martedì 21 luglio 2020

GIAN PIERO STEFANONI LEGGE: "ARCORASS/RINCUORARSI" DI MARIA LENTI


            Maria Lenti.  
                           Arcorass/Rincuorarsi.                           
           Puntoacapo edizioni, Pastorana (Al), 2020.

Esemplare di un percorso finissimo tra servizio e interrogazione del mondo nelle sue ferite e nelle sue istanze e intimità personali quest'ultimo lavoro di Maria Lenti che segue di un solo anno "Elena Ecuba e le altre", altro titolo penetrante nella sua reinterpretazione di miti femminili. Esemplare dicevamo perché nel vertice di una contemporaneità dispersa a se stessa, non più riconoscibile nemmeno nelle figure del proprio colpirsi o del proprio arrestarsi, la voce nel grado di una maturazione che sa procedere anche per sussulti finisce col restituirsi, e col restituirci, nella spinta di una lingua che viene da più lingue. Come se nella sua motivazione più o meno conscia la scrittura dovesse rispondere, nel paradigma del rigurgito e delle sfinite richieste di un tempo d'assedio, alla necessità di una liberata e nuova postura. Così ciò che travalica sembra cercare un nuovo assetto nella risonanza di un corpo dato nel testo nell'incontro sapiente tra dialetto urbinate (quello del centro, soggetto a mutazione nel suo carattere di città di studi e ad italianizzazione dunque)  e lingua nella misura di un appassionato rinsaldare e  rimemorata natura. Misura allora che è quella del rincuorarsi soprattutto, come da titolo, in un ascolto oltre che con se stessa di pari passo colla capacità di relazione col mondo, sempre così cruciale, sempre così fondante come sappiamo nella Lenti. È allora un dettato insieme privato e a specchio a risalire da una storia evidentemente non solo personale cui la parola si serve nell'infinito del suo ripensarsi, del suo rincuorarsi, Arcorass appunto,  nella varietà delle sue sottolineature. Che è poi anche il titolo della sezione con cui il libro si apre, come a mostrare subito nella spoliazione dei plurali in sovrannumero la riemersione effettiva ed essenziale del noi, e di noi in quell'elencato ritrovare di sensi e gesti, di donne ed uomini nel venire a sé di una vita non più bandita ma carezzata nel gusto di offerte e presenze certe nella riemersa leggerezza di quel sentimento di prima che la rimanda all'amato Leopardi ("el còr d'una volta") dopo inciampi abbandoni agguati della morte. Nella bassa e ferma e reciproca quotidiana offerta, sana, con le cose e con gli altri la direzione che viene dal coraggio ("solevass sa leggeressa/ da un dolore/ da una spinta in basso/da una caduta fuori rimedio") nel  soccorso esporsi di una lingua madre prima sussurrata poi quasi ad imporsi nel legame di un cuore con la mente che "en sbaja mai". Rincuorarsi allora che vuol dire anche ripartire nell'affondo entro piccole soste di uno spazio rimestato e riaffermato nell'auscultazione nitida come da apertura da nebbia di antichi e ancora vivissimi luoghi, quelli della mente e del corpo così vezzeggiato, accompagnato, richiesto nell'onda di piena degli anni, degli oggetti e delle strade, di dinamiche di prossimità e di lontananza racchiusi in tanti ritagli di terra nella familiarità di una parola giammai retorica nel suo essere e farsi nutrice tra oralità e gergalità, tra domesticità ed umiltà (come  esaustivamente sottolineato da Manuel Cohen nella postfazione) e pure insieme così sorvegliata, curata diremmo nell'eco rispondente della lingua, nel bel verso italiano della cui classicità il dire della Lenti (saggista, insegnante) è così ben improntato suggerendo così nel dettato un modo nuovo di riportare il mondo dalle ceneri di un debordante, storico e sociale inficiare. Giacché, forse solo da questo intreccio è possibile restringere e poi espandere il mondo, da quell'origine cui solo il primo dire forse può ancora decriptarne l'annuncio nella saldezza dei riferimenti (incapacità politiche, diseguaglianze sociali, migrazioni e sfruttamenti di terre e di popoli insieme a desolazioni e povertà personali e d'amore) depurati nei detriti da una saldezza in lingua riportata invece anche nel dialogo coi suoi maestri (il citato Leopardi, Foscolo, Ungaretti, Montale, Ortese, la Morante per dirne alcuni). Più forte infatti di un stanchezza che a tratti chiede strada lo sguardo di Maria nell'educazione alla raccolta di un eco che non cessa di bussare dagli infiniti angoli delle nostre miserie ma anche dei nostri incanti, delle nostre piccole gioie e dunque sciolta dapprima nella condivisione appassionata di un discorso non alto non basso ma nel daimon autentico di un accordo linguistico che nella condizione del suo esporsi, della sua infinita retina sembra non mollare la presa. Ne è simbolo, nella saggezza di una vita che non si sceglie ma si vive, l'affondare del passo nella sua Urbino oltre la Piantata il quartiere dove abita, nella panoramica del cuore dentro la città amata, così inaccostabile e irraggiungibile spesso "nella sa ferma bellezza" ma anche così vicina, così diversa come l'elenco lunghissimo delle erbe della spesa e le varietà di studenti che la attraversano. Così se la poesia deve poggiare su ricordi da dimenticare, illimpiditi però dalla memoria, ciò che ogni giorno va chiesto nella domanda del sapere, del suo desiderio (in tanto vociare comunque non più tra tante presenze care o nell'aria impoverita anche di strade inabitate, di case vuote) è il pane quotidiano di una consapevolezza delle scelte nella pienezza dell'amore, della carnalità delle sue forme, della sua forma "che se slarga in una voce/di più diversa luce/erba de camp frutta de stagion/intla tu boca" ("Ogni giorno domando"). Questa lezione che risale dal connubio originale delle sue lingue (tra l'altro a parte qualche testo sparso mai la Lenti in precedenza si era offerta in dialetto in tanta organicità di struttura) ha per noi il dono di un "vivere come sostanza/fuor d'ogni stanza" facendosi mollichine di un mistero nella sua fattività d'opera  "a seconda dell'ombra o della luce/del canto o del controcanto". E allora testo, percorso esemplare anche per questo.


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