Il “rimpianto” di Nazario Pardini
Marco dei Ferrari, collaboratore di Lèucade |
Pardini in questa struggente metamorfosi lirica rievoca sé stesso nel rapporto privilegiato con la famiglia ora perduta. Famiglia che solo le “parole” dell'artista “risorgono” nel rimpianto di un memorare molto desiderato, ma non realisticamente puntualizzato.
Il gesto poetico ora si tramuta in esortazione auto-impressiva ad esprimere sé stessi nel padre, nella mamma, nei fratelli senza nascondersi nell'accorciare luoghi e tempi che non ritornano mai a reclamare lo strappo emotivo più drammatico e fatale.
Tutto si confonde nel tempo, ma non il rimpianto del rinvio di un'immagine, un impulso, una carezza amorevole tradotta in pochi cenni affettuosi sufficienti a modificare un rapporto chiuso in aperture di incredibili, profondi significati spirituali.
Il ritorno purtroppo per il Poeta non è la soluzione ottimale perché è doloroso rivedere volti, luoghi (le mura della sua casa stretta) e sguardi in un vorticarsi angosciante, di autocritiche disperate. L'unico sollievo forse è l'estrapolazione di una circostanziale presenza da un tempo preordinato, nel proiettarsi oltre la muraglia della memoria semplicemente passiva che si tormenta sempre.
L'unico sostegno alla sofferenza è il non ripetere l'errore e Pardini ne sottolinea con intensa partecipe efficacia la validità celebrando il colloquio, la comunicazione permanente tra le generazioni, tra parenti, figli e genitori, nel contesto familiare più netto e solido. Il rammarico dunque trova sollievo (sia pure limitato) e si esprime nella parola non espressa prima, ma liricamente trovata dopo. Parola corale che circonda ogni essere umano in qualsiasi momento.
Tutto finisce per ricomporsi poi in una fase creativa che neanche il dolore può comprimere e che il ricordo può alleviare con il proposito di non ripetere. Nazario Pardini dunque esorcizza la memoria caduca nella liricità ritrovata a fronte di un “riserbo” superato ed inconcepibile per la sua sensibilità intuitiva intangibile e duratura.
La sensibilità lirica che si sostanzia anche nel rimbombo di un eco, nell'ansia di uno sguardo, nel grido inutile di un sogno malinconico irripetibile, nell'attesa di quelle poche “parole” non dette che Pardini ci illustra esortando la nostra interiorità più sincera a non farsi male.
Marco dei Ferrari
Parole
non dette
Quanti
di noi non hanno fatto a tempo
a dire al padre, alla madre o al fratello
frasi
rimaste dentro, non uscite:
“Ti
voglio bene, scusami, perdono….
Andiamo
insieme oggi a passeggiare.
Quella
via che un giorno ci portò
alle
mura di una casa stretta
è
sempre là che aspetta il nostro sguardo.
Andiamo,
andiamo, padre, ne ho bisogno…”.
Torneranno
improvvise quelle frasi
prima
che il sonno giunga; e come un’eco
rimbomberanno
da una stanza all’altra,
per
non darti riposo: proveranno
a
ritrovare il volto di chi c’era
per
giungere alla fine nell’alcova.
Costruiranno
scale per toccare
sguardi
rimasti in ansia ad aspettare
parole
non finite, scolorite
che
girano ancora in mezzo alle intemperie
senza
trovare il posto; senza posa.
E noi
gridiamo al vuoto il nostro male,
lo
spleenetico ingombro che ci assale.
È
inutile gridare! O sperare
nei
sogni per poterci riprovare.
Facciamolo
da vivi, quando loro
ti
guardano con ansia nell’attesa
di un
qualcosa che tu e solo tu
potrai
donare. Tornassero in vita
quei
padri, quelle madri o quei fratelli
che
cosa pagheresti! O non faresti
per
poterti liberare del fagotto
che non
ti fa dormire.
“Volesse
il cielo che…”, se l’hai presenti
fissali
intensamente, dagli il cuore,
parlagli
di tutto; non lasciare
che
quelle tre parole non uscite
restino
senza tempo, a navigare
perdutamente
in mezzo a un grande mare
sperdute,
spaesate, sbatacchiate
dai
venti e dai salmastri; e impaurite
senza
mittente senza compagnia
tornino
a casa stanche a farti male.
N. Pardini
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