Mi è giunto oggi per bontà di Emma Mazzuca, il file originale del libro che
verrà pubblicato dalla casa editrice Bastogi. Ho già scritto altre volte
sulla sapientia scritturale della
nostra, sul suo animo zeppo di emozioni e di immagini che arricchiscono il
testo. In copertina la morte simboleggiata da un colombo ad ali ormai spente e
spalancate senza vita. Scrivere sulla poesia di Emma è come essere accarezzati
da una piuma leggera che ti sfiora. Il suo dettato lirico ti avvolge e non ti
molla finché non sei cotto a puntini a livello emotivo.
Il logos e il pathos si amalgamano in un insieme che dà
voce al canto, rendendolo attivo, fattivo, pregno di stadi emotivi che
concretizzano il verso. Un verso fluente, leggero ora ampio, ora ristretto in
un campo emotivamente concreto atto a reificare gli stadi emozionali. Ma io
credo che partendo da una poesia incipitaria si possa già andare a fondo
nell’arte magica di questa scrittrice, maestra del verbo e dei suoi legami, dei
suoi intarsi:
All’improvviso
All’improvviso ecco che qualcosa non
va più, un meccanismo perfettissimo
funzionante a meraviglia di colpo
s’inceppa. I giorni diventano secoli
la mente non conosce più il tempo.
L’istinto scatta affannoso alla ricerca
di un’ancora antica, ma qualcosa
d’irreparabile e grandioso è successo.
Il passato è uno stagno, il futuro ancora
più oscuro. L’idea della morte è qui,
a un passo da me, posso coglierla,
come sollevare un bambino.
La mia idea di morte si fa chiara in
questo vuoto, come l’idea di Dio.
A me Dio piace immaginarlo in una
pietra qualunque, in una infanzia serena,
in un frutto maturo, nell’onda del mare,
che come la morte cancella il mio nome.
Qui in questa silloge, in questa confessione emotiva, omnia
sunt: il memoriale, la coscienza di un tempo che fugge senza tenere di conto
del tuo disagio interiore, la bellezza
della natura, dei suoi simboli che si fanno linguaggio nei versi della Mazzuca,
nei suoi fremiti, nelle sue vertigini simboliche, il canto del mare, la
felicità, la tristezza. Ma quello che colpisce da subito è la maestria della parola, l’eleganza
della scrittura, e soprattutto la capacità di concretizzare nelle latebre del
verso gli input dell’autrice, i suoi stati d’animo. Di sicuro siamo di fronte
ad un dettato lirico più vicino alla nostra tradizione, che ad una poesia di
sperimentazione prosastica, impersonale dove l’io si perde nei meandri
dell’esistere. Anzi qui il soggetto è fattivo, attivo, e anima di sé ogni
ambito della silloge.
Profumo d’ambra
Le ali sempre più scure di un gabbiano
morto all’improvviso sventolano nel
vento.
Per me è
il primo vento.
Oggi
invece, per lui, è già l’ultimo,
un po’
nel cielo, un po' nel suolo e sempre
nel
vento del mare, sei tu il grande respiro,
sei tu
la grande assenza,
mi fido,
ti stimo.
Di nuovo
un gabbiano vitale vola via nei
giri
gracchianti sopra alberi di ambra sempre
più
silenziosi e rossi di sera radiante,
e sopra
la mia mano aperta.
Vola
via,
A me
pareva di svegliarmi proprio qui
–
proprio oggi, mai ieri, ma assente –
nel
profumo d’ambra testimone d’eternità,
fuori
oggi come fuori da ogni destino,
a me
pareva che le ali
sventolassero
ancora.
I profumi, il tempo che scivola via, la fine, il principio,
i riferimenti ad una natura che si fa oggetto del canto, l’eternità, le
sembianze e la realtà. Un insieme di sensazioni che si palesano in un sentire
affollato e polimorfico.
L’amore, eros e thanatos, che vivacizzano un sentimento
pieno di pathos:
Come tanti anni fa
riaccadrà
“Non si può soffocare a lungo un amore.
Lo si può ritardare questo sì,
per vari comodi o per estreme deludenti
sensazioni ma infine trionfa.
Lo si può nascondere con violenza
per anni o con indifferenza lo si può
pietosamente subire o soffrire in silenzio
ma infine trionfa.
È un plagio istintuale rapace che ci assale
sereno, ci opprime.
Così accadde a noi tanti anni fa.
Dopo il fulmine cercammo storditi
umanamente il sereno,
il refrigerio del distacco,
sperammo a lungo con passione
nella morte dell’altro adducendo
l’imprevedibile trincerandoci ostili
a combatterlo, armati di nuove prove
e insormontabili difficoltà.
Ma l’ultimo appuntamento
sarà inesorabile
più delle nostre vili paure.
Come tanti anni fa riaccadrà….”
Una silloge plurale, complessa e completa, dove ogni angolo
del pensiero e dell’animo viene toccato da una mano leggera e ammiccante, con riferimenti
ad un sentire multicorde e vario.
Ce lo dice e conferma una delle ultime
composizioni che nella luce che spezza il buio la poetessa trova la sua strada
di braccia che toccano le mani senza parlare; come un fiore simbolo di una
natura profumata e splendente.
Era
una notte aperta alla notte
Era una notte aperta alla notte quando
mi
ha incantato una luce schietta nel buio
ed
era come un gran correre di braccia al
cuore,
e quella notte sembrava un fiore
che mi toccasse le mani senza parlare.
Chiudere con una pericope tratta da una
esegesi sulla poesia della Mazzuca credo sia come la ciliegina sulla
torta:
Una silloge
proteiforme che ci dà una completa visione del rapporto dell’essere con le
diverse fenomenologie della realtà:
Natura, Dio, esistenzialismo,
eros, e vita.
Nazario Pardini
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