lunedì 12 settembre 2016

N. PARDINI: LETTURA DI "PER VIVERE ANCORA" DI ANNA VINCITORIO



Anna Vincitorio: per vivere ancora. Guida Editori. Napoli. 2012. Pg. 136. € 10,00

Una narrazione chiara, semplice, arrivante, persuasiva e pervasiva, quella della Vincitorio. Chi avesse letto la sua poesia non stenterebbe di certo a riconoscervi quell’animo snello, pulito, ambizioso a mantenere in vita stagioni ora burrascose ora lucenti del suo vissuto. E qui c’è una vita con tutto il patrimonio umano ed oltre; ci sono riflessioni, memoriale, saudade, realismo, luoghi compagni dell’amore, amori compagni di luoghi, personaggi, figure, aspetti che non possono morire, così come muore un autunno con le sue foglie arrugginite. Non è di certo azzardato parlare di prosa poetica; di contaminazione poematica: sembra proprio che da questi racconti in diacronica successione ogni tanto faccia capolino la virtù versificatoria di Anna e che questa virtù manifesti la sua presenza con calore e ardore, con grazia e riservatezza, con pennellate di colori e ondate di malinconia.  La realtà vi è con tutta la sua forza rappresentativa e mai come semplice ritrattazione bucolico-georgica; ma con tocchi di verismo in funzione analitico-psicologica; è lì per aiutare, con le sue immagini riposate, un animo che ha bisogno di configurazioni reali per concretizzarsi, per mostrarsi in tutta la tua  portata ontologica: “… Castagne fumanti sotto l’arco e un vecchio pianino, l’ultimo, che suona in via del Corso. Le grandi arterie sono frenetiche e pulsanti di luci sul far della sera; si stagliano i lampioni sull’Arno pigro e sempre uguale. Suoni randagi raccolti dal vento riportano agli occhi gli uomini fanciulli di quest’epoca: la fuga dal presente, il viaggio in campagna. Azzurri paradisi della durata di un biglietto da mille euro. Gli addobbi sempre uguali; il Natale è diventato un cliché nuovo formato. Il vecchio Rivoire diffonde odor di cioccolata ai marmi infreddoliti. I luoghi di ritrovo sono sempre gli stessi: bande di ragazzi e vecchi demodés con la farfalla al collo si alternano tra la Comune di Ponte vecchio e le prime al Comunale… Cosa cercare ancora nella mia città? È sempre tutto eguale, anonimi sussurri, risate disperate, o perlomeno frettolose… Tutto tace.”. Un verismo disilluso di Anna, un verghiano approccio con la città che la contiene; pennellate di verità che ritrattano, una volta fattesi immagini, l’amarezza di un luogo da sempre specchio dell’anima della scrittrice: tanto amore, tante illusioni, delusioni, tanta storia che corre forse troppo eguale in un animo pronto alla fuga.  Sta qui l’abilità della Vincitorio; ed è la stessa che ho rinvenuto  nei suoi versi, scattanti, concisi, apodittici, e immensamente umani; la sua è una ricerca continua verso un amore che non c’è, verso un’isola che non esiste; un azzardo perpetuo verso mondi che vanno al di là delle nostre possibilità terrene. D’altronde è nell’indole umana cercare alcove ove far riposare un esistere stanco di sottrazioni esistenziali; di una realtà che la scrittrice rivive in tutta la sua bellezza sfumata e sfuggita; parlare di  realismo lirico di fronte al suo percorso rievocativo ed evocativo non è di certo azzardato, dacché questa prosa ci riporta, senza dubbio, alla memoria quel Capasso il cui stile dominò per buona parte dell’altro secolo: “Lei cuciva, cuciva sempre, ma aveva tanto male alle gambe e le mani le dolevano sull’ago. I bei capelli, ora, erano grigi ma sempre intatta quella luce negli occhi di cerbiatta. Insieme ricordavamo i miei lontani giochi e quel periodo strano e triste in cui al mattino, nel cortile sottostante. Si vedeva ogni tanto una piccola bara…”. Quanta poesia in queste righe, in questi imperfetti che ci dànno il senso della continuità! Del perpetrarsi di emozioni che stentano a morire! E quanto facile sarebbe tramutare in versi queste rimembranze cariche di pathos e di thanatos, di nostos e di fugacità; di ambiente e di storia. Sì, quella fugacità che contraddistingue il nostro passaggio terreno che noi vorremmo portare oltre il guado, nel bene e nel male: “… Qualche vecchio, ora, non c’è più; se n’è andato in un mattino di sole tanti anni fa, all’improvviso. Io, da quella morte, ho iniziato ad avere coscienza della mia vita e a lottare. I figli crescono e si instaura un diaframma che li fa sentire lontani…”. La vita, i suoi passaggi, il suo scorrere, le mutazioni, le scottature, la solitudine, la coscienza del tempus fugit.  D’altronde tutte le sottrazioni che abbiamo subite col passare dei giorni assumono un valore particolare fino a spogliarsi di quel secco e lancinante sconquasso che provocarono. Toccata e fuga in queste rimembranze; spesso si legge fra le righe, o in semplici cenni verbali, l’animo a volte stanco, altre attaccato a sprazzi di luce per vivere ancora. E chi dice che non sia proprio la sedimentazione di quei fatti a dare i frutti più nobili per una poesia o una prosa volte a concretizzare la nostra epigrammatica vicenda? PER VIVERE ANCORA. Questo il titolo del testo che raccoglie una successione di racconti suddivisa in tre parti: Per vivere ancora, eponimo, la prima; Ritratti, la seconda; Quadrilogia per una sera d’estate – Magia, la terza. Già il titolo ci fa da antiporta, da prodromico messaggio al leit motiv che compatta e tiene unite le varie storie: una serie di perle infilzate in una collana di rara pulcritidine.  E quale sistema migliore per protrarre la nostra esistenza se non quello di ripescare nel fondo di noi stessi per ridare vita a ciò che l’oblio divorerebbe  con la sua insaziabilità. Mi piace riportare a proposito l’expilicit di un mio poemetto tratto dal libro Alla volta di Lèucade:

“… Ed io fuggii           
scabro settembre, mese addolorato,  
dal sangue che si sperde in ogni dove
dell’ultimo respiro della vita.
Io ti lasciai e un salto nelle oniriche
acque di Lèucade non mi concesse
morte né oblio, ma solo la ricchezza
d’immagini feconde rivissute
da un’anima al di sopra delle povere
storie del giorno. E ti rivissi, vita,   
con un sentire lieve e tanto amato
che in ogni fatto lieto o meno lieto,
ma scampato, vidi un superbo dono.”.

E la Vincitorio “rapina” in continuazione fatti, vicende, personaggi, ambienti, per crearsi un mondo proprio; un mondo che vada oltre il tempo, anche se il tempo gli fa da cornice; che vada oltre le ristrettezze del nostro soggiorno per farne un tappeto di velluto su cui passeggere con la propria anima.
“…Davanti a te si susseguivano lui e poi lui e lei e i bambini e gli altri.
Difficile seguirti, eppure tu tendevi la mano. Bisogno di non sentirti solo; la casa ti opprimeva e la terrazza  con sopra il cielo aperto era il luogo da cui avresti voluto spiccare l’ultimo volo.”. Quel volo che si fa oggettivazione universale di un’inquietudine umana; forse troppo umana per restare a terra.
Ma forse Anna trova proprio il completamento delle sue vicissitudini in un sogno; ha bisogno di sogni per vivere; di vele leggere, gonfie di vento e di azzurra passione; è così che impregnerà il suo giardino vivendo il connubio col suo mare:

Ho bisogno di sognare per vivere,
ho bisogno di vele leggere,
gonfie di vento e di azzurra passione
Cosparsa di alghe
impregnerò il mio giardino
vivendo il mio connubio
col mare


Nazario Pardini

Nessun commento:

Posta un commento