“- o cipressetti cipressetti miei -
che vanno da Bolgheri a San Guido
in duplice filar…
lettera viva /quella poesia/ così antica -
ma pur sempre attuale”…
Questo è il nucleo poetico, ricordo
melanconico e nostalgico da cui si dipana, seguendo il filo della memoria come
di un racconto lontano, il poemetto poetico di Maurizio Soldini.
Una arcinota poesia, studiata
obbligatoriamente a scuola, con un po’ di noia ed enfasi sentimentale per i
giovani studenti dagli entusiasmi adolescenziali, che ha accompagnato la nostra
adolescenza “italiana”, ritorna alla mente, nei momenti più impensati, come dal
fondo di un dismesso canterale, sgomitando tra i ricordi, gravida di assopiti,
frenati sentimenti.
Ed allora non è più la carducciana voce,
ma il passato, l’adolescenza, gli affetti, la vita che riemerge come la
favolosa madeleine di proustiana memoria, la ricerca del tempo perduto, di un
“cielo senza tempo”.
È il viaggio unico ed indimenticabile
attraverso l’adolescenza.
I particolari diventano tutti metaforici:
il percorso sotto il solleone- una scottatura che duole ancora, il vaporare
dell’asfalto -fata morgana- che pesano sul cuore,…e il mare, il bel
casale toscano, lo scoglio, immagini di novità e felicità tutta da vivere,
conquistare. Tuffi di immersione nella vita.
Il poemetto è infatti dominato dalla forma
verbale dell’imperfetto: il viaggio si snodava, la fine non
aveva nome, era il passaggio della macchina sull’asfalto, era
da dietro…, era una zia, era un bel mare…
Il tempo del ricordare, il tempo della
gioventù sbadata, della felicità ora sbiadita…( come quell’s
-suffisso privativo-sibilante rende bene l’effetto del tempo che tutto
allontana!). Sapienza poetica calcolata, quella di Soldini, sincerità senza
censura, rinnovato inganno ottico, sentimento effusivo, malinconia di età che
non è più.
Maria Grazia Ferraris
Il
viaggio attraverso l’adolescenza
si
snodava lungo la dorsale tirrenica
e ogni
tanto la macchia mediterranea
si
rifletteva dal mare. Erano tuffi di vita
nel
tempo che misurava
un
cielo senza tempo.
La
fine non aveva nome e tutto stava fermo
nella
durata anche se il transito doleva
come
una scottatura sotto il solleone.
Era il
passaggio della macchina sull’asfalto
dell’Aurelia
a giacere quasi immobile
nell’abbraccio
della fata morgana
che
alludeva alla trasfigurazione
di un
inganno ottico misurato sul petto.
Era da
dietro che la voce sorvolava
le
chiome al vento coi finestrini aperti
e un
padre e una madre erano erano lì
forse
vessati ogni qual volta
in
quel passaggio
che si
traslittera dal paesaggio
come
da un libro
aperto
incontro a quei cipressi
- o
cipressetti cipressetti miei -
che
vanno da Bolgheri a San Guido
in
duplice filar.
Oh,
voce intenta al canto.
Era
una zia ad attendere più oltre
era un
bel mare che aspettava
un’isola
di novità
un bel
casale nella macchia
o una
casetta sugli scogli
che
ricordava la casetta in Canada.
Adesso
a ripensarci più non torna in mente
la
gioventù sbadata
che si
allietava per un tornaconto
di
felicità che ora sta sbiadita
- in
parte - nella città dei morti.
Ma
tuttavia rimane ancora lettera viva
quella
poesia
così
antica - ma pur sempre attuale –
che
sgomita per ritornare
anche
se non può più
e in
fondo a un canterale
dismesso
e rabberciato
nasconde
– libro vivo -
quel
che ora non è più.
Maurizio
Soldini
Roma,
23 giugno 2016
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