venerdì 8 marzo 2013

PASQUALE BALESTRIERE: RACCONTO PREMIATO

IL RACCONTO E' RISULTATO VINCITORE DEL 
Concorso “Bere il territorio” - Go Wine
Via Vida, 6 - 12051 Alba (CN).
LA PREMIAZIONE SI SVOLGERA'  AD ALBA IL GIORNO
16 MARZO
Giuria composta da:
Giorgio Barberi Squarotti (Università di Torino), Gianluigi Beccaria (Università di Torino), Valter Boggione (Università di Torino), Bruno Quaranta (La Stampa-Tuttolibri), Gigi Brozzoni (Direttore Seminario Veronelli), Massimo Corrado (Associazione Go Wine), Salvo Foti (Enologo).
                                  
                                         
                                                            UN’ISOLA DEL TIRRENO
Pasquale Balestriere
Un’isola del Tirreno, nel secondo dopoguerra.  “Dei vasai” o “delle scimmie”,  a sentir litigare i dotti per questioni etimologiche. In realtà era l’isola della terra e delle viti, ricca di fatica, di vino, di miseria.  Solidale, però.  I denari del turismo sarebbero arrivati più tardi. Ci vivevano, infanti, la mente e la mano che ora scrivono queste parole.
           Colline e cave, forre e dirupi, poggi e ronchi. Un territorio  cui era ignota la pianura. L’agricoltura s’aggrappava a piccoli terrazzamenti per sopravvivere; ma anche alle zappe e alla feroce volontà di resistenza di quei nativi scuri e ossuti, pescatori nelle zone costiere.
           Vino, dunque, in abbondanza (ancora si favoleggia di un gran portale costruito con calcina impastata  con il vino!).  E buono.  Ma, in soldoni, valeva poco, per carenza di richiesta.  Sicché,  insieme con le persone, cominciò a emigrare anche il vino. Questo verso la Toscana, quelle per le Americhe.
           S’avviava così la costruzione del vino: con trasporti violenti, e strascinati per chilometri, di pesantissimi fasci di tronchi di castagno dalle selve in collina fino alla cantina, cioè alla grande grotta scavata nel tufo, che alloggiava qualsiasi cosa avesse a che fare anche lontanamente con il vino. Che, prima di giungere al palato, passava dunque per le spalle, sotto forma di pali per sostenere i filari delle viti. Era quasi un rito il trasporto, spossante e odiato, ma necessario. Con tempi, tecniche e luoghi.  
           Uomini  al posto di rari  asini e di muli costosi.  Quando tra le tenebre cominciava a farsi strada a fatica il chiarore dell’alba, l’intera famiglia saliva in collina tra i boschi di castagno e, dalla propria cógnë (cumulo) di pali lasciati per mesi, dopo il taglio novennale,  ad alleggerirsi per disidratazione,  ne  prendeva quanti ognuno era capace di trasportare in spalla fino al paese:   ai bambini  ne toccava in genere uno piuttosto piccolo, tre-quattro alle donne, che issavano il peso in equilibrio sul capo difeso dal cercine, agli uomini dai sette in su, con la coda di un rumoroso strascichìo  soprattutto nel pendio ad ampi gradoni di selce che attutiva la forte pendenza e rendeva più agevole il cammino.  La durata del percorso variava dalla mezzora a un’ora e mezza, secondo che fosse più o meno lontano il luogo del prelievo.
            All’inizio il carico non appariva mai troppo pesante , ma diventava ben presto intollerabile per i sentieri sassosi e accidentati e per gli opprimenti sobbalzi da trascinamento.  La stanchezza aveva però stabilito i luoghi per posare, cioè poggiare il carico e riposarsi.
           Giunti a destinazione, si scaricava. I bambini a scuola, con un pugno di fichi secchi in saccoccia, gli adulti di nuovo su, ruminando anch’essi fichi secchi o fave arruscàte (abbrustolite sotto la cenere),  con il supporto , nel percorso esofageo,  di ampi sorsi di vino che trovava pace nello stomaco più che nel tascapane. Pronti per un altro viaggë o  trasporto. A volte, per risparmiare fatica e fare metà tiro (percorso), veniva adottata la tecnica a scuntë  (  a incontro): ogni trasportatore, percorsa la metà del tragitto, affidava il carico  alle spalle di un altro, che lo deponeva (con un  sollievo facile da immaginare) davanti alla cantina. Si dimezzavano così percorso, tempo e fatica. Spesso poi s’andava avanti a carrià ‘e lignammë , cioè a trasportare pali,  per l’intera giornata.  Talvolta, ma raramente,  anche in giorni di festa. Fatiche bestiali in tempi di nera miseria, quando s’andava a lavorare, a volte, anche solo per  la mangiata, come si diceva.
         Il trasporto dei  pali: lo presentivano e lo temevano o, come dicevano, se lo “sognavano di notte”, con nessun piacere, in sogni sempre molto realistici e spossanti lungo sentieri scabrosi e scoscesi,  riverberati nel subconscio. E sapevano bene come, dopo una giornata di quella fatica,  ogni membro del corpo, indolenzito e franto, provasse una “sua” sofferenza, quasi come se non facesse più parte di un tutto e  fosse invece dotato di vita propria.
Ma questo era solo il primo passo  - quello meno desiderato -  verso il vino, che ancora dormiva nel corpo delle viti spoglie. Presto sarebbe sbocciato in verdi teneri e dolci,  poi fieri e intensi; in corimbi e in grappoli. E avrebbe fatto la sua strada. Necessaria, inevitabile.
           I pali venivano spaccati, in due o in quattro,  nel cortile della cantina.  Con cunei di ferro e mazzuola pesante. Rifiniti con il falcetto per eliminarne punte e schegge dolorose per le mani, appuntiti e trasportati a fasci nei campi:  ossatura di spalliere per le viti. Si preparava così ‘a potë, la potatura,  che nell’isola indicava la semplice allacciatura delle viti ai sostegni con salici o cúllëlë, dicendosi invece spuntà  (spuntare, svettare) l’operazione del potare. E poi la zappa. Prima per radere l’erbe, dopo per sotterrarle,  incidendo in profondità e rivoltando la terra.  Guai a non affondare adeguatamente il taglio! Si veniva additati in eterno come scansafatiche e, peggio,  non c’era rischio di  essere  chiamati ancora  a giornata. Per fortuna ci pensava  il vino a drogare il cuore e la zappa; con il fiasco  posto  a tirë,  cioè alla giusta distanza dal taglio,  per la prossima bevuta.  Perché così funzionava, che non si doveva bere prima di avere zappato un congruo tratto di terreno. Arrivare al vino. Raggiungere il fiasco  del temporaneo sollievo, del frugale piacere: il sogno (a tappe) dei poveri.
            C’era un mondo, però, che non riservava al vino l’ attenzione e la venerazione degli adulti. I bambini, infatti, si chiedevano nella loro innocenza cosa ci trovassero quegli uomini ispidi di pelo e d modi nel bicchiere di vino, peraltro terso e brillante, che  prima assaggiavano a piccoli sorsi e con rumorose aspirazioni, poi rapidi tracannavano . Così capitava che qualche ragazzino ne sottraesse  un po’ a casa per assaggi comuni  e carbonari, senza tuttavia che quel liquido biondo ottenesse molto successo.  Anche per questo i fanciulli  lavoravano con poco genio, fino a quando un genitore non spiegò   con molta chiarezza che tutti, in quel paese, con il vino ci campavano. E che quelle fatiche erano indispensabili.
           I piccoli intuivano, però, che a stento si sopravviveva. Altro che campare! I dieci chili di farina e il mezzo litro d’olio, spesso comprati “ a credenza”, cioè a debito; e la fame da calmare con erbe e legumi; oltre i quali c’era qualche raro e festivo coniglio “ ‘e fuossë”, allevato cioè allo stato semibrado in fosse ingrottate, e qualche uovo. E nulla più.
Per gli adulti il vino era l’universo vitale, l’oggetto del desiderio. Il vino! Presagito e carezzato durante  tutto il  tempo della gestazione. Sfemminellare e spollonare, rattralciare e spampanare, irrorare di verderame, imbiancare di zolfo: altre tappe nella costruzione del vino. Nella natura prorompente di vita . Nel sole, fidato compagno, tuffato in brillii marini accecanti, che trasformava in oro e rubini tutte le uve,  Forastera e Aglianico,  Biancolella e  Cannamela,  Zibacco e  Guarnaccia.
           Cantano,  ormai adulte,  la mente e la mano che scrivono queste parole. Un agreste ditirambo.
Evviva il vino,/ biondo bambino,/ vivo rubino!//   In sua difesa/ alla contesa/ il cuore si schiera,/ larva guerriera./ Guai a chi tocca/ questo dio d’oro/ purpureo nume,/ soave fiume!/ Che brilli nella brocca o nella coppa,/ compagno canoro!/ Che passi per la bocca e sia ristoro!// ...  Ave, o vino,/ ti scongiura/ questo verace figlio della terra:/ ogni cura,/ ogni guerra/ sospingi via con lazzo fescennino./ E se vieni sulla tavola/ a solleticarci l’ugola/ la dolcezza della favola/ sposa l’aspro della rucola./ E biondeggi/ e rosseggi/ e spumeggi/ e inneggi a tutta gioia,/ e non più dolore o noia,/ ma colore ma vigore/ ma calore ma valore.// ... A cantarti venga Omero,/ venga, o vino, Alceo altero,/ venga il divo Anacreonte,/ venga Bacco giù dal monte;/ venga Ovidio, venga Orazio/ e il Magnifico e Chiabrera./ Qui m’arresto per lo spazio/ e perché sennò fa sera./ Venga ancor Francesco Redi,/ vengan pure i suoi eredi./ E io, ultimo, m’accodo,/ umilissimo rapsodo.// Evviva il vino,/ biondo bambino,/ vivo rubino!
            C’era sempre un padre a tenere in pugno la tradizione, a dosare i precetti ai figli, quasi sempre in maniera apodittica, a verificarne apprendimenti e progressi; a redarguirli aspramente o a lodarli parcamente e con penuria di parole. Sedeva a capotavola, severo ma buono. E c’era sempre una madre, saggia e scura, ad aiutare nei campi, a governare la casa, la tavola e le preghiere serali. E fratelli e sorelle, tanti e rumorosi.
          In un’isola del Tirreno, di eroica fatica, il fiasco di vino,  al centro della tavola frugalmente  imbandita,  aveva l’aspetto solenne e austero di un nume tutelare. Mente e cuore cantano ancora:  Ma  allorquando / sulla mensa apparve il vino / svanirono i dolori, rise il cuore / guarito .
E coltivano la terra. Fanno vino.
Nell’isola d’Ischia.
  
 Pasquale Balestriere

                                                                                                     




2 commenti:

  1. Complimenti per questo bel premio. Bell'Isola.
    Simo

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  2. Il lavoro, il dolore, la fatica, la presenza, la fusione con la terra; coi colori, con la zolla, con il pampino, col vitigno; tutto rende l'animo puro e degno di far Poesia. Quel ditirambo fra il serioso e il faceto, zeppo di venature classico-agresti, quella tavola dove troneggia il fiasco come un dio protettore; lo stesso fiasco che si è dato, sempre, generoso, alla fatica, lui stesso uomo, e lui stesso cosciente della resistenza della terra alla zappa; insomma quell'isola è amore, forza, generosità, storia, e vino, vino, vino; si!, perché è il vino che richianma Omero, che riporta l'uomo alle sue origini per ricodargli che se esiste lo deve a quell'amore, a quel rispetto; a quel nobile sacrificio che l'ha reso tutt'uno, impastato, fuso col suo suolo. Che l'ha fatto uomo.

    Bravo Pasquale! Mi hai commosso. Mi sono rivisto bambino sul carro delle mucche a spargere pozzo nero o a raccogliere le manne. La grande riconmpensa a tanta miseria: il pranzo della trebbia o della svina. Ho sempre alle papille il sapore inconfondibile di pane e trebbiano.

    Nazario

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