non che non fosse contenta della sua vita, ma la tormentava la domanda se la sua vita l’avesse scelta davvero lei.
Come un alter ego, come una presenza  invisibile, Anna, l’amica di sempre, viene a trovarla in questa casa di tanto in tanto. Samaritana di un animo, quello di Cloe, perforato dal logorante senso rotatorio  della mancanza, dalla percezione dolorosa di due vuoti incolmabili.
Anna medica le ferite senza esacerbarle, senza far cenno di Maxence, il grande tormento. Molto più probabilmente Anna della protagonista è la coscienza, che evoca ricordi passati, come Andrè, emerso casualmente dalle nebbie del tempo giovanile attraverso una busta da lettera trovata per caso in fondo al cassetto. 
Ma bisogna pur conoscersi una buona volta e sprofondarsi dentro, vedere il buio, andare a captare i suoni che producono le corde tese dell’animo, andare a trovare la materia spirituale così diversa dalla materiale  evanescenza del corpo. L’ossimoro! Grande maestra la musica che abitua a cercare i contrari, e l’arte, che crea dagli opposti. Tutto questo è vita, possibile solo laddove si smetta di esistere. L’ossimoro! Tuttavia è il miglior modo per essere al mondo, magari feriti, non inariditi.
Dal buio la luce, nel buio la luce che non è una linea retta ma assume i contorni ovoidali di una maschera, anzi di tante maschere quale unico sostegno per sopravvivere. Maschere infinite per tipo, colore, a indicare gioia e dolore, angoscia, amarezza, sogni e disperazione come quelle che
“recano ciascuna su di sé una croce e sotto la croce la lapide e sotto la lapide te”.
Maschere come guaine attorno all’anima, maschere ancorate a brandelli di pelle. Sì, perché anche cambiando maschera, quando si percorrono i ricordi, davvero si rischia di morire risucchiati dal vortice delle emozioni, della vita vissuta e da come la si ricorda.
Nella finzione epistolare con il suo interlocutore André, la protagonista racconta appunto di questa vita parallela nascosta, scandita secondo i ritmi del sogno per quel che riguarda l’anima, mentre per il tempo esteriore sono in fila sul tavolo serie ordinate di  maschere da indossare, una per ogni attimo, una per ogni giorno da vivere.
Echeggia come lamento ricorrente di animale ferito il ricordo del futuro negato, impossibile da vivere. Lo strazio della mente che uccide progetti al primo segnale e del cuore che culla figlie mai nate.
La vita è un camminare in bilico su un filo di perle, un dondolare su un’altalena schiacciata tra i muri, una fuga in avanti.
André e Maxence sono la personificazioni di due memorie, non di attimi che si susseguono diacronicamente, ma di due tempi  interiori, di due situazioni psicologiche che, seppure cambiano e si trasformano nel percorso esistenziale, lasciano dietro di sé, in tutti coloro che ne sono stati partecipi, qualcosa di inamovibile, di perpetuo, di inciso per sempre nella  umana memoria. Ma il distacco dall’attimo pregno di vita, dalla lucida consapevolezza del contrario si risolve in una dichiarazione soffusa d’amore a lasciar perdere, ad accettare che l’amore stesso (la vita) sfumi pian piano nel nulla, mentre
“ne sento il soffio freddo sulle spalle”.
Prosegue lo snocciolare dei ricordi immaginati nella caparbietà di immaginare passi di un vissuto  che non saranno mai tali nella realtà.
Eppure “le parole sanno di verità. “
Vero protagonista di tale condizione è il silenzio, valido legame che travalica perfino la materia, crea contatto anche nell’assenza. Che si nutre d’amore e nutre l’amore comunque, perché l’amore ha il volto anche dell’assenza e contiene in sé la possibilità di viversi comunque.
I ricordi sono gocce di vita. Nuvole impalpabili come l’anima al suo dissolversi. C’è un momento, appunto  questo, in cui la vita assume i contorni di un atto teatrale, tragico per la precisione. Dove l’elemento più tragico è l’inganno del non sapere quando il sipario cali davvero. E tuttavia ci si inabissa nei marosi non per arrancare ma per rinascere ancora. Con l’amore, nell’amore per questo difficile esistere.
Nella finzione letteraria ad André le parole
“Amami un’ultima volta e poi aiutami a lasciarti andare”.
Non è  il tempo ancora della resa incondizionata, bisogna inseguire
” la meta che non attende”,
avvilupparsi nei pensieri di traguardi mai raggiunti.. vivere l’ultimo abbraccio.....l’ultimo respiro come flebile suono di violino. Infatti è nella musica che la vita spicca il suo volo al di là delle cime tempestose dei sentimenti, dei dolori, delle nostalgie e consente di vivere vite nuove pur nella contraddizione delle sensazioni, pur nel silenzio assordante da cui una voce nuova nascerà.
E ancora, nello straniamento di una vita che è scandita dal  ritmo ottuso del tempo.
Provare ad entrare nella coscienza, nell’anima per captare il nous  è impresa ardua ed è preferibile l’oblio di sé ma questo gioco di specchi alla fine è un gioco al massacro con una data “che non ritorna. “
“E ce l’ho ancora scritta sul corpo”
Uno scivolamento di piani, dunque, un intersecarsi di segmenti fantastici  e riflessivi, reali e immaginari, temporali e atemporali, di scambi di ruolo nell’interlocuzione.
E nella energia vitale che nulla distrugge ma tutto trasforma si desta nella protagonista l’umano timor panico quello che come un’onda rischia di travolgere la coscienza che indietreggia atterrita. Ma è solo un attimo: perché dalla paura nasce il coraggio, dalle lacrime inerti nasce il vento impetuoso, dalla ferita sanguinante il desiderio di mondarla con parole carezzevoli.
Si è nella vita come alieni che vanno alla ricerca di qualcosa che non si sa bene cosa sia, schiacciati tra un passato che ci blocca e un futuro che ci sfugge. Al di là dei limiti della mente e dello spirito, al di là delle barriere del corpo. Siamo come un ricamo di cui possiamo ammirare solo il rovescio, come un cristallo che riflette una luce che ci è estranea. Eppure ci sono attimi in cui la perfezione avviene, nasce il sublime nel tremendo vuoto della nostra imperfezione.
Nella lettera immaginaria al suo André la protagonista ancora si sofferma sulla possibilità di nutrire sogni, sulla possibilità che questi si realizzino. Per un attimo. Al sublime di prima corrisponde in antitesi il campo disseminato di croci in cui vanno a perdersi i sogni.
“E sentire cose che a quell’età credevi lontane”
“Io ero l’illusione di una felicità che aspettavo”
Il tempo vola via lasciando sulla pelle i segni del suo passaggio e le cicatrice dell’incompiuto, del non fatto, negando il più delle volte una seconda possibilità.  Ci vorrebbe allora un binario parallelo, con un altro corso
“una vita altra, stagliata oltre la fine della realtà”
L’unica possibilità di sopravvivere, il ricordo
Il ricordo che però non è vita nella sua pienezza, anzi fa più grande il vuoto e si trasforma in necessità di andare avanti, di dare al vuoto un’altra forma.
“No so perché lo strappo dell’anima debba essere così violento, quando finisce un amore”
“No so perché la ferita sia inguaribile come i tagli sulle tele di Fontana”
Attraverso gli squarci, le lacune, i vuoti, ognuno cerca se stesso, cerca il balsamo con cui lenire le ferite. E accoglie con gratitudine l’attimo fuggente che irrompe nella vita spesso sotto la specie di un amore, di un amore nuovo.
  Ma è solo una forma di consolazione anche questa, che non impedisce né il peregrinare dell’anima e la frammentazione dell’esistere sempre proteso tra dolore e speranza, né il capire che tutto cambia in un solo istante nel vano tentativo di ricomporre un’unità “lesa e turbata”.
In tale frammentazione è difficile sentire la realtà, l’appartenenza a qualcosa di duraturo, di stabile. Prevale il senso di sospensione e la ricerca di senso attraverso i sensi. L’esperienza tende a creare una sagoma definitiva duratura. Eppure il miracolo può compiersi se solo riusciamo a guardare il mondo con gli altrui occhi, se riusciamo a creare una fusione che non ci annulla ma ci definisce meglio.
Il vuoto riemerge in tutta la sua violenza nella desolazione dell’artista immobile davanti alla tela bianca. Il nulla che non è il nero della concentrazione di tutti i colori in un colore assente, ma il bianco dell’assenza    nell’illusione di un arcobaleno di colori. Come nelle tele bianche e vuote di Robert Ryman.
 Cosicché si vive con l’illusione di libertà in un groviglio di catene che avvolgono l’anima e il corpo.
Ma qualcosa spinge ad andare avanti, a guardare all’orizzonte nel punto in cui scompare donandoci l’illusione di infinità. E la vita prende il sopravvento. E il camminare nel mondo, attraverso il mondo, per trovare conforto, calore, nell’unica cosa reale, la solitudine del dolore.
Nel sogno invece è possibile attingere una goccia di felicità, tanto intensa da sembrare reale. È nel sogno la dimensione più vera, la dimensione onirica diventa  porto sicuro come terra ospitale e rigogliosa.
Perché infatti è nel sogno che è presente il non detto, il segreto, il racconto di un passato che se nella realtà rappresenta il crollo delle illusioni, delle speranze, l’arrestarsi di un viaggio, nel sogno ha la possibilità di proseguire versa una meta non altrimenti concessa.
 “E anche quando la realtà è l’approdo di ogni possibile sogno, c’è qualcosa che resta indecifrato e stonato. Qualcosa che spaventa”
Come la felicità di un soggiorno immaginato a Venezia col suo amore. Somma di contraddizioni: calore degli abbracci in una freddissima nebbia, la perfezione della gioia con in nuce il declino della stessa. Difatti all’anima sospesa sfugge la certezza del percorso che porti a compimento il progetto di vita. E il tempo sembra dilatarsi e non esistere al tempo stesso, risucchiato da una coltre spessissima di nebbia, metafora della nostra incapacità di vedere oltre. Di capire cosa si celi dietro quella spessa cortina così lontana, così indefinita. Qualcosa che manca, che fa di ciascuno una quercia senza radici, in balia del vento dell’esistenza.
Fino a perdersi, lontano da tutto e da tutti col solo desiderio di tornare in un modo o nell’altro, un giorno o l’altro. Ma di sicuro c’è solo l’inganno, la disillusione, la delusione che tutto ciò che si è costruito si disfa in un attimo al primo colpo di vento avverso.
Sogni e speranze come cumuli di neve sporca ai lati della strada che vanno disciogliendosi fino a non lasciare traccia.
La tela è tutta a brandelli, così è nella vita, mentre ci illudiamo di essere perfetti. Il rimedio è non porsi domande, non attendere risposte. Mentre all’orizzonte si staglia l’abisso.
Un flusso di quesiti irrisolti. Ma forse la risposta c’è ed è una condizione, raggiungere la terra promessa, che contenga e argini il male di vivere tra il rimpianto delle parole non dette, dei gesti non compiuti, tra l’inganno della vita vissuta in sospensione e quello della vita desiderabile solamente immaginata.
Difficile tramutare in parole questo spaccato di senso, dare voce al silenzio che della voce è la più alta espressione. Allora ben venga un ricordo, solo un ricordo. Solo un frammento di passato per riconciliarsi con la vita che ha preso una piega diversa. In certo qual modo riconciliarsi con se stessi per non rischiare l’alienazione. Per poter guardare al futuro, per poter attendere altre risposte pur non sapendo ancora le domande.
“Non so oggi cosa cerco ma lo capirò quando mi ci troverò davanti”
Una forma di crescita, di maturazione, che consiste nel recuperare il passato per riuscire a superarlo. Un bisogno inestinguibile di raccontarsi, di riappropriarsi di una vita sfuggita..di emozioni fluite via. Di vivere la consapevolezza. L’unica cosa certa, Il futuro è tutto da scrivere.
Solo che ciò rende l’ossimoro più drammaticamente evidente: la consapevolezza dell’alter ego inesistente e reale, muto interlocutore e silenzioso consigliere.
E ancora
“C’è un vincolo tra ciò che siamo e ciò che non saremo mai ed è il rispetto verso le mille altre strade che rappresentano la vita in controluce”  
Spesso il nostro Io più autentico è ciò che non siamo diventati.
Perché il destino non è mai puntuale o ritarda o arriva troppo in anticipo e contro di esso siamo impotenti.
La vita che ci attende o quella trascorsa è comunque un groviglio di passi incerti, avventurosi, a tratti drammatici e spesso l’inizio coincide con la fine...ognuno dei due è speculare all’altro con i suoi errori e i suoi traumi e la ricerca della serenità che giungerà inaspettata quando emerge la certezza di non sapere più che cosa sia.
“Tornerà quando accetterò di averla perduta”
Nulla rimane uguale a se stesso e ognuno è non quello che sente di essere ma ciò che sta per diventare.
Una conclusione che, comunque la si consideri, infonde una speranza, quella che tutto alla fine possa avere un senso, che il dissidio tra libertà e destino sia superato in nome di una forza altra,  che non è quella che coltiviamo con i nostri dubbi e le nostre pretese, con le prove e le testimonianze, ma una forza spirituale che sgorga all’improvviso, riconosciuta e seguita mentre compie i suoi giri concentrici verso un centro indistinto, presente anche se in apparenza inesistente. E’ questa forza che distrae la protagonista, l’allontana dal suo passato in cui rischiava la morte, il soffocamento.
Un’ombra le si presenta allo sguardo di spalle. Sapere chi sia, cosa sia è difficile. Probabilmente il respiro dell’universo, la Vita oltre la vita.   
Si avvicinano l’uno all’altra. Due muti sguardi che guardano al mistero di fronte, sulle onde dell’oceano.
E poi, in silenzio, i passi procedono all’unisono, simultanei verso l’infinito. Come sempre quando nasce Amore.
Il dramma dell’esistenza, il senso della vita, la lotta impari di conciliare il passato con il futuro attraverso un presente  incoerente come sabbia, affrontati attraverso una sorta di narrazione poetica, sempre elegante e raffinata per quanto a tratti di difficile esegesi per i tanti richiami inespressi, per il carattere chiuso e circolare del racconto. Scelta stilistica che certamente conferisce maggior pathos all’opera per il fatto che le coordinate di riferimento tendono ad assumere connotati più psichici che materiali, e la narrazione procede spesso per piani cronologici in un continuo contrasto tra l’asse temporale degli avvenimenti narrati e il punto di vista della protagonista-Autrice.





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