lunedì 2 febbraio 2015

FRANCO CAMPEGIANI SU "IL CIELO INCOMPIUTO" DI DOMINICK FERRANTE



Franco Campeiani collaboratore di Lèucade

"Il cielo incompiuto", di Dominick Ferrante
(Mangiaparole, Roma, 24 gennaio 2015)


Aprendo le pagine de "Il cielo incompiuto" di Dominick Ferrante sono stato colto da una fascinazione intensa che dubito di poter restituire con le mie parole. Quello di Dominick è un eloquio semplice e profondo che torna a fare della poesia un percorso di conoscenza. Uso questo termine non nel senso razionalistico ed esaustivo in cui è stato trasformato, ma nel senso originario secondo cui "conoscere" significa "fare la conoscenza", iniziare e non concludere un percorso di  conoscenza, perché più si conosce e più il mistero si amplia sia dentro di noi che intorno a noi. Dominick ci propone un viaggio nella vita, ci mette davanti la vita, ci immerge nel suo flusso misterioso, ma non pretende per questo di svelarne il mistero. Vaghiamo, egli scrive, "per intuire tutto, non capire niente": un verso fulminante, dove si racchiude congiuntamente tutta la forza del dubbio e tutta la forza della fede. La fede che fa intuire tutto, il dubbio che mette in crisi l'intuizione. Ma l'una serve all'altro, e viceversa, perché ci vuole una grande fede per poter dubitare e ci vuole un dubbio fortissimo per poter crescere nella fede. Le due cose non sono separabili in una visone globale dell'uomo e della vita.
La poesia di Dominick parla sempre e comunque dell'uomo e della vita, per questo è agli antipodi del manierismo eccentrico e saccente che si è imposto nelle varie espressioni dell'arte e della cultura. Qui si parla dell'uomo d'oggi e di sempre, della sua sete di giustizia e libertà, purtroppo avvilita dai condizionamenti e dalle gabbie del vivere sociale. Si parla di quella brama di assoluto che viene sempre soffocata. Ed è questo il cielo incompiuto: è l'uomo stesso, quell'essere che sempre oscilla tra cielo e terra, tra altezze e orizzontalità, non riuscendo a collocarsi in una sola dimensione. Se una definizione si può dare di questa poesia è che essa è segretamente ossimorica: contraddittoria in superficie, ma armoniosa in profondità. Tutto è oscillante: purezza e impurità, assoluto e relativo. Così in un giorno di pioggia il cielo scompare ed il poeta ha la sensazione di trovarsi "inchiodato in un limbo dondolante": "Desiderio di spirito. Corporale paura". Spesso il tempo sembra fermarsi in una situazione di stallo: "E lento il tempo / smarrito corriere / lo sento che indugia / ... / Attesa  trapasso". E le parole fuoriescono lapidarie, come al culmine di una tensione interiore.
Un'interpunzione concitata blocca il movimento del pensiero come a sottolineare l'indecisione, lo spaesamento, l'incapacità di comprendere, l'urgenza di approfondire. Fermare il tempo non per catturarlo, ma per farsene catturare, per entrare in sintonia con esso. Intuire tutto, non capire niente. Stare dentro la vita, amarla fino in fondo, amarla anche al prezzo della morte, della propria morte. "E di vita mi sento morire", scrive Ferrante in un verso da brivido, che potremmo pensare profetico sul suo destino e che  potremmo anche capovolgere ("e di morte mi sento vivere") senza travisarne il senso misterioso e salvifico. E questo è Amore, quell'amore che move il sole e l'altre stelle, la legge che governa l'universo intero. Una legge, dunque, e non un sentimento. Una legge impervia, che presenta aspetti dolcissimi, ma amari nello stesso tempo, perché le dolcezze nessuno le regala: vanno sudate e piante, conquistate in prima persona. E' questa lotta incandescente a fecondare sia la poesia che la vita di questo giovane uomo.
Molisano d'origine e cosmopolita di formazione, Dominick ha assorbito gli echi della Beat generation, ma in modo più diretto ed esplicito i miti della poesia pasoliniana. C'è da un lato il racconto impietoso di un mondo alla deriva (emarginati, senza tetto, derelitti d'ogni condizione), e dall'altro la descrizione di tenerezze e di gioie intime, di comunione autentica. Struggenti le poesie dedicate alla Madre, ma anche al Padre, alla sorella, agli amici, alle persone semplici che incontra, alla donna amata, al suo paese natale. Questi momenti di grazia sono oasi nel deserto, isole nel mare dell'indifferenza, ma più che un rifugio rappresentano una sfida lanciata contro il vuoto e l'aridità dei tempi attuali. Rappresentano la partecipazione ribelle del poeta alla vita, il suo farsi alfiere di buone novelle, tamburino di solidarietà e di fratellanza nel seno dell'arida società in cui viviamo.
La vena di Dominick sgorga da questo connubio di negazioni e di affermazioni. Possiede questa luce sghemba e paradossale. Ed è poesia nuova nel diorama del manierismo, del narcisismo, del minimalismo artistico dei tempi attuali. Gian Ruggero Manzoni afferma, a ragione, che "Ferrante lo si può considerare l'efficace contraltare di una stagione votata alla rovinosa caduta dell'ideologia e alla roboante esaltazione dell'Ego". Il riferimento è al Postmoderno, all'odierno crollo di ogni valore. Ferrante ha piena consapevolezza del crollo degli ideali. E' addirittura rassegnato di fronte allo squallore imperante: "Cerco di scoprire, inventare creare / qualcosa all'altezza della vostra stupidità, / ma non ci riesco a marcire di più. / Posso provare da buon parassita / ma non più dissolto il gusto mi opprime". Poi conclude: "Questo mi tocca. / O schiacciare il pulsante".  E in quel Questo mi tocca c'è tutta la potenza combattiva dell'amore, perché l'amore è l'unico modo per poter contrastare l'assenza d'amore.  Non più le ideologie, che in fondo sono tutte dogmatiche, possono arginare lo squallore e l'indifferenza imperanti, ma l'amore. Si legga Demagogia, una stilettata micidiale dove all'astruso proclama ideologico con cui inizia la poesia si contrappone un improvviso slargo dell'anima di fronte a un tramonto sul mare.
Il poeta è un tramite. Attraverso di lui, delle sue corde vocali, è la vita stessa a cantare, quella segreta identità dell'Essere che nessuna globalizzazione, nessuna omologazione potrà mai cancellare. Il sentire di Dominick non è metafisico, ma umanistico, radicato in quella spiritualità dell'uomo che ha il coraggio di porre in discussione se stesso, cercando di migliorarsi senza bolse invocazioni del divino. Semmai tentando umilmente di mettere in pratica il divino. In Virtù egli scrive: "Spesso sono stato colto. / Da me stesso. / Sì, / stupito dopo del mio stupido. / D'essere stato prima ancora / non stupito d'esser stupido, / e ancor prima, / non stupirmi di potermi istupidire. / Ma ora davvero lo so, / e non mi stupisco più". La consapevolezza dei propri limiti, così ben raccontata in Dubbio, non spinge tuttavia alla rinuncia, nonostante il non sentirsi all'altezza del sogno ed il cedere "al sonno mediocre di tutte le cose". Ed ecco improvvisamente il miracolo: Il Ginnasta, in un'azione eroica, riesce a superare se stesso mandando in visibilio lo stadio. E' questo un modo umanissimo di credere nell'assoluto, nella possibilità di migliorare se stessi: rimboccarsi le maniche, impegnarsi, lavorare per l'uomo, rendere umane le sue condizioni.
Mi piace concludere questo breve excursus parlando del timbro sperimentalistico di questa poesia. Il verso è nuovo, ma non è costruito a tavolino, come per un gioco di prestigio. Questa è poesia che sgorga dall'anima, un'anima totalmente immersa nella vita. E' il canto della realtà che giunge a mimare la realtà con ritratti e idiomi vivissimi, con spaccati di vita vissuta: un viaggio sulla metro, una zingara che chiede elemosine, persone emarginate e disperse che si raccontano, si confidano. E l'ironia amara di Pierina, con "quell'aria da maestrina gentile, / di bimba coi capelli bianchi", che decanta poesie e l'altro giorno "mi ha messo un vaffanculo in rima". Scusate la parola, ma è così che è scritto, ed è un verso che commuove alle lacrime. E' l'irruzione della prosa nella poesia, un'irruzione di cui la poesia è felice, perché se ne arricchisce ampliando i propri confini a dismisura.

                                                           
Franco Campegiani

2 commenti:

  1. Nella mia nota di gennaio, alla notizia della presentazione de "IL CIELO INCOMPIUTO" di Dominick Ferrante (che è la raccolta di tutte le pubblicazioni postume del giovane poeta) ho affermato che quella di Dominick è vera poesia e che il poeta a soli ventotto anni aveva già dato molto alla poesia e moltissimo ancora avrebbe dato, se " la furia delle onde" non lo avesse rapito " a questo mondo". Dominick ha dato la sua vita per salvarne altre. Ma non è di questo che voglio dire qui, quanto della sua poesia. Mi trovo completamente d'accordo con te, caro Franco, e con la tua lucida esegesi su "IL CIELO INCOMPIUTO", di una vita incompiuta ma già ricca di significativa poesia, spezzata per la generosità del giovane poeta, che già si era misurato con il dono del suo impegno sociale nelle case di assistenza, nei CASONI, dove "Ciò che si immagina, scompone, non ha suono / verbo frase, e solo fiato che si schiaccia". O dove incontra una vecchia donna, che non capisce il nome del poeta "come a dire D'Amico!?, / poi scroscia matta a ridere, potente./ Ma è vecchia, tossisce troppo dopo". Dominick è giovane, ma ha grande maturità, per i suoi anni. Maturità di uomo, di poeta, di pensiero (tra postmodernismo e ed ermetismo, che si risolvono in una poesia originale e personalissima) di forme, con un linguaggio forte ed espressivo, ricco di ossimori, metafore, sinestesie, assonanze, ritmo, allitterazioni. Una poesia, dunque, ricca e variegata, dove spesso compare anche il racconto (di pavesiana memoria). Una poesia dove vive un paesaggio diffuso, che è fisico e visivo (CASONE 2,3,4, ecc,) e di immagini stagliate in pochi versi, ma un paesaggio che è anche mentale-spirituale e che rimane sempre altamente lirico, momento essenziale della poesia di Dominick. Una poesia dove sono presenti le dilatazioni dello spazio (SOLOCEANO , RICORDO, NOVEMBRE-PENDOLO), del tempo (IL MIGLIORE, FUORITEMPO , LASSO), dell'anima (quasi sempre, ma soprattutto in "MORTE"), oltre ad un lirismo diffuso (FATA e A MIA MADRE), dove canto e metafore diventano quasi un inno. "Sei tu il vento. Vieni, volerò con te, / impareremo ad alzare la testa / nessuno sopra di noi, / da quassù tutte mosche quegli eroi". "Un armonioso scalpitar di zoccoli / di trenta fusilli lesto investe / il magro grigior al pomeriggio / carezza lieve mura spente, / il suo sguardo intento, / sorridente". Se tutto questo è vero -ed è vero- Dominick Ferrante è vivo. Con noi.

    Umberto Cerio

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  2. Rileggo con infinita emozione la relazione dell'Amico Franco, che trasuda Amore, nell'accezione più alta e varia del termine. La sua disamina ha riportato in vita Dominick, l'ha restituito alla mamma Elena, incredula e più che commossa. E ringrazio Umberto, di cui ho parlato , nel corso della serata, riferendo ai parenti le sue frasi e lo sprone che era riuscito a darmi alfine di rendere la serata una Festa della poesia e non una commemorazione... Siete pilastri della cultura e del Cielo!
    Maria Rizzi

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