martedì 6 aprile 2021

NAZARIO PARDINI LEGGE: "PER SEGNI ACCESI" DI ANNAMARIA FERRAMOSCA


Annamaria Ferramosca. Per segni accesi. Giuliano Ladolfi Editore. Febbraio 2021

Una palingenetica corsa  verso il tutto per elevare l’umano al sorriso del sole.

 

Le origini l’andare

Eppure sento il sibilare della prima neve,

la delicata melodia della luce del giorno

e il cupo brontolio della metropoli.

Bevo da una piccola fonte,

la mia sete più grande dell’oceano.

Adam Zagajewski


Iniziare dalla pericope in esergo significa entrare da subito nella poesia di Annamaria Ferramosca, nei suoi brividi lirici, nel suo immenso bagaglio sentimentale, nella sua aspirazione all’eterno, al tutto,  alla grande emozione a cui ci chiamano i suoi versi. Ibi omnia sunt:  memoria, onirico,  vita, volo en haut, direbbe Verlaine par-dessus le toit,   al di là degli orizzonti che ci invitano a confessare le nostre fughe, i nostri incantamenti per superare le aporie del momento. PER SEGNI ACCESI, il titolo di questa plaquette a significare che in certi momenti si accendono  dei segni talmente forti, che ci chiamano a dire tutto di noi, a  liberare l’animo da quei grovigli che dentro hanno covato da tempo per mutarsi poi in poesia. Perché questa è la poesia, il suo dilatarsi in fonemi, monemi, verbi che si fanno volumi del nostro essere. E poesia significa amore, sentimento, immagine, radici, tutto ciò che dentro sgomita per uscire a nuova vita. Tanti stati d’animo che hanno sedimentato nell’intimo di questa poetessa; che si sono ingranditi, impreziositi, irrobustiti da occupare l'esserc-ci, l'esistere, e che si traducono poi in fotogrammi, in tappe della nostra storia. I versi di questa plaquette scorrono limpidi, chiari, armonici,  incisivi da entrare con virulenza dentro noi per dirci che esistono e che pretendono di essere messi in luce per la loro forza verbale: una ricerca attenta e competente del verbo che reifica ogni vertigine ontologica, ogni epigrammatica vicenda di una vicissitudine che corre veloce come una rondine nel cielo. Scomodando Orazio si potrebbe affermare: “Dum loquimur fugerit  invita aetas”. Sì, il tempo corre senza darci la possibilità di leggere il presente. Questo è il dramma dell’uomo: sentirsi spaesato di fronte al tutto e al niente, dacché egli ha sempre sofferto, da quando è nato, nel misurarsi col quando e il dove, nel confrontarsi coi ruggiti delle nuvole, coi piani alti del cielo, con le vertigini che Per segni accesi si inchiodano in noi facendoci provare il senso del niente di fronte all’universo: “si fermano i vortici della notte si compie il tempo/ l’humus prende forma imita materia d’alba/ la morbida piega dei petali/ sul petto approda l’arca il bosco oscilla/ e uno stormire basso quasi un silenzio/ permette all’utero l’ultima spinta/ dev’essere pace intorno per il primo grido…”. Poesia nuova, moderna, frutto di una ricerca verbale di estrema forza comunicativa. I nessi copulativi si uniscono in iuncturae senza apporti connettivi, per dare  risalto immediato ai significanti. Le parole si ammassano per l’urgenza di svuotare il cumulo emotivo che dentro si è formato. Tutto è oggetto di una elasticità espressiva che lascia di stucco: “piega verso settentrione il cammino/ un capriccio obliquo della luce/ segue la pelle bruna la scolora/ azzurrisce occhi fa chiari i capelli/larga bellezza sulla terra/ e ci fa ibridi lungo i meridiani…”. Cammino, luce, pelle, occhi, bellezza, terra, meridiani; tanti segni indicatori, ossessione per  particolari che affollano un animo volto alla meditazione, alla concretizzazione di se steso.  Tutto è energia, azzardo, ricerca; tutto è nuovo e penetrante; di certo non si può definire questa versificazione di positura endecasillabo-sinestetica legata ad una tradizione di foscoliana memoria; ma neppure di prosastica positura sperimentale dove, secondo gli indirizzi moderni, si tende ad eliminare la differenza tra prosa e poesia. Piuttosto mi soffermerei su un discorso autonomo, su un logos personale, su una poetica strettamente  innovativa ma che mantiene un timbro di ispirazione soggettiva che la fa unica. Basti citare gli ultimi versi della silloge per darci contezza di tale stile dove aggettivazioni e verbalizzazioni si assembrano in cumuli di suoni ed effetti poetici di rara fattura comunicativa: “sentire feroce il sole ridere/ di noi umani confusi reclusi/ a schivare corpuscoli armati/ ad attendere lentissima/ chiarezza”, e dove non manca un pizzico di ironico sguardo sugli umani “confusi reclusi”.

Nazario Pardini              

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