Carmen Moscariello,
collaboratrice di Lèucade
La mia cantorìa di Giuseppe Iuliano.
Letto da Carmen Moscariello
La
chiave nel pozzo e il Pozzo Gerardinello
Leggere non è solo capire. Certi libri che raccontano la vita sono capaci di
muovere nel lettore scandagli, fare affiorare cose seppellite dal tempo, alle
quali allora quando accaddero nemmeno si
diede troppa importanza.
Peppino Iuliano mi
ha inviato la sua ultima raccolta poetica “La mia cantoria” , un titolo che ti
sorprende e ti fa pensare. Prima di
approfondire la lettura ho creduto che
fosse una preghiera per quei luoghi irpini massacrati dai terremoti o
semplicemente che fosse un canto barocco utile a comprendere a fondo questa
amara realtà.
Tutt’altro.
Anche se l’autore rispecchia nella sua scansione dei versi certa
struttura di musica barocca: Preludio, fuga, sermone, concerto grosso, cantata,
opera seria, oratorio, melodramma, seconda e ultima cantata, solo formalmente si
rifà a un “a solo barocco”.
Poi la lettura quando ha iniziato a toccare il mio cuore- le comuni radici non
mentono e non sono acqua- mi ha fatto ricordare della cantoria di Santa Maria di Conza, più
esattamente di Sant’Andrea di Conza. Ce ne parlò tanto tempo fa nell’Istituto
Francesco De Sanctis di Lacedonia il nostro Professore di Religione Don
Domenico Spatuzzi, per spiegarci il motivo per il quale il popolo lacedoniese
adorasse San Gerardo, qui le cantate del
popolo in onore del Santo risanano le ferite e profumano della neve di quei monti.
Ci raccontò che il vescovo di Lacedonia Claudio Albini (1736-1744), due giorni
dopo la visita di San Lorenzo dei
Liguori si recò a Conza, con il suo fidato collaboratore Gerardino da Maiella,
nato a Muro Lucano, (il Santo che rimase accanto al Vescovo a Lacedonia fino
alla sua morte e al quale si deve il miracolo della chiave nel Pozzo)Il viaggio
aveva come finalità di fermarsi al
monastero dei Frati Riformati di Conza per rendere omaggio a San Lorenzo dei
Liguori. Al convento dei frati era legata un’umile chiesa frequentata dal
popolo cristiano e che i canti che si elevavano
in preghiera al Signore e alla Madonna erano di straordinaria magnificenza. Il
mio Professore ci raccontava anche di
una schola cantorum , unica nell’Irpinia a quei tempi, a questa Cantoria (1610) si accedeva con una scala di
legno ed era situata sopra il pronao.
Con dolore chiudeva la sua lezione dicendoci che dopo la venuta dei Piemontesi
il convento e la chiesa erano stati sottratti ai monaci e venduti a dei privati e che ormai tutto era
andato perduto. Io in quell’occasione appresi per la prima volta che cosa era
una cantoria. Non so se nella cattedrale di Nusco, il luogo in cui vive il
poeta, ci sia una cantoria, mi sembra di ricordare che nel convento di Folloni
a Montella, distante solo pochi
chilometri, sia presente nella chiesa una cantoria, il convento tutt’oggi è abitato
dai francescani. Qui si elevano alla Madonna canti meravigliosi, come
pure a Gesù bambino tutt’ora vividi nel mio cuore, con il ricordo della visita
all’immenso presepio che i frati preparavano per i devoti a Natale e che durava
anche oltre la festa.(in questo luogo era passato San Francesco e a lui si deve
la fondazione del convento (1222)).
Vi racconto tutto questo perché Il libro di Peppino Iuliano
è costruito tra i pilastri lignei di una cantoria che non è certo quella di
Donatello a Santa Maria del Fiore a
Firenze. E’ traballante, ha scalinate di legno, con perni che non reggono il
dolore di quelle terre. I versi di
Iuliano sono una preghiera cristiana per gli umili della terra che non sanno
come sottrarsi a quelle radici velenose e alle
innervature ghiacciate di quei boschi selvatici (Folloni) un tempo
devastati dai lupi e dai briganti, ora dalla fame dei più poveri:
E’ di
legno questa piccola croce
che
riempie il vuoto di porta
come
estrema frontiera.
Nessuna
fede o pietà
vale
la morte nel cuore
Ultima
partenza dalla casa/paese
Matria/
patria, culla malvagia.
Ha
chiodi di rabbia e ruggine
il
sepolcro di memorie
Giuramento
e bestemmia
alla
malasorte che dura e insegue
la
vita come anima dannata.
Morte
al Sud, genie fisse o migranti,
ventri
mai sazi, scosse di vera miseria
Fuga
cosciente, rifiuto di quest’inferno .
Né la poesia
attutisce il dolore, né si attenua la
ribellione alla povertà. Alle sofferenze risponde con parole dure che
sembrano pietre. E’ l’ennesima denunzia del poeta contro chi è stato
troppo distratto, troppo preso dal suo tornaconto. Non è nuovo Peppino a questa
fiera presa di coscienza, che negli ultimi anni è divenuta sempre più caustica,
più insofferente, più ribelle. L’interessante prefazione di Paolo Ruffilli
mette fortemente l’accento sull’impegno civile del poeta, cosa sempre presente
nei suoi versi.
Io amo questo tipo
di poesia che dalla storia della vita di un singolo, diviene storia sociale,
dolore universale, ribellione di popoli.
Questa è poesia.
E’ il pane quotidiano per gli affamati di
giustizia.
Carmen Moscariello
La mia cantoria (a solo barocco) di Giuseppe Iuliano
Prefazione di Paolo Ruffilli
Note nel piego di
copertina di Francesca Romana De’Angelis e di Paolo Saggese
Delta3 Edizioni.
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