Maria Grazia Ferraris, collaboratrice di Lèucade |
Omaggio a EMILY Dickinson
Ogni
giorno sul quotidiano Q.N. nella rubrica
NOTIZIE di POESIA, curata dal prof. M. Marchi, viene pubblicata in bella
evidenza una poesia di autore italiano o straniero, preceduta da una breve
introduzione. Aspetta i commenti dei lettori, che non mancano mai, e spesso sono di notevole interesse e grande
coinvolgimento: la poesia non muore, qualsiasi il tempo deprecabile si stia
vivendo, per nostra consolazione!
Alla
fine del mese si tocca con mano quale delle poesie pubblicate ha avuto i
maggiori consensi dei lettori. Ed è un bel test! Questo mese di dicembre appena
concluso ha visto tra i finalisti EMILY
DICKINSON (Amherst, Massachusetts, 1830- 1886) …e tutto sommato, nonostante il vasto consenso,
mi sono stupita: non è certo una poetessa facile la Dickinson, orecchiabile,
immediata, dilettante… è un colosso della storia della poesia, che sfida il
tempo. Consuma l’esistenza in una stanza, nella lettura, l’introspezione, nella
scrittura, una fragile esistenza “di porcellana”. Ama leggere in solitudine, riflettere,
pensare, studiare e le sue avventure, i
suoi viaggi sono di natura intellettuale e poetica. Grande Emily.
Ottima
la scelta dei lettori, ma ancor più quella del curatore che via via nel tempo
ha dato spazio a più poesie dell’autrice, di cui vorrei farvi partecipi,
leggendone alcune, tradotte da notevoli poeti-scrittori italiani, insieme a voi..
Scrive
come introduzione il prof. Marchi:
“Per
pochi altri poeti come per Emily Dickinson valgono e trovano compimento in
un’opera le ipotesi formulate da Montale in una intervista del 1972: ipotesi
secondo le quali “solo gli isolati comunicano”. Parole che anche un altro
importante poeta italiano del Novecento, Andrea Zanzotto, ha fatto proprie,
elevandole nel suo stesso biografico consistere a Pieve di Soligo, un paese del
trevigiano con il suo paesaggio, a condotta di vita e inverandole, quel che più
conta, in una produzione letteraria complessa quanto decisiva, implicante e
determinante.
Ed è
così che anche Zanzotto, articolando sinteticamente il discorso su base
testimoniale, può illustrarci in maniera esemplare il paradosso dell’atto
poetico, “originato – sue parole cui non mi pare ci sia niente da togliere o
aggiungere – da un estremo sentimento della irripetibilità, dell’unicità
proprie dell’individuale, ma anche di un prepotente senso di necessità di
partecipare ad altri questa ‘unicità’ e di riceverne quella altrui”. Il poeta
colto sul crinale tra io e mondo della sua espressione, del suo pressante
bisogno di affidarsi a parole ogni volta osmoticamente avvertite – miracolo dell’arte
– sue e non sue.”
Di
tutto questo l’opera di Emily Dickinson, qui mirabilmente rappresentata da un
testo come “Because I could not stop for Death”, costituisce “una prova
inconfutabile, radiosa: perfettamente in se stessa risolta e come tale ancor oggi
universalmente riconoscibile, da affiancare per bellezza e verità alla
certificazione che proprio della solitudine la poetessa americana ci ha
lasciato in una delle sue lettere (spesso poesia pura anch’esse): “Dipingerei
un quadro capace di commuovere fino alle lacrime, se avessi la tela adatta, e
la scena sarebbe la solitudine, e le figure solitudine, e in ogni luce, ogni
ombra una solitudine. Potrei empire una sala di paesaggi così pieni di
solitudine che gli uomini vi sosterebbero davanti a piangere, e poi si
affretterebbero verso le loro case, grati di ritrovarvi un essere amato”.
Ecco
la poesia: Poichè non potevo fermarmi per la morte (traduzione di
Natalia Ginzburg).
Poichè
non potevo fermarmi per la morte
lei
gentilmente si fermò per me
La carrozza
portava solo noi due
e
l’immortalità.
Andavamo
piano, ignorava la fretta
e io
avevo abbandonato
il mio
lavoro e il mio riposo
per la
sua cortesia.
Passammo
oltre la scuola
dove i
bambini nell’intervallo facevano la lotta in cortile
Passammo
campi di grano che ci fissavano
Passammo
oltre il tramonto
o
piuttosto fu lui a oltrepassarci.
Scesero
rugiade tremanti e gelide
solo
garza il mio vestito,
il mio
mantello di tulle.
Ci
fermammo a una casa
che
sembrava un gonfiore della terra
Il
tetto era appena visibile
il
cornicione sepolto nel suo oro.
Da
allora sono secoli eppure
sembrano
più brevi del giorno che intuii
per la
prima volta che le teste dei cavalli
erano
rivolte all’eterno.
La
poesia, l’arte, la solitudine, la vita vissuta senza fretta, l’immortalità ...e la morte- “solo noi due”-:
i temi principi di Emily Dickinson, il suo mondo, parallelo a quello
quotidiano, un mondo che può far posto “gentilmente” –all’ultimo viaggio,
oltrepassando i paesaggi della banale quotidianità, i bambini che giocano, i
campi di grano, il tramonto …- alla morte, la più democratica dei sovrani, che
ha la sua casa dai cornicioni d’oro posta in un luogo non definibile,
l’eternità.
Poesia
dedicata alla morte che pure piano, cortese, gentilmente la conduce lontano,
distogliendola dal suo lavoro e dalla sua solitudine, verso l’immortalità, su
una carrozza trainata da cavalli che volgono la testa all’eterno.
E.D.
traduce verità filosofiche vertiginose in linguaggio terrestre. La sua
quotidiana prigione dorata e volontaria è infatti soprattutto un punto di
osservazione, di ascolto che le permette di sentire anche il centro
dell’universo– specchiandosi nella propria vasta irrinunciabile solitudine. La
morte diviene metafora della distanza; e la vita si traduce nel viaggio di
avvicinamento ad essa:
“Fu
questo un poeta –colui che distilla/ un senso sorprendente da ordinari
significati,
essenze così immense/da specie familiari…”
Una
seconda poesia conferma la presentazione: - I’ll tell you how the Sun rose, Ora
ti dico come vidi il sole (traduzione
di Silvio Raffo)
Ora ti
dico come vidi il sole
nascere:
un nastro dopo l’altro,
nuotavano
le guglie in ametista –
correvano,
scoiattoli, le novità del giorno –
Le
colline si sciolsero la cuffia –
il
bobolinco incominciò a cantare –
Allora
sussurrai dentro di me:
“Non
può essere che il Sole!”
Ma
come se ne andò non ti so dire –
una
scala di porpora sembrava
su cui
s’arrampicavano di corsa
schiere
di bimbi del color dell’oro –
Quando
giunsero al sommo ecco d’un tratto
un precettore
dall’abito grigio –
gentile
pose le sbarre alla sera
e
guidò la brigata via, lontano.
La
poesia è tipicamente dickinsoniana: il paesaggio naturale consueto la sfiora e
talvolta la cattura gioiosamente, anche se non l’impiglia mai. Lei sa uscire da
ogni limite naturalistico, sa volare con la sua sensibilità e la sua fantasia
che elabora misteriosamente il quotidiano: comunica con un’anima sensibile,
immensa, mai definibile una volta per tutte. Del paesaggio sa apprezzare tutto:
i colori, gli animali, le colline, anche gli aspetti estremi. Permea il tema
dell’umano quello della natura, sorgente di meraviglia e di fascino rinnovato,
nelle stagioni che si ripetono, nei fiori, negli animali osservati con
interesse gioioso. Sono filtri, finzioni decorative, estetiche, lampi,
intuizioni - carichi di stupore e
mistero- che si sovrappongono al mistero di chi guarda, e che spesso si
caricano di messaggi che conducono all’eternità. La sua quotidiana prigione dorata e
volontaria diventa soprattutto un punto privilegiato di osservazione, che si
specchia nella propria vasta
irrinunciabile solitudine, dove “il precettore dall’abito grigio”-gentile- pone
le sbarre conducendo lontano ogni luce.
Ma la
Dickinson sa salire anche a vette vertiginose, come nella poesia La
“Speranza” è quella cosa piumata (traduzione di Barbara Lanati):
La
“Speranza” è quella cosa piumata –
che si
viene a posare sull’anima –
Canta
melodie senza parole –
e non
smette – mai –
E la
senti – dolcissima – nel vento –
E dura
deve essere la tempesta –
capace
di intimidire il piccolo uccello
che ha
dato calore a tanti –
Io
l’ho sentito nel paese più gelido –
e sui
mari più alieni –
Eppure
mai, nemmeno allo stremo,
ha
chiesto una briciola – di me.
La
“Speranza”, la “cosa piumata”, un’immagine alata e indecifrabile. Ha in sé il
segno intransigente del pensiero, che fatica, nel luogo comune interpretativo,
a tradurre la voce poetica con l’idea della “femminilità” dell’Autrice: pochi
aggettivi, poche parole, incisive, ritmo spezzato, poca effusione, niente
lacrime, poca volontà seduttiva. Eppure comunica un’anima sensibile, immensa,
mai definibile pacificamente una volta per tutte. Sa immaginare nella metafora
leggera della “piuma” la speranza e la sua gioia, ma anche frequentare
l’assoluto, la “gelidità dei mari più alieni”, sa volare.
Risponde
alteramente e orgogliosamente al dolore: “E dura deve essere la tempesta –….Io
l'ho sentito nel paese più gelido – e sui mari più alieni – Eppure mai, nemmeno
allo stremo,/ ha chiesto una briciola – di me.”
La
quotidiana prigione di Emily è soprattutto pensiero e ascolto: un cerchio
perfetto che le permette di sentire anche il centro dell’universo e di poter
dire NO al mondo - si nutre di se stessa, si specchia nella irrinunciabile
solitudine e nella bellezza, salva nella POESIA, perfettamente consapevole dei
limiti, delle insufficienze, della parola in genere e della parola poetica in
particolare, come ben ci dice in Raccontare la bellezza significa svilirla
( traduzione di Franco Buffoni):
Raccontare
la bellezza significa svilirla,
Definire
l’incantesimo intaccarlo;
C’è un
mare senza sillabe
Di cui
bellezza e incanto sono segno.
Con la
volontà mi sforzo invano
Di
ricreare la parola giusta,
Ma
sempre poi me la rapiscono
Miniere
di pensieri introspettivi...
M.Grazia
Ferraris
Vette elevatissime, sia le poesie che il commento
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