DONATINI
FRANCO
Esiste il poeta? Quale il suo ruolo? Deve analizzare se stesso, il suo esistere come essere fattivo in una società multipla? Polivalente? E’ cambiato l’uomo, la sua funzione in un mondo triste e senza prospettive? Queste le domande che si pone Franco Donatini. In conclusione presuppongono un’analisi obiettiva del rapporto fra lui e tutto ciò che lo circonda. Senza escludere la natura, l’ambiente, e il mondo in cui vive. Finirà quando si chiude il sipario? Allora il discorso si fa esistenziale, di splenetica valenza? A questo punto è difficile levarci le gambe, dacché sappiamo, nolenti o volenti, che la nostra posizione è fragile e momentanea; il discorso allora si fa sull’esserci, sulla sua presenza? Ma viene spontanea una domanda: il mondo che ci circonda, la società, l’ambiente non hanno importanza sulla crescita e formazione umana? Senz’altro e qui nelle nuove poesie Donatini affronta il problema: quello della malinconia, della insufficienza, della mancanza del ruolo. In conclusione fare poesie significa esternare il nostro pathos, la nostra interiorità malata, il nostro malessere continuo, in quanto coscienti della nostra precarietà? Ma l’uomo esiste e in quanto essere attivo dovrebbe partecipare con la sua personalità a ché il mondo migliori; fare quello che è in suo potere per riuscirci. Più si fa a fondo della questione e più le cogitazioni mentali del nostro poeta, il quale si sente partecipe, ma anche sfiduciato, triste, melanconicamente inattivo, diventano molteplici; sarà forse che questo Covid in qualche modo ha contribuito a rendere l’uomo triste e assente? Penso di sì, in qualche misura si è chiuso, ritirato nel suo abitacolo, in se stresso, allontanandosi dal ruolo che dovrebbe avere. Quello di un essere civile la cui realizzazione si compie quando prende parte, e si dà da fare, in quello che può, per cambiarle le cose, e renderle più adatte al nostro vivere. Una molteplicità di questioni che contribuiscono a rendere plurali, polimorfiche, e polisemiche queste poesie, dove sono molteplici le tematiche che le ispirano: l’esistenzialismo, il fatto di esistere, il sociale, l’ambiente… Quanto allo stile del Nostro, è fluente, scorrevole, dove la parola occupa un posto essenziale con la sua etimologia e il suo essere in una trama di grande energia epistemologica. Si deve dire anche che il poeta è alla ricerca di uno stile altro, in continua maturazione, un climax interessante e nuovo per pathos e logos. In effetti il poeta non si ferma in un porto dove pensa di avere raggiunto il maximum, ma va avanti, cresce, si moltiplica in invenzioni e creazioni. Verrebbe da dire, anche se scontato, chi si ferma è perduto. In un confronto tra le poesie date alla stampa per i caratteri di Miano Editore e queste ultime, a livello filologico e stilistico, viene da scrivere che queste sono impostate su ritmi più prosatrici e meno lirici; segno di una ricerca che il poeta, come detto, sta attuando verso nuovi lidi costruttivi e interessanti.
Nazario Pardini
DAL TESTO
Sotto il senso del vivere
Franco Donatini
Indice
Il
nido
Inverno
Incontrarsi
per caso
Ricordi
Dolce
amara compagna
Kabul
Fuori
Scivola
il tempo
Gente
Chi
sono io
Il
nido
E
la sera cala
umida
di tiepida rugiada
sul
nido che protegge
i
nostri corpi
Un
soffio di vento malizioso
s’insinua
e
un brivido scorre sulla pelle
E
dal groviglio ribelle
di
mimose
la
luna sfugge
timida
possiede
il
cielo e bagna
di
candide carezze
di
lievi sospiri il prato verde
E
la notte scende
sul
pallido orizzonte di colline
scuri
profili
disegna
e inquieta
animi
stanchi
piccole
luci accedono
di
amari ricordi un cimitero
Ma
il nido si apre
e
accoglie
smarriti
sensi fiumi di parole
desideri
sopiti il buio svela
apre
cancelli chiusi
e
scioglie i petali carnosi
del
trepido bocciolo d’una rosa
Inverno
E
io che amo l'inverno
il
silenzio dei paesaggi
e
i suoni ovattati delle città
i
giorni brevi avari di luce
il
letargo dei campi
e
i canti negati degli uccelli
Amo
l'assenza
dei
tripudi cromatici
i
muti sospiri
dell’aria
senza vento
lo
sgomento degli alberi
con
le braccia levate al cielo
Amo
la natura
che
tiene in ostaggio il riposo
che
accende i fuochi
il
tepore nei corpi
i
desideri indicibili
i
sogni destinati a morire a primavera
Incontrarsi
per caso
Incontrarsi
per caso
Quante
volte lui l’ha ignorata
quante
volte lei non ha fatto niente
si
è limitata a sognare
a
consegnare alla mente trepide notti
di
passioni e attese senza speranza
destinate
a restare sogni
Soli
come al ritorno da un viaggio
da
una meta non prevista
un
viaggio per strade come gomitoli
che
tornano sempre su sé stessi
un
viaggio di tutti i giorni
senza
paura né coraggio
Si
sfiorano non come Ulisse
che
pure sfiora la sua terra senza toccarla
ma
gioca con le sue passioni e una meta ce l’ha
quella
che ha sempre sognato e vuole
che
resti un sogno
Non
si conoscono
come
comete partite da galassie lontane
senza
sapere di esistere
Il
corpo di lei segue il cammino della Luna
l’uomo
non ne ha alcuno o ne ha molti
tutti
uguali portano a una stessa meta
Incontrarsi
per caso
Solo
quella volta le altre non contano
migliaia
di appuntamenti buttati al vento
non
costruiti non previsti non cercati
come
quella volta uguale e diversa dalle altre
Ci
pensa il tempo a comporre gli eventi
a
rompere i muri dell’indifferenza
e
a costruirne di nuovi
Non
c’è una logica o un fine
c’è
solo il mistero dell’accadere
la
ripetizione di istanti sempre diversi
di
sentieri dispersi e non più ritrovati
di
momenti mancati
di
individui isolati
Anche
quella volta non conta
eppure
avevano sperato sognato
ma
non c’è mai un inizio o una fine
un
prima o un dopo la clessidra si ribalta
e
segna sempre la stessa durata
Anche
quella volta non conta
è
solo una meta scontata
da
gettare senza odio né rabbia
come
il mare in silenzio cancella
il
cammino scritto su un foglio di sabbia
Ricordi
Ho
gettato via i ricordi
pesanti
come pietre nella mia bisaccia
tonfi
nel mare vortici brevi
e
poi più niente
È
leggero il mio corpo e anche l’anima
sganciati
finalmente dal passato
da
flebili filamenti temporali
ormai
dissolti
Tutto
tornato al punto di partenza
Le
pietre nel fondo marino
ove
erano cadute espulse
dal
vulcanico ribollire della terra
I
segni di gesso cancellati sulla mia lavagna
tornata
vuota come il nero degli abissi
il
nero profondo dell’assenza
Tutto
tornato al punto di partenza
Ho
gettato via i ricordi
frammenti
d’esistenza
ferite
sanguinanti dolori sopiti
pagine
scritte di amori finiti
Vuoto
il labirinto mentale niente trattiene
il
corpo che sale
Ma
l’anima resta giù nella caverna
incatenata
cerca un punto
da
dove ripartire
dalle
ombre fluttuanti dai simulacri di pietra
dalla
luce accecante che viene da fuori
Mancano
gli occhi per vedere e capire
mancano
gli arti per toccare e sentire
la
caverna è una nuova prigione
chiedo
a Platone
restò
con te l’anima nel momento del trapasso?
Dolce
amara compagna
Hospes
comesque
da Memorie di Adriano
di Marguerite Yourcenar
Che
cosa resterà di questi giorni
dei
nostri turbamenti di emozioni
che
son solo momenti d’un percorso
certo
già segnato
Dolce
amara presenza hai scortato
silenziosa
e indifferente l’esistenza
compagna
triste ma non invadente
assente
e rispettosa dei miei anni
Distante
hai seguito i miei affanni
avara
hai smorzato gioie
e
nel lenire i miei dolori
hai
sciolto amori e odi ormai sopiti
Come
il sole calante dietro i monti
rallenterò
il mio passo
per
fermare il tempo solo un momento
di
questa vita avida di luce
Resteranno
i miei versi
forse
il ricordo di chi mi ha incontrato
ma
nel silenzio profondo che m’avvolge
paiono
i brevi attimi eterni
E
mentre la sera si avvicina il cielo
pian
piano si scolora
l’anima
fugge e una nuova stella
s’aggiunge
schiva alla volta oscura
Compagna
sappi
che
ti sono grato per avermi sempre
rammentato
che c’è un confine al cielo
che
con il corpo non si può varcare
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