Anna Vincitorio: per
vivere ancora. Guida Editori. Napoli. 2012. Pg. 136. € 10,00
Una narrazione chiara, semplice, arrivante, persuasiva e
pervasiva, quella della Vincitorio. Chi avesse letto la sua poesia non stenterebbe
di certo a riconoscervi quell’animo snello, pulito, ambizioso a mantenere in
vita stagioni ora burrascose ora lucenti del suo vissuto. E qui c’è una vita
con tutto il patrimonio umano ed oltre; ci sono riflessioni, memoriale,
saudade, realismo, luoghi compagni dell’amore, amori compagni di luoghi,
personaggi, figure, aspetti che non possono morire, così come muore un autunno
con le sue foglie arrugginite. Non è di certo azzardato parlare di prosa
poetica; di contaminazione poematica: sembra proprio che da questi racconti in
diacronica successione ogni tanto faccia capolino la virtù versificatoria di
Anna e che questa virtù manifesti la sua presenza con calore e ardore, con
grazia e riservatezza, con pennellate di colori e ondate di malinconia. La realtà vi è con tutta la sua forza
rappresentativa e mai come semplice ritrattazione bucolico-georgica; ma con tocchi
di verismo in funzione analitico-psicologica; è lì per aiutare, con le sue immagini
riposate, un animo che ha bisogno di configurazioni reali per concretizzarsi,
per mostrarsi in tutta la tua portata ontologica:
“… Castagne fumanti sotto l’arco e un vecchio pianino, l’ultimo, che suona in
via del Corso. Le grandi arterie sono frenetiche e pulsanti di luci sul far
della sera; si stagliano i lampioni sull’Arno pigro e sempre uguale. Suoni
randagi raccolti dal vento riportano agli occhi gli uomini fanciulli di
quest’epoca: la fuga dal presente, il viaggio in campagna. Azzurri paradisi
della durata di un biglietto da mille euro. Gli addobbi sempre uguali; il
Natale è diventato un cliché nuovo formato. Il vecchio Rivoire diffonde odor di
cioccolata ai marmi infreddoliti. I luoghi di ritrovo sono sempre gli stessi:
bande di ragazzi e vecchi demodés con la farfalla al collo si alternano tra la
Comune di Ponte vecchio e le prime al Comunale… Cosa cercare ancora nella mia
città? È sempre tutto eguale, anonimi sussurri, risate disperate, o perlomeno
frettolose… Tutto tace.”. Un verismo disilluso di Anna, un verghiano approccio
con la città che la contiene; pennellate di verità che ritrattano, una volta
fattesi immagini, l’amarezza di un luogo da sempre specchio dell’anima della
scrittrice: tanto amore, tante illusioni, delusioni, tanta storia che corre
forse troppo eguale in un animo pronto alla fuga. Sta qui l’abilità della Vincitorio; ed è la
stessa che ho rinvenuto nei suoi versi,
scattanti, concisi, apodittici, e immensamente umani; la sua è una ricerca
continua verso un amore che non c’è, verso un’isola che non esiste; un azzardo
perpetuo verso mondi che vanno al di là delle nostre possibilità terrene.
D’altronde è nell’indole umana cercare alcove ove far riposare un esistere
stanco di sottrazioni esistenziali; di una realtà che la scrittrice rivive in
tutta la sua bellezza sfumata e sfuggita; parlare di realismo lirico di fronte al suo percorso
rievocativo ed evocativo non è di certo azzardato,
dacché questa prosa ci riporta, senza dubbio, alla memoria quel Capasso il cui
stile dominò per buona parte dell’altro secolo: “Lei cuciva, cuciva sempre, ma
aveva tanto male alle gambe e le mani le dolevano sull’ago. I bei capelli, ora,
erano grigi ma sempre intatta quella luce negli occhi di cerbiatta. Insieme
ricordavamo i miei lontani giochi e quel periodo strano e triste in cui al mattino,
nel cortile sottostante. Si vedeva ogni tanto una piccola bara…”. Quanta poesia
in queste righe, in questi imperfetti che ci dànno il senso della continuità! Del
perpetrarsi di emozioni che stentano a morire! E quanto facile sarebbe
tramutare in versi queste rimembranze cariche di pathos e di thanatos, di
nostos e di fugacità; di ambiente e di storia. Sì, quella fugacità che
contraddistingue il nostro passaggio terreno che noi vorremmo portare oltre il
guado, nel bene e nel male: “… Qualche vecchio, ora, non c’è più; se n’è andato
in un mattino di sole tanti anni fa, all’improvviso. Io, da quella morte, ho
iniziato ad avere coscienza della mia vita e a lottare. I figli crescono e si
instaura un diaframma che li fa sentire lontani…”. La vita, i suoi passaggi, il
suo scorrere, le mutazioni, le scottature, la solitudine, la coscienza del
tempus fugit. D’altronde tutte le
sottrazioni che abbiamo subite col passare dei giorni assumono un valore
particolare fino a spogliarsi di quel secco e lancinante sconquasso che
provocarono. Toccata e fuga in queste rimembranze; spesso si legge fra le
righe, o in semplici cenni verbali, l’animo a volte stanco, altre attaccato a
sprazzi di luce per vivere ancora. E chi dice che non sia proprio la sedimentazione
di quei fatti a dare i frutti più nobili per una poesia o una prosa volte a
concretizzare la nostra epigrammatica vicenda? PER VIVERE ANCORA. Questo il titolo del testo che raccoglie una
successione di racconti suddivisa in tre parti: Per vivere ancora, eponimo, la prima; Ritratti, la seconda; Quadrilogia
per una sera d’estate – Magia, la terza. Già il titolo ci fa da antiporta,
da prodromico messaggio al leit motiv che compatta e tiene unite le varie storie:
una serie di perle infilzate in una collana di rara pulcritidine. E quale sistema migliore per protrarre la
nostra esistenza se non quello di ripescare nel fondo di noi stessi per ridare
vita a ciò che l’oblio divorerebbe con
la sua insaziabilità. Mi piace riportare a proposito l’expilicit di un mio
poemetto tratto dal libro Alla volta di
Lèucade:
“… Ed io fuggii
scabro
settembre, mese addolorato,
dal sangue
che si sperde in ogni dove
dell’ultimo
respiro della vita.
Io ti
lasciai e un salto nelle oniriche
acque di
Lèucade non mi concesse
morte né
oblio, ma solo la ricchezza
d’immagini
feconde rivissute
da un’anima
al di sopra delle povere
storie del
giorno. E ti rivissi, vita,
con un
sentire lieve e tanto amato
che in ogni
fatto lieto o meno lieto,
ma
scampato, vidi un superbo dono.”.
E la Vincitorio “rapina” in continuazione fatti, vicende,
personaggi, ambienti, per crearsi un mondo proprio; un mondo che vada oltre il
tempo, anche se il tempo gli fa da cornice; che vada oltre le ristrettezze del
nostro soggiorno per farne un tappeto di velluto su cui passeggere con la propria
anima.
“…Davanti a te si susseguivano lui e poi lui e lei e i
bambini e gli altri.
Difficile seguirti, eppure
tu tendevi la mano. Bisogno di non sentirti solo; la casa ti opprimeva e la
terrazza con sopra il cielo aperto era
il luogo da cui avresti voluto spiccare l’ultimo volo.”. Quel volo che si fa
oggettivazione universale di un’inquietudine umana; forse troppo umana per
restare a terra.
Ma forse Anna trova proprio il completamento delle sue
vicissitudini in un sogno; ha bisogno di sogni per vivere; di vele leggere,
gonfie di vento e di azzurra passione; è così che impregnerà il suo giardino
vivendo il connubio col suo mare:
Ho bisogno di sognare
per vivere,
ho bisogno di vele
leggere,
gonfie di vento e di
azzurra passione
Cosparsa di alghe
impregnerò il mio
giardino
vivendo il mio connubio
col mare
Nazario Pardini
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