Floriano Romboli. L'azzardo e l'amore.
La ricerca poetica di Nazario Pardini. The Writer, 2018
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DAL TESTO
Capitolo
quarto
Il
personaggio di Ulisse. Tradizione e attualità
La
figura di Ulisse ha esercitato nei secoli un fascino irresistibile su una serie
pressoché sterminata di filosofi, narratori, poeti, pittori, scultori,
musicisti.
Anche
restringendo il discorso ad un àmbito puramente letterario, il numero degli scrittori
rimane imponente e darne un’idea pur superficiale appare un compito
estremamente arduo, quasi ai limiti delle possibilità di un’indagine
storico-culturale rigorosa.
Nondimeno
un noto studioso italiano, Piero Boitani, si è accinto con successo a questo
lavoro titanico, avviato con una ricognizione attenta delle “tracce” più
significative lasciate dal personaggio nelle letterature europee (L’ombra di Ulisse, 1992) e proseguito
nel grosso volume, di sorprendente ricchezza critica e documentaria, Il grande racconto di Ulisse, (2016), in
cui la ricerca e l’interpretazione ulteriormente si allargano e si
approfondiscono, comprendendo altresì le arti figurative e il cinema.
A suo dire l’eroe greco “costituisce fin
dall’inizio della sua esistenza mitico-letteraria un modello, una forma “multiforme”(polytropos) di vita umana piena di potenzialità”1), e
pertanto “è un personaggio mitico e letterario che interpreti, poeti e storici
leggono retoricamente e profeticamente come typos:
ombra che si allunga, trasformandosi, nell’immaginazione occidentale”2).
Ciò
è inoltre avvenuto perché il riferimento all’antico guerriero-navigatore ha
rappresentato per tanti autori l’occasione peculiare per un confronto complesso
e impegnativo, carico di implicazioni etico-intellettuali e quindi di
conseguenze auto-esplicative.
In
altre parole la sua avventurosa vicenda ha sempre svolto una preziosa funzione
chiarificatrice, ha avuto l’effetto di un “reagente” culturale in grado di
concorrere alla definizione di nuove concezioni, di differenti orientamenti
d’arte e di pensiero, sicché al lettore di oggi avviene inevitabilmente quanto
affermava per sé Italo Calvino:
Se
leggo l’Odissea
leggo il testo d’Omero ma non posso dimenticare tutto quello che le avventure d’Ulisse sono
venute a significare durante i secoli, e non posso non domandarmi se questi
significati erano impliciti nel testo o se sono incrostazioni o deformazioni o
dilatazioni3)
Non
è certo possibile in questa sede soffermarsi su questo percorso lungo e
articolatissimo; credo però che sia utile, ai fini di un corretto apprezzamento
della “fortuna” di Ulisse e in special modo della sua presenza attiva e stimolante
all’interno dell’opera poetica di Pardini, insistere sul ruolo fondamentale
avuto – ovviamente – dai poemi omerici, e specificamente dall’Odissea, e dall’episodio dantesco del
canto XXVI dell’Inferno: i primi considerati
come il momento imprescindibile dell’originaria formazione di un paradigma
antropologico; il secondo quale sede di una ricodificazione del mito e centro
di irradiazione nella cultura europea di un’esemplarità moralmente rimeditata.
È
noto infatti che, se nell’Iliade il
poeta si concentra su un particolare tematico (l’ira di Achille) dai tragici
effetti per la guerra combattuta dall’esercito greco, con l’Odissea si prefigge fin dall’inizio di
cantare un “uomo” (“Cantami l’uomo”, Ἂνδρα
μοι ἓννεπε); dichiara cioè l’intento di fissare il nucleo strutturale
primario, i tratti tipologici di una figura destinata per tanto tempo a imporsi
per il suo valore archetipico nell’immaginario dell’Occidente.
Nel
secondo poema Ulisse ci appare innanzitutto come eroe del viaggio, pur in un quadro sentimentale-psicologico vario e accuratamente
chiaroscurato.
Le
peregrinazioni nel Mediterraneo sono per un lato indizio del suo insaziabile
desiderio di conoscenza, della volontà di compiere nuove esperienze; per un
altro sono il risultato della coazione divina - sono dovute alla collera del
dio del mare Poseidone per l’accecamento del figlio, il ciclope Polifemo - che
lo condanna al crudele esilio dalla patria e dagli affetti, con la correlativa
condizione di privazione e di sofferenza nella quale Omero spesso lo
rappresenta, lodandone la forza d’animo e le doti straordinarie di
sopportazione.
Alla
passione conoscitiva si unisce in lui la grande versatilità intellettuale (v.
il noto aggettivo πολύτροπος a lui riferito già nel
verso incipitario, che Ippolito Pindemonte nella sua classica versione tradusse
felicemente con “di multiforme ingegno”), la quale nel corso delle vicende acquista
le forme della proverbiale astuzia, dell’accortezza ingannatrice – di cui è
componente sostanziale la magnifica, affascinante eloquenza –, e altresì
dell’abito riflessivo e dell’attitudine al controllo razionale degli impulsi
istintivi, come allorché rinuncia a uccidere nel sonno il ciclope assassino o
prepara pazientemente la vendetta sui Proci, aspettando con lucidità il momento
propizio per l’azione punitiva che non lascia scampo ai rivali.
L’indole
fraudolenta, l’innata abilità menzognera dell’Itacese non sono d’altronde
taciute dall’antico autore, se nel suo racconto la stessa Atena gli si rivolge
con queste parole:
“Uomo
sciagurato, ricco di tanti inganni, mai pago di frodi, non hai in animo/ nemmeno ora che sei nella tua terra, di smettere le astuzie/ e i racconti mendaci, che a te son cari fin dall’infanzia”( Σχέτλιε, ποικιλομῆτα, δόλων ἆτ’, οὐκ ἄρ’ ἒμελλες,/οủδ’ ἐν σῇ περ ἐὼν ϒαίῃ, λήξειν ἀπατάων/
μύϑων τε κλοπίων, οἳ τοι
πεδόϑεν φίλοι εισι, XIII, vv.293-295)
A
tale riguardo un esperto conoscitore del mondo omerico come Moses I. Finley ha
scritto:
In
Odisseo, come eroe, c’era qualcosa di
equivoco proprio a causa della sua qualità più famosa, l’astuzia (…) Ciò che salva l’Odisseo
omerico è il fatto che la sua scaltrezza
è impiegata per perseguire fini eroici4);
più
concretamente direi che Ulisse è pronto a usare le sue doti in negativo contro i nemici, con
risoluta e aspra determinazione, senza cedimenti emotivi, ma anche in positivo a favore degli amici, forte
di un’incrollabile tenacia e di un solido equilibrio.
C’è
comunque da aggiungere che tali aspetti meno nobili del personaggio risultano
del tutto estranei alla rielaborazione artistico-letteraria di Pardini, il
quale certo non ignora la narrazione poetica di Omero; e che i medesimi sono
invece essenziali nella puntualizzazione del significato complessivo
dell’incontro di Dante e Virgilio con la bifida fiamma in Malebolge, l’altra fonte
decisiva del moderno scrittore toscano:
Rispuose
a me: “Là dentro si martira
Ulisse
e Diomede, e così insieme
a la
vendetta vanno come all’ira;
e
dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato
del caval che fé la porta
onde
uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi
entro l’arte per che morta,
Deidamìa
ancor si duol d’Achille,
e del Palladio
pena vi si porta (Inf., XXVI, vv. 56-64)
Più
precisamente era stata la tradizione latina e soprattutto l’Eneide a operare una schematizzazione
riduttiva della complessità della figura omerica, isolandone le qualità
intellettive per lo più caratterizzate negativamente.
Infatti
il poema di Virgilio rivela un animus
generalmente ostile ai Greci e favorevole ai Troiani ritenuti i progenitori dei
Romani; il nuovo e autentico eroe è il pius
Enea, che viene proposto in opposizione alla perfidia, alla slealtà, allo spirito
di sopraffazione greci, di cui è il più emblematico rappresentante il durus, il saevus, il pellax, il dirus Ulisse, la connotazione negativa
del quale arriva ai celebri epiteti sprezzanti di scelerum inventor e di fandi fictor.
Fino
a Dante era giunta la fama della superbia, dell’altezzoso senso di superiorità
ellenici, al punto che nel suo racconto è Virgilio a rivolgere la preghiera
alla fiamma “cornuta”:
Lascia
parlare a me; ch’io ho concetto
ciò
che tu vuoi: ch’ei sarebbero schivi,
perch’ei
fur Greci forse del tuo detto (ibidem, vv. 73-75);
però,
rispetto alle testimonianze classiche, la concezione dell’Alighieri si dimostra
indubbiamente originale nel suo incardinarsi sull’ultimo viaggio del Laerziade
verso l’ignoto, sulla temeraria prova affrontata per misurare le possibilità
estreme della “virtù” umana e appagare la mai placata sete di sapere.
Si
è a lungo dibattuto intorno alla natura colpevole ovvero non peccaminosa del
“folle volo” di un uomo la cui anima è punita nell’Inferno a causa dei suoi
consigli di frode, questione sulla quale vorrei anch’io fra poco intrattenermi
brevemente. Ma indipendentemente dalla soluzione che si voglia dare a tale
problema, certo è che l’ideazione dantesca rivela una profondità etico-umana
che spiega la sua straordinaria incidenza culturale e storica, a completamento
e vigoroso arricchimento del modello antropologico prospettato nell’Odissea.
La
costruzione del personaggio da parte di Pardini privilegia con nettezza il
navigatore, l’uomo del viaggio a
petto dell’eroe guerriero, alle cui gesta in battaglia manca ogni allusione
significativa:
Ho
corso mari ribelli
contrari
alla mia vita.
Cercar
di penetrare avanti
fra le
colonne che videro perire
uomini
nati per virtute
è
inutile o dea del piacere,
se la
stanchezza è nell’eterno
o
nella vita grama
di
esistenze mortali.
Vinto
dai limiti d’intorno,
l’ignoto
mi dà forza
e mi
alimenta fecondo o creatore
d’immagini
nervose e prepotenti (Dai Feaci ridenti
di pace, in Le voci della sera,
vv. 5-17)
Il
protagonista dell’Odissea è qui un individuo
combattuto tra i limiti connaturati
all’esistenza dell’uomo (accanto all’insorgente stanchezza, il bisogno ineliminabile
di pace e di affetto) e l’insofferenza degli stessi in un moto di sfida conoscitiva (“l’ignoto mi dà forza”)
e di indòmita tensione vitale, irrefrenabile ed esaltante.
In
un altro componimento della stessa silloge il riferimento all’Itacese è in terza
persona (“Ulisse guarda orizzonti/ e
immaginari ponti levano sguardi/ oltre i
confini/ tardi sogni mai stanchi/ di uomini irti di voglia e di salmastri”,
Petrosa rivolta al cielo, vv. 6-10,corsivi
miei), ma è chiaro il ribadimento della forte conflittualità entro cui si inscrive la
vicenda di lui, che appare bilicato fra l’esigenza, acutamente avvertita,
dell’esplorazione di terre e di acque lontane e misteriose e la coscienza dei
gravi pericoli comportati dal viaggio “oltre”
i luoghi familiari e rassicuranti:
Vide
lo scafo di nuovo
i tuoi
compagni
a
poppa venti fecondi
errabondi
in mezzo all’acque
che tacque il tuo poeta
fino
alle fiamme del vate fiorentino
e gorghi
vide
sopra
spavaldi eroi
inabissarsi
speme
di
nuovi arcani mondi
oltre
gli stretti fini (ibidem, vv. 11-21,
corsivi miei: la “rimalmezzo” segnalata con i corsivi è pure indicatore “allusivo”
della presenza aggiuntiva nel contesto del Foscolo di A Zacinto)
Ne
Il fatto di esistere lo scrittore gli
si rivolge direttamente, ritraendolo nell’atto consueto di “mirare” il mare con
l’animo percorso contrastivamente dal richiamo della libera navigazione e dal
calore di un tenero sentimento (“Miravi Ulisse/ il mare al suo calare,/un’immagine
di fanciulla/ rompeva il nulla attorno,/ l’adagiato tuo silenzio”, Miravi Ulisse, vv.1-5): è una condizione
psicologica che consente la piena identificazione posta in risalto, tra
l’altro, dalla sequenza assonante:
Il mare
va lontano
Ulisse
e ci
rapisce:
io la
rivedo ancora
con
gli occhi ai suoi tramonti;
pareti
inumidite,
sett’anni
il suo respiro
rtorna
con il mare (ibidem, vv. 6-13, corsivi miei)
Ne
La cenere calda dei falò un testo –
che consta di un rimando esclusivo e dichiarato alla poesia di Dante – presenta
ancora l’immagine di Ulisse che scruta il mare, “mirando” impavidamente la via
per nuovi percorsi di vita, per nuovi itinerarî di pensiero:
Ed
Ulisse saziato giammai colse
in
seno di Penelope appagata,
né
ciurma naufragata nei marosi,
ma al
di fuori dei classici pensieri
rivide
sulle sponde dei suoi mari
l’uomo
a mirare lampi d’infinito
con
sguardo ardito oltre i perigli arcani.
Il rinascente spirito leniva
messaggi
del divino incontrollati (Con Dante, vv.
19-27, corsivi miei)
Con
qualche forzatura storico-critica l’autore moderno interpreta l’opera dantesca e
segnatamente l’episodio narrato nel canto XXVI dell’Inferno quale precorrimento
geniale dello spirito individualistico, della sicurezza pragmatica e
realizzatrice dell’homo faber cari
alla vision du monde
umanistico-rinascimentale:
Attendere
altri lidi ed altre soglie
di
libertà altre voglie si doveva,
perché
potesse correre le cime
con
ippogrifi superare spazi
e con
magie sublimi vincer fini
in trame
di poeti ed invenzioni
volte
del fato a renderli padroni
un
essere che ancora non volava (ibidem, vv. 32-39)
La
ricchezza polisemica dell’arte di Dante è all’origine delle reiterate discussioni
intorno all’ultimo viaggio di Ulisse.
Uno
storico della filosofia medievale, Bruno Nardi, lo reputava un’azione di
deliberata ribellione a Dio, un comportamento simile a quello degli angeli che,
come del resto i progenitori dell’umanità, vollero essere simili a Lui e furono
esemplarmente puniti.
Un
grande critico letterario, Mario Fubini, vi vedeva invece soltanto la manifestazione
di uno schietto e intenso desiderio di conoscenza, in cui è ravvisabile il
tratto più alto e nobile dell’uomo, che appunto in questo si differenzia dagli
animali.
Secondo
l’italianista torinese l’Itacese è punito nella bolgia non a causa del viaggio
oceanico (che è raccontato dall’Alighieri con palese ammirazione), bensì per
l’inganno del cavallo e per le altre frodi che secondo la tradizione egli aveva
ordito.5)
Tuttavia,
se è sincero l’apprezzamento espresso dal poeta nei riguardi del proprio
personaggio, ciò non implica la sottovalutazione o addirittura la negazione
della violazione di un divieto, ossia
dei limiti che Dio ha posto agli
uomini fin dalle origini della storia.
Avere
infranto questo divieto rende folle
il “volo” del re di Itaca e dei suoi compagni, lo assimila al peccato di Adamo
per il loro comune consistere nel “trapassar del segno” (v. Par., XXVI, vv.115-117: “Or, figliuol
mio, non il gustar del legno/ fu per sé la cagion di tanto esilio,/ma solamente
il trapassar del segno”), vale a dire nell’andare al di là dei confini voluti
dalla Divinità.
Questa
ben definita problematica morale e artistica, ma anche teologica (e nell’autore
della Commedia tra il poeta e il
teologo non è pensabile un disaccordo) riconduce la concezione di Dante, pur
con la sua originalità, entro un orizzonte filosofico sostanzialmente
medievale.
Il
che non impedirà agli scrittori del Rinascimento – secondo l’intuizione
interpretativa di Pardini – di rielaborare il locus dantesco come conseguenza di un mutato atteggiamento mentale.
Nel
canto XV della Gerusalemme Liberata,
in un accurato disegno di fitte corrispondenze intertestuali, il Tasso compie
un’interessante ridefinizione della figura di Ulisse fondata ideologicamente
sul significato, rinnovato ed eticamente pregnante, della sua estrema avventura
per mare.
Le
terzine del poeta fiorentino funzionano da preambolo ipotestuale indispensabile
alla nuova caratterizzazione:
… Ercole,
poi ch’uccisi i mostri
ebbe
di Libia e del paese ispano,
e
tutti scòrsi e vinti i lidi vostri,
non
osò di tentar l’alto oceàno:
segnò
le mete, e ‘n troppo brevi chiostri
l’ardir
restrinse de l’ingegno umano;
ma
quei segni sprezzò ch’egli prescrisse
di
veder vago e di sapere Ulisse.
Ei
passò le Colonne, e per l’aperto
mare
spiegò de’ remi il volo audace;
ma non
giovogli esser ne l’onde esperto,
perché
inghiottillo l’ocean vorace (XV, ottave 25 e 26 (vv. 1-4, corsivi miei)
I
corsivi sono vòlti a sottolineare le modificazioni profonde ormai determinatesi
nel quadro valutativo d’assieme.
In
particolare il “folle” volo è ora chiamato “audace”, in accordo con
l’individualismo attivo e orgogliosamente esplorativo che aveva portato alle
grandi scoperte geografiche ben note all’autore che scriveva nel secondo
Cinquecento.
Questi
subito dopo riconosceva con consenso ammirato in Cristoforo Colombo il nuovo
Ulisse, marinaio intrepido e valoroso, portatore della civiltà e della fede nel
vero Dio:
Tempo
verrà che fian d’Ercole i segni
favola
vile a i naviganti industri ,
e i
mar riposti, or senza nome, e i regni
ignoti
ancor tra voi saranno illustri (XV, ott.
30, vv. 1-4);
Un uom
de la Liguria avrà ardimento
a
l’incognito corso esporsi in prima (ibidem, ott. 31, vv. 1-2);
Tu
spiegherai, Colombo, a un novo polo
lontane
sì le fortunate antenne,
ch’a
pena seguirà con gli occhi il volo
la fama
c’ha mille occhi e mille penne (ibidem, ott. 32, vv. 1-4)
L’Ottocento
romantico e post-romantico svilupperà ulteriormente il tema, delineando un
considerevole ampliamento della tavola dei valori che ispira e sostiene
l’animoso progetto del Laerziade (e dei suoi compagni), visto che questa ormai
include, oltre alla brama di conoscere, l’intrepido attivismo, l’ambizione a
una vita eroica e idealmente paradigmatica e quindi a una fama imperitura,
quando non la vocazione al primato, all’egemonia aggressiva e superomistica del
solitario personaggio di D’Annunzio nella precedentemente menzionata Laus vitae (1903), che è grandissima
parte di Maia, il primo libro delle Laudi.
Più
specificamente Alfred Tennyson, nella parte finale dello Uliysses – il breve componimento del 1833 accolto successivamente
nei Poems (1842) del poeta inglese –,
fa pronunciare all’Itacese rivolto ai
suoi uomini un invito che verrà sentito come la divisa ideologica di tutta la
stagione storica e culturale dell’impero britannico:
Venite,
amici, non è troppo tardi/ per cercare un mondo più nuovo (…) Noi siamo quello che siamo; cuori della medesima
tempra eroica,/ indeboliti dal
passar del tempo e dal destino,/ ma saldi nella volontà di lottare,/ di cercare,
di trovare, di non arrendersi ( Come, my friends,/ It is not too lake a newer world (…) That wich we
are, we are,/ One equal temper of eroic hearts,/ Made weak by time or fate, but strong in will/ To strive, to seek, to find,
and not to yield, vv. 56-57 e 67-70)
Tornando
a Pardini, occorre dire che nelle raccolte successive egli sembra semplificare
il discorso lirico, optando ora per l’uno, ora per l’altro corno dell’antitesi di cui in precedenza si è detto.
Infatti
in Paesi da sempre si prefigge di
scrivere “il poema di Ulisse al suo ritorno”, nel quale il Laerziade, stanco di
battaglie e di peripezie sul mare, si dichiara alfine soddisfatto del
“ritorno”, godendo intimamente dei confini di una realtà circoscritta ma consolante
nella sua dolce familiarità:
…Vele
gonfie
di
venti ormai propizi e non nemiche
di
ostacoli divini aria di terra
respirano
vogliose. Io resterò
(non
varrà certo chiudere il poema
combattendo)
sull’isola sereno.
Anche
se il mare porterà messaggi
diffusi
da sirene, ed ai tramonti
le
voci di compagni di viaggio
mi
porterà dai lidi più remoti,
non
avrò più il coraggio d’inventare
ciurme
nutrite per solcare i pelaghi
e
sfidare colonne. Il dio ch’io amai
mi ha
detto di restare in mezzo ai pini,
ai
glicini di luoghi solitari
ch’io
non potei gustare in una vita
consumata
sui gorghi dei salmastri (Quello che scriverò,
vv. 74-90)
Confondendo
la sua identità con quella dell’autore, in un’atmosfera autunnale languidamente
malinconica - si tratta di versi già a
suo luogo analizzati -, il re di Itaca pare altresì prendere le distanze dalle
vicende capitategli, con un tratto di mesta perplessità che potrebbe ricordare
il Pascoli de L’ultimo viaggio, una
poesia composta nel 1903 e compresa dal poeta romagnolo nel 1904 nel libro dei Poemi conviviali.
Se
l’Ulisse pascoliano è assalito dal dubbio che i viaggi e gli accadimenti di una
volta non siano stati esperienze reali, ma frutto di immaginazione (e per
questo si rimette per mare alla vana ricerca di una conferma acquietante),
quello pardiniano è convinto della mediocrità delle illusioni (“E forse a vuoto/
d’argomenti sinceri non è detto/ non ci mettiamo pure ad inventare/ passati
incontri. E noi ci sforzeremo/ di crederci magari (…) È facile per gli uomini
inventare/ nei loro sogni vite che non hanno/ più niente a che vedere con i
fatti/ che vissero”, ibidem, vv. 17-21 e 45-48) e dell’importanza di ricercare
la felicità in mezzo alle piccole cose quotidiane:
… E
vivere lo sguardo
del
paradiso in ultimo sui volti
di chi
con noi ha vissuto tra le stesse
pareti,
equivarrà ad una commedia
che
chiude la sua trama in lieto fine (ibidem, vv. 120-124)
Si
tratta, come ognuno può constatare, di una scelta opposta ai τóποι
dell’ulissismo otto-novecentesco.
Al
contrario senz’altro ne risente Alla
volta di Lèucade, ove nella lirica Il
ritorno di Ulisse, considerata anche nella prima sezione del capitolo
secondo, si canta l’energia vitalistica “di chi non sentì mai sopita in
anima/la voglia del viaggio” (vv. 58-59,
cors. mio).
“L’ora
è giunta”: un identico emistichio sigla la parte finale di questo come del
testo poco sopra preso in esame; ma i significati divergono sensibilmente.
Nella
seconda poesia l’opposizione tra l’isola
e la sua angusta dimensione (“È questa la mia isola./Qui alla sera ritorna
frale e morbida/ l’idea dei meriggi e il lungo andare” (ibidem, vv.11-13), e la
voglia di ignoto e di immenso che costantemente sostiene l’andare dell’eroe greco viene superata
nella scelta inequivoca: egli riprenderà il viaggio con fermezza ed entusiasmo. Nell’
“Oceano aperto”, nella sfida all’“ignoto” sono i segni della “libertà” e della
“dignità” inviolabile di ogni uomo “fatto” non per vivere come un bruto, ma per
“seguir virtute e canoscenza”.
Tali
valori cardinali, immortalati nei versi dell’Alighieri, risuonano confortatori
e fortificanti persino in quell’orrendo universo concentrazionario di dolore e
di morte scientificamente programmati che fu il campo di sterminio di
Auschwitz-Birkenau, secondo quanto si racconta in quel prezioso capitolo di Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi
intitolato per l’appunto Il canto di
Ulisse.
Il
riferimento all’Itacese torna pure ne Le
simulazioni dell’azzurro e ne L’azzardo
dei confini, in situazioni ancora differenti e sempre degne d’attenzione.
Nel
primo caso le considerazioni del poeta insistono nuovamente sul νóστος
dell’eroe, un ritorno che coincide con la fine di un percorso che è poi quello dell’esistenza
stessa:
Sono
di nuovo da te dopo il viaggio (…)
Sono
tornato alle tue mura
città
che mi contieni. Ti ricordi? Alla partenza
vibrava
d’incoscienza e voglia di conoscere il mio animo (…)
Ora
che torno vorrei tanto il tempo
per
dirti le mie gioie e i miei tormenti (La
ricchezza della sera, vv. 1 , 5-7 e 9-10)
I
significati del testo assumono una chiara valenza allegorica e la “sera” diventa
il momento della riflessione consuntiva, del bilancio di una vita, comunque
ricca di incontri, di esperienze, di conoscenze, di tante occasioni di crescita
intellettuale e morale:
Tutto
questo vorrei dirti; tante storie:
incontri
con giganti, con fanciulle
allettanti
che tenevano il sapere
e per
quello avrei dato anche la vita (…)
…
Torno a sera
zeppo
di vita, arricchito di genti di mari
e di città
che
colmarono in parte le mie voglie. E questa è la mia sera:
è
un’ora che lascia all’incoscienza del mattino
in cui
partii, la ricchezza e i dubbi del ritorno (ibidem, vv. 14-17 e
27-31, corsivi miei)
Da
questo punto di vista l’augurio dello scrittore toscano è che per ognuno il
corso della vita sia il più “zeppo” possibile di situazioni di arricchimento interiore,
in una suggestiva concordanza con gli ammonimenti rivolti al lettore in Itaca ( 1911) dal grande poeta neoellenico
di Alessandria Costantino Kavafis:
Se
per Itaca volgi il tuo viaggio,/
fa voti che ti sia lunga la via,/ e colma di
vicende e conoscenze (…) Fa voti che ti
sia lunga la via./ E siano tanti i mattini d’estate/ che ti vedano entrare ( e con che gioia / allegra!) in porti sconosciuti prima (…) Itaca tieni sempre nella mente./ La tua sorte ti segna quell’approdo./ Ma non
precipitare il tuo viaggio./ Meglio che duri molti anni, che vecchio/ tu finalmente attracchi all’isoletta,/ ricco di quanto guadagnasti in via,/ senza aspettare che ti dia ricchezze (trad. di F. M. Pontani)
(Σὰ ϭϒεῖς στόν πηϒαιμὸ ϒιὰ τὴν Ίθάκη, / νὰ εὔχεσαι
νἆναι μακρὺς ὁ δρόμος,/ ϒεμάτος περιπέτειες,
ϒεμάτος ϒνώσεις
(…) Νὰ εὔχεσαι
νἆναι μαχρὺς ὁ δρόμος. /
Πολλὰ τὰ καλοκαιρινὰ πρωϊὰ νὰ εἶναι /
ποὺ μὲ τί εὐχαρίστησι
μὲ τί χαρὰ / θὰ μπαίνειϛ σὲ λιμέναϛ πρωτοειδωμένουϛ (…) Πάντα στὸ νοῦ σου νἄχειϛ τὴν Ἰθάκη./ Τὸ ϕθάσιμον ἐκεῖ εἶν’ ὁ προορισμός σου./ Ἀλλὰ μὴ ϭιάζειϛ τὸ ταξεῖδι διόλου./ Καλλίτερα χρόνια
πολλὰ νὰ διαρκέσει/
καὶ ϒεροϛ πιὰ ν’ ἀράξειϛ στὸ νησί,/πλούσιοϛ μὲ ὅσα
κέρδιδεϛ στὸν δρόμο,/ μὴ
προσδοκῶντας πλούτη νὰ σὲ δώσει ἡ Ἰθακη
(vv. 1-3, 13-16, e 24-30)
Acquista
piuttosto un contenuto antropologico il richiamo al Laerziade contenuto in un componimento ricordato
verso la fine del capitolo secondo, Tra
un dio e l’uomo, presente ne L’azzardo
dei confini.
Dinanzi a una perfezione e
un’eternità fredde, atone e respingenti un dio confessa di preferire i “limiti”
spazio-temporali insiti nella condizione umana poiché coefficienti di
appassionamento e di intensità vitali:
… È il
suo mondo
ch’io
invidio; egli sente che mortale
è
l’essere vivente ed ogni cosa
ed
ogni movimento, ogni passione
è
intensa più del cielo; e mentre il tutto
è
aspro e lacerante se in eterno,
l’uomo
misura con lo spazio e crea
ogni
cosa nei limiti del tempo.
La
gioia si fa nulla se per sempre (vv.
16-24, corsivi miei),
per
poi concludere con l’evocazione del personaggio-emblema dell’intera umanità:
Ulisse
rifiutò spazi divini
per
ambire al mistero di un mortale (ibidem, vv. 43-44)
Negli
ultimi volumi di versi di Pardini osserviamo un esplicito ridimensionamento
della figura e delle funzioni di Ulisse.
Ad
esempio in Nausicaa sulle rive del Serchio,
da Cronaca di un soggiorno, il suo
protagonismo si riduce nettamente a favore della contemplazione della fresca
bellezza della giovane donna, le cui forme sensualmente invitanti e la cui
leggiadra avvenenza costituiscono il motivo saliente di una lirica dalla tersa
fluidità formale-stilistica:
In
ogni luogo delle mie canzoni
ci
sono Nausichee a ricordare
lo
splendore degli anni. Il bello dell’amore.
Il
fulgore del bello. Nausichee
che si
aggirano su spiagge per cantare
inni
di gioia, speranze giovanili,
sogni
di dee, immagini di volti (vv. 11-17)
Di
lui non si fa neanche il nome in un’altra ben riuscita poesia, inclusa nella
stessa silloge e intitolata Partire, anch’essa
già rammentata nel capitolo precedente.
Si omette il nome, non però lo
spirito dell’audace viator, che permea
vivamente di sé l’intero testo:
È nel viaggio che sentiamo viva
l’ebbrezza della vita; la sua fine
segnerebbe
la morte di un poema.
Guardiamo
avanti, impavidi e tenaci,
ancorati
a una barca alla deriva;
a vele
ormai sciupate,
che
reggono a fatica il maestrale;
con noi c’è solo il brivido del poi (vv. 44-51,
corsivi miei)
Note
1) P. Boitani, Il grande racconto di Ulisse, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 112.
2) Boitani, Il
grande racconto, cit., p. 125.
3) Vedilo in Boitani, cit., p. 78.
4) M.I. Finley, Il mondo di Odisseo, Bari, Laterza, 1978, p. 72.
5) Riguardo a questa discussione critica, che
risale ormai a molti anni fa, ma che è tuttora istruttiva per il valore degli interlocutori e per la qualità culturale
del confronto, sono da vedersi B. Nardi, La
tragedia di Ulisse in ID., Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, 1942 e 19492, pp.
88 – 99; e M. Fubini, Il peccato di
Ulisse, in ID., Il peccato di Ulisse
e altri scritti danteschi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, pp. 1 – 36.
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