lunedì 11 aprile 2016

N. PARDINI: LETTURA DI "LA CASA DI MIO NONNO" DI A. IZZI RUFO




Antonia Izzi Rufo: La casa di mio nonno. Il Convivio Editore. Castiglione di Sicilia. 2016. Pg. 144. € 13,50



Antonia Izzi Rufo è nelle cose, e le cose sono in lei. Un connubio stretto di realtà, sentimenti, di tradizioni, di aria imbevuta di tempi, altri tempi, dipinti di gioie e colori, di incantesimi, di paesaggi memori “di paesini vicini e lontani che si adagiavano sulle coste tra il verde e l’immensa vallata solcata da ruscelli e strade che s’insinuavano tra campi  e boschi, che scomparivano e riapparivano ad intermittenza…”. Un crogiolo di memorie che sgomitano per tornare a vivere arricchite dal pathos di una vita. Un imperfetto che con il suo senso di continuità dice da sé di antiche primavere, di volti scomparsi, di case e fiumi di un’età che intrepida, torna per  vincere le sottrazioni del tempo. La casa di mio nonno, il titolo, ed è il primo racconto,  eponimo, ad avvicinarci da subito a quello che rappresenta il memoriale per la scrittrice. Motivo e focus dominante, linea rossa che fa da coagulante nel dipanarsi delle tematiche.  Diciotto racconti che spaziano dai ricordi alla realtà, dalla storia alla fiaba, dal ménage al dramma senile… Una vita, insomma, tante vite raccontate con una scritture elastica e sciolta, avvincente e convincente per la pluralità espressiva, e soprattutto per la molteplicità di sequenze volte a dipingere, a rappresentare luoghi e paesaggi come concretizzazione di stati d’animo scortati “dal vento che giocava saltava sibilava con me e con le querce di S. Rocco”. Una narrazione ricamata di trine e merletti che con le sue polimorfiche intrusioni tanto ci dice di poesia; di un vero canto che Antonia si porta dietro  per donarlo al racconto. Sì, c’è questo travaso nella scrittrice, e in certi momenti non è azzardato parlare di prosa poetica, soprattutto quando Ella è presa da input emotivi rievocativi che la ri-portano a stornelli di vendemmiatori, all’uva moscatella, alla semplicità di una società di scambio. Antichi usi, fresche vicinanze, natura in veste variopinta, aspetto poetico di un periodo che l’Autrice ri-vive con strappi di saudade e vertigini di panica  quietudine: San Rocco, La vendemmia, La spannocchiatura, La raccolta delle ulive, l’Uccisione del maiale, La befana, Pasqua e Natale, un succedersi di eventi tinti di un autobiografismo che, emotivamente cotto a puntino, dà tutto se stesso alla intensità lirica di una poesia determinante per il valore del testo: “… Eppure/ c’è sempre/ nell’animo mio/ impressa una foto,/ sebbene sbiadita,/ l’immagine viva/ di una bimba che corre/ col vento, nel vento,/ in un viale/ s’immette di querce/ i cui rami/ fronzuti l’attendono,/ l’abbracciano,/ la portano in volo/ sul “Colle”,/ a sedere la pongono/ sopra una pietra/ rosa dal pianto/ ma calda/ ancora d’amore.”, dove una foto sbiadita, e una pietra rosa dal pianto segnano l’imperscrutabile corsa di un tempo che tutto divora, meno le cose che restano; quelle che si sono guadagnate il fatto  di esistere. Il dipanarsi delle vicende continua con “Laura e Stefano”, un racconto il cui contenuto ci dice della fine del pianeta per l’ingordigia dell’essere umano votato al male e al mancato rispetto della natura,  ad una nuova  guerra devastatrice: “… Distruzione di paesi e città, campagne, di tutto quanto era stato raggiunto dal progresso in tre millenni e morte di quasi tutti gli esseri viventi…”. Ma l’amore salverà il mondo: “Stefano e Laura s’incontrano in uno spazio desertico…”. L’uomo ritorna primitivo: “… Non hanno attrezzi agricoli e si servono di pietre… per zappettare intorno alle piantine… Quella vegetazione segna l’inizio della rinascita…”. Un diacronico succedersi di tasselli storici: dallo sconvolgimento totale alla vita, dacché: “la vita è eterna, quindi indistruttibile, e risorgerà ogni volta dal caos”.  E’ essa che vince sempre per la scrittrice, questo è il segnale positivo del suo pensiero; sebbene l’uomo faccia di tutto per distruggere il pianeta, per annullare l’esistenza di  ogni essere vivente, è nel potere della natura la vittoria sul tutto; anche sulla strada del regresso intrapresa dal genere umano.  Segue Ripiego, (Cristina, Mauro, Leandro) una storia di sentimenti contrastanti, di ritorno alle radici, di insoddisfazioni, di tradimenti e pentimenti fino al ripiego a una vita ecclesiale, o di meditazione e raccoglimento: “ la donna… era assente, tutta raccolta in se stessa, la sua anima vagava nell’infinito, si spingeva nell’Oltre, raggiungeva, con la fede e la fantasia, il regno dell’eterna felicità e lì sostava estasiata”.  Continuano gli altri brani a prospettarci vicende e accadimenti di una realtà a volte trasferita in spazi immaginifici, ma pur sempre presente, vicissitudinale, resa umanamente concreta da una penna viva e vivace; attenta e perspicace nel cogliere i subbugli dell’animo umano. E il cerchio sembra chiudersi col ritorno all’autobiografismo narrativo: Una storia come tante, dove l’Autrice torna a rappresentare paesaggi da sogno, incontaminati, dalle strade bianche, con aurore da petali di rosa, tramonti con tavolozze iridate. E’ lì che si trova e si ritrova; ed è lì che il suo animo incontra la quiete; dove i ragazzi giocavano a nascondino; e dove gli ortaggi crescevano in abbondanza senza bisogno di concimi chimici; e dove Maria percorreva sei chilometri al giorno, per un viottolo di campagna fino al ruscello che attraversava saltando sui sassi. Sì, non la storia di una vita qualunque, di una qualsiasi vita; ma quella unica e inconfondibile, che ognuno vive e che la Nostra ha fatta sua, lasciandola in animo pezzo per pezzo; intingendola di tutti quegli intingoli che rendono saporiti i piatti;  impreziosendola, insomma, con immagini arricchite da un tempo che ingrossa e sfuma, che indora e spigrisce, che orna ed adorna; da un tempo che inquieta, anche, non dandoci risposte sulla fine delle nostre storie:
“(Maria) Risponde al saluto del cuculo, antico amico, contempla “la virgola” (il paese di fronte, di nascita di lei), freme all’abbraccio d’amore che Zefiro, per conto di “lui”, le prodiga, mentre l’accarezza, baci le imprime sulle labbra, sensazioni le provoca nell’animo, di tenerezza e calde emozioni”. Stati d’animo che trovano posto in versi finali e che sentono forte il bisogno di chiudere in poesia la loro potenzialità emotiva:

(…)
di nuovo è tornata primavera
“Tu, amore mio, non torni”.
Così Maria, lo sguardo lontano,
oltre l’azzurro, oltre l’infinito.    
 

Nazario Pardini

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