domenica 1 settembre 2019

CINZIA BALDAZZI LEGGE: "I DINTORNI DELL'AMORE..." DI NAZARIO P.

Cinzia Baldazzi,
collaboratrice di Lèucade


Cinzia Baldazzi legge “I dintorni dell’amore ricordando Catullo” di Nazario Pardini


«È proprio vero, il fiume scorre portandosi dietro ciottoli, acque chiare, torbide, detriti, piene e bonacce, e tutto va a finire in un mare immenso, infinito».
L’incipit della Lettera ad una amica mai conosciuta inaugura la silloge I dintorni dell’amore. Ricordando Catullo di Nazario Pardini, preceduta da una esauriente e dettagliata prefazione di Rossella Cerniglia. Il misterioso fiume «avrà funzione catartica?», si chiede il poeta, «potrà purificare tutto?», sarà «pesante quanto la nostra memoria?». A chi affideremo, dunque, «quel grande patrimonio che tutti ci portiamo dietro e a cui ci aggrappiamo con il passare degli anni?».
Sulla scia del complesso pensiero filosofico occidentale, la poetica del volume prende le mosse con l’“Amore” e l’“Arte”, il “Bene” e il “Bello”: la καλοκαγαθία (kalolagathìa), espressione perfetta dell’essenza dello spirito greco. E si rivolge a coloro che non hanno accettato di escludere ogni rapporto tra essere e non-essere, ammettendo la durata di uno stato intermedio adeguato a partecipare in certi limiti del nucleo di entrambi: un simile stadio è utopicamente il divenire. A iniziare, fra il VI e il V secolo a.C., dal pànta rèi (πάντα ε) di Eraclito (o dell’allievo Cratilo, poi del latino Simplicio), ovvero il «tutto scorre», la realtà come un fiume destinato a sfociare nella marea cosmica e delle vicende umane. I componimenti di Pardini sono profondamente permeati da un simile pensiero. Nei versi di In una immensità che ti rapina leggiamo:

«Il mare si avvicina e si allontana,
clessidra della vita.
[…]
Mi prende il largo spazio:
sono nulla e il nulla si dilegua
nel vento salmastro dell’immenso.
[…]
Son fuscello
che si annulla nell’aria mattutina
portato sull’onda dall’ala leggera
del novembre.
[…]
riprenderà i suoi occhi per mirare
l’immensità del mare,
per pensare di nuovo che la vita
è quel fuscello breve che dimena
in un’immensità che ti rapina».

La congiunzione dell’unità dell’essere scaturisce dal molteplice medesimo: una coesione del genere si ottiene grazie all’andamento reciproco degli opposti, al loro fondersi. Lo suggeriva proprio Eraclito:

«È la stessa cosa in noi il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio; poiché queste cose mutandosi sono quelle, e quelle a loro volta mutandosi sono queste».

Il tutto nel logos di una parola che presiede contemporaneamente il divenire trascendentale e il fluire delle storie fattuali, terrene, inerenti il mondo degli uomini. Così, in Chissà per quali mète:

«Un paesano,
tra ombre trafitte da spade,
sbircia, un po’ poeta, l’orizzonte.
Forse ha in mente le semine,
i raccolti, le vendemmie;
forse ha in mente primavera;
o forse affida la vita
a delle piume inquiete
che volano chissà per quali mète».

Ne emerge un concetto di realtà pertinente alla sfera dell’essere vivente, svincolando ogni tipo di sviluppo razionale da inconfutabili e pericolose staticità. Pardini affronta la matrice ciclica del reale in un logos in grado di diventare “concreto”, non “astratto” (ad esempio, il «paesano, / tra ombre trafitte da spade»), permettendo che il principio regolatore sia articolato tanto dal cosmo quanto dalle azioni terrestri, immanenti; promuovendo, quindi, un proficuo, affascinante avvicendamento tra il contesto della natura e quello dello spirito.
In primis, per il nostro poeta, troviamo l’Amore. In alcuni frammenti di Eraclito si presume fosse il Fuoco: il πρ (piùr) infonde vita, calore agli esseri umani e, come la passione erotica, è insieme la legge modale del divenire, del verbo greco γίγνομαι (ghìgnomai), ma anche probabilmente una componente materiale delle cose. In misura analoga, l’anima, tradotta in chiave poetica da Nazario Pardini, può considerarsi connessa al λόγος, all’ordine universale della natura (φύσις, fiùsis), in virtù dell’essere essa stessa impeto (πνεύμα, pnèuma), energia, principio vitale di movimento, con il Nuovo e l’Antico a scambiarsi senza tregua, sull’hic et nunc quotidiano o artistico, «dove l’antico», puntualizza la Cerniglia, «possa intendersi come il terreno, l’humus, il sostrato, la base feconda e intatta (eterna) della poesia che verrà dopo».
L’opera di Pardini, intitolata I dintorni dell’amore. Ricordando Catullo, è divisa in tre sezioni: la prima omonima al titolo, la seconda denominata Di vita, di mare, di amore, la terza Canzoniere pagano, ricalcando in quest’ultima, sostiene Antonio Spagnuolo, «figure e immagini di trascorsi vissuti, dal vecchio mulino che alla sera riflette i colori del fuoco al tempo tardo delle cene familiari, dalle ombre che affollano la fiaba al sogno di ninfe e antichi dèi».
Nel capitolo iniziale si coglie una sorta di rivisitazione del gruppo di poesie Nugae, inserite nel celeberrimo Liber di 216 componimenti di Caio Valerio Catullo, dedicato alle vicende amorose dell’ammaliante donna cantata con il nome di Lesbia (per Nazario è Delia), in memoria del mitico fascino di Saffo che la leggenda vuole morisse proprio a Lèucade. Ecco una riscrittura pardiniana:

«O passerotto della mia fanciulla
con cui giocare o tenere in seno,
al quale il dito suole la mia Lesbia
da pizzicare offrire e morsicare.
Non so giocare come lei, letizia,
vogliosa di mossucce e rumorini,
lo fa di certo per placare ardore».

Il desiderio espresso dall’autore è di giocare con la bestiola per tentare di sanare l’angoscia del cuore. I versi rievocano in piena libertà la struttura in endecasillabi faleci adottata dal poeta latino ne Il passero di Lesbia: apparteneva al cliché poetico degli Alessandrini esprimere in epigrammi, brevi poesie, tenera simpatia per docili animaletti, compagni di letizia, di tristezza e a volte, purtroppo, piangerne con accorati accenti la scomparsa. Ma l’usanza in voga di regalare un passero all’amata (osservato, oltre a Catullo, da Properzio e da Ovidio) acquista immediatamente anche in Pardini un’aura sfuggente, in quanto il piccolo volatile con cui Lesbia-Delia si diletta diventa il simbolo di quella pace domestica negata al poeta dalla passione, il gentile rifugio al quale persino lui, se non afflitto da sentimenti controversi, vorrebbe ricorrere.
In più, la figura femminile, emblema per antonomasia di serenità e mancanza di affanni, viene proiettata in una sottile, indefinita ombra di intima ansia: forse pure la fanciulla è sfiorata dalla delicata pena, dolce-amara sensazione («lo fa di certo per pagare ardore»), presenza fedele al sorgere di affectus nelle anime degli innamorati? Oppure è il poeta che, a livello inconscio, trasferisce un tormento che è solo personale?
Una simile rete di segni-segnali sfumati, indeterminati, sparsi nella trama della poesia, costituisce un piano referenziale rimasto volutamente in sospeso da Pardini, in bilico tra ieri e oggi, fra l’essere e il non-essere, mentre, in continuo movimento, tali elementi convergono, si scontrano nella realtà vissuta o desiderata. Del resto, nella lettera già citata, Nazario Pardini dichiara che il dolore - il tormento - può purificare, però l’appello non coincide con il sopportare o gestire un’assorta, inerte contemplazione. Al contrario, nella guerra perpetua, nell’ostinato conflitto dei contrari al cui interno viviamo, il ruolo a noi destinato è comunque di combattere:

«È come una mandata di acqua sporca che dopo la piena lascia il posto a un rigagnolo che scivola sereno. Io credo che la vita sia un grande dono nel bene e nel male. Non si deve certamente accettare tutto passivamente come voluto da Dio. Bisogna lottare, lottare, lottare. Con tutte le forze che la Natura ci ha fornite. Ma anche saperci confondere, serenamente, a quelle acque che il mare attende, implacabile e paziente, nei suoi pelaghi».

Poi si precisa:

«Sì, là dove il vecchio e il nuovo si integrano nella sintesi di una dualità che si fa non/tempo».

Allora, in conclusione, riponendo il libro in attesa di un’ulteriore lettura, richiamiamo l’opinione di Aristotele sulla ψυχή (psiukè) - allietata da gioie, turbata da dispiaceri, allargata dalla conoscenza, confusa da inutili vaghezze - anche in virtù dell’amore sempre dimostrato da Pardini per gli “utensili” della vita quotidiana. Scrive il pensatore di Stagira:

«Si è detto in generale che cos’è l’anima: essa è sostanza nel senso di forma e cioè essenza di un corpo d’una determinata qualità. Supponiamo che uno strumento, per esempio la scure, sia un corpo naturale: l’essenza della scure sarebbe la sua sostanza e questa sarebbe l’anima; se questa fosse separata, non ci sarebbe più scure se non per omonimia. Qui si tratta di una scure: non di un corpo siffatto è essenza e forma l’anima, bensì di un corpo naturale di tale qualità, e cioè avente in se stesso il principio del movimento e della quiete».

Dove tutto ciò? Magari in un’isola, come quella di Lèucade:


«L’isola del bello, della poesia, dell’amore, della pace. L’isola in cui tutto è buono, forse perché tutto è in mano dei grandi poeti».

Cinzia Baldazzi

8 commenti:

  1. E' un piacere leggere le tue recensioni! Catullo è uno dei poeti che a amo e mi colpisce che ne sia stata fatta una rivisitazione di alcune poesie da parte di un grande poeta contemporaneo come Nazario Pardini

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  2. Ho molto apprezzato la tua recensione, Cinzia. Molto profonda.

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  3. Ho molto apprezzato la tua recensione, Cinzia. Molto profonda, filo che lega l'Antico al Nuovo. Grazie.

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    1. Grazie, Carlo. Sono certa di quanto una lettura di poetica esauriente sia, in ogni caso, avvantaggiata da un'indagine, come dire, nel tempo passato che, com'è noto, spalanca sempre l'orizzonte a quello presente e futuro.

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