giovedì 24 febbraio 2022

ADRIANA PEDICINI LEGGE: "HOC MIHI CONTINGAT" DI NAZARIO PARDINI

HOC MIHI CONTINGAT  di Nazario Pardini

Nota di lettura di Adriana Pedicini

ELEGIE

Il confine tra la percezione del reale e l’oggettività è talmente personale che accade a ciascuno di confondere spesso i dati o, al contrario, di amalgamarli in un impasto oscillante tra sensazione e memoria. tra desiderio e nostalgia, tra dolore e speranza.

È come vivere un sogno assolutamente irreale o trasognare la realtà perché diventi più accettabile, più cara. Sicché le foglie morte di tanti viali d’autunno diventano il tappeto verde carezzato da” i suoi piedi nudi/per dare luce e rendermi felice”. (Melanconico autunno).

Tale urgenza richiede talvolta il dispiegamento del ritmo prosastico per poetare una sorta di favola sull’intreccio fornito da contesto paesaggistico, personaggi attinti dal mondo fiabesco, memoria e sforzo onirico di vedere volti cari e ascoltare voci amate. Il tutto in una dimensione fantastica, con una leggiadria e una cura del dettaglio che incantano. Tra le righe la morale implicita della bellezza, della fiducia, delle fede in chi non c’è più e, in conclusione, la costante presenza del suono montano, simbolo di un dialogo d’amore destinato a durare all’infinito. (Laura e il bosco degli ulivi).

Il ruolo fondamentale è comunque quello della memoria, del ricordo che si avvale di un lessico capace di evocare suoni, odori, aspetti precisi della vita a contatto con la natura come “filari, pampini vecchi, arie di monte, di mare, tabacchi dei vitigni, chicchi biondeggianti”.

Ed è in tale contesto che, mentre tutto sembra illanguidirsi prima di scomparire ai sensi, che avviene la suggestione più grande: il pensiero. “Ti penso”, collocato sapientemente all’inizio di questa deliziosa ode dall’omonimo titolo, sembra l’unica residuale possibilità in una realtà ormai evanescente.

“Disperdo all’aria ferma/il fumo della pipa/e guardo il campo aperto/.

Chi di noi non ha vissuto questa specie di piacevole neghittosità in cui tutto si decanta e si disperde tranne il pensiero d’amore? Il quale ricorre più volte nel nostro Poeta; soprattutto per la sua Delia.

“t’accompagna un canto/su per un manto verde/dove si perde ancora il tuo sorriso/… (A Delia)

per giungere allo struggimento degli incantevoli versi finali della poesia Alla mia donna.

Se odi una voce la sera……………/sono io che affido ai miei flutti/un animo stanco e deserto./ alla donna che amo da sempre/…

Continuando a leggere le liriche del Pardini raccolte nella prima parte del volume che stiamo trattando, non posso non cogliere echi montaliani e mi sovviene “Meriggiare pallido e assorto”, e il verso fondamentale sentire con triste meraviglia/com’è tutta la vita e il suo travaglio/.

Basterebbe scorrere i versi di tante liriche da Aria di luce a Silenzi, da Tramonto a Le barche, da Anima a Freddo di sera, per capire come sia corale la pena di vivere, come tutto il Creato soffra di fatica, di desiderio, di agognata pace e riposo. E ancora, nelle poesie che chiudono questa prima parte s’impone il gusto proprio dell’elegia: l’attenzione per la natura o l’ambiente circostante i cui aspetti vengono interpretati dallo stato d’animo del Poeta. Di tanto in tanto cenni autobiografici, come quando parla dei suoi Famigliari: Mio Fratello, che rimanda ad altre due bellissime elegie molto personali: Mamma, Babbo. In tutte il ricordo si mescola all’affetto, alla sofferenza di non poter recuperare il tempo, alle esperienze di vita che, come sempre, sembrano sfuggenti e lievi nel momento in cui si vivono, ma pesano terribilmente quando il filo della memoria tenta di ripararne le crepe.

Lo stesso afflato troviamo nelle prose poetiche che seguono come, Inverni solitari, O mie compagnie ed altre.

L’input poetico, l’ispirazione non vengono minimamente inficiati dalla prosa, anzi essa offre la possibilità di spiegare le vele dell’estro in modo totale e appagante, non dovendo per forza ricorrere al ritmo sincopato della poesia. Ne derivano davvero degli idilli stupendi venati di melanconia, ma anche di attenzione per la realtà, di descrizioni potentissime che ne fanno dei quadri impressionistici per poi sfociare nel tratteggio dell’esperienza emozionale che la realtà suggerisce.

Che delizia la raccolta che va sotto il nome Dalla vita dei campi. Poesie che, in ritmi vari e diversi, evocano la vita semplice e allo stesso tempo poliedrica e multi valoriale dei campi e di coloro che i campi li hanno amati, vissuti e lavorati. Impossibile riassumerle tanto sono dense. Bisogna assolutamente gustarle portando il segno con l’indice, come usava da piccoli a scuola, a cui mi auguro che esse arrivino perché la povertà culturale di tanti nostri ragazzi deriva anche dalla perdita dell’enorme bagaglio culturale ed esperienziale che forniva la vita contadina, allorché di generazione in generazione si tramandavano saperi e valori. C’è tutto in queste liriche. Si ha l’impressione di trovarsi talvolta dinanzi a vere scenette dell’antico teatro popolare.   Naturalmente non manca il richiamo personale alla vita giovanile, alle giornate in campagna, all’antico ed eterno amore: Delia, ultimo e sublime desiderio, oltre quelli della serenità favorita dal saper essere contento del poco e del ricordo imperituro della figura paterna.

L’immagine mi resti di una donna/Delia, del color dei campi, del grano/la sua mano e il soave volto, /l’immagine mi resti anche sfuocata/di una giornata con lei tra i fil di fieno/quando vien meno il giorno/e calano le vele del ritorno.

Si continua con ALLA RICERCA DI VOCI. Proverbi e detti raccolti nelle campagne pisane. Un ghiotto e simpaticissimo elenco di proverbi attinti dal mondo contadino che non fanno altro che continuare a sventagliare l’amore per la vita agreste del Nostro, che, in linea con il monito tibulliano, asserisce, attraverso il proverbio, la tranquillità che solo la vita semplice a contatto con la natura può regalare. Magari non sempre è così, perché la vita in campagna è fatta anche di duri sacrifici e di privazioni, ma stare lontano dalle guerre, dalle dispute egoistiche e dall’orrenda fame di ricchezza è un bene impagabile.

Vino in cantina, pane in granaio, /al contadino non cal salario

Ma la saggezza di vita suggerisce anche 

Ricco non ti fare/ma nemmeno mendico

Infine Racconti brevi ATTORNO AL FOCOLARE

I quali si aprono con Lettera a mio figlio, una struggente summa di precetti di ordine materiale e spirituale, che ha per insegna e simbolo supremo il valore della libertà, bene che mai deve essere perso di vista.

Si susseguono altri racconti il cui senso può ben essere espresso dalla massima, la prima della serie che chiude il tomo Hoc mihi contingat.

L’arte è l’immagine di un tratto di esistenza colta nella sua essenza irripetibile.

Sicché i vari racconti di quest’ultima sezione contengono perle disseminate nei fondali della vita, pietre miliari dell’esistenza, il cui motivo di esistere è tutto nella trasmissibilità che da una parte informa, dall’altra forma, e infine costituisce il nocciolo dell’Arte che neppure il tempo riesce a logorare.

Ricordiamo Orazio (Odi, III, 30, 6)

Ho costruito un monumento più eterno del bronzo, / più alto della mole regale delle Piramidi, / che non potranno abbattere piogge mordenti, / o venti sfrenati, o l’innumerevole serie/ 5 degli anni, la fuga del tempo. / Non morrò interamente, e molta parte/ di me sfuggirà a Libitina, e in futuro/ crescerò sempre, rinnovandosi la mia gloria, finché il pontefice/ salirà il Campidoglio con la vergine tacita. / 10 Si dirà, dove strepita/ l’Ofanto violento, / dove sui popoli rustici/ regnò Dauno, povero d’acqua, / che, nato umile e diventato potente, per primo ho portato/ 15 in Italia la lirica greca. Tu assumi, Melpomene, / la superbia dovuta al merito, e incoronami/ benignamente con l’alloro di Delfi

Nei racconti di “Intorno al focolare”, quindi, scorgiamo ancora una volta la rete di valori che costituiscono il sostrato formativo del Nostro, l’amore per tutto ciò che nobilmente si eleva dalla materia bruta, l’attenzione per il dettaglio, per le storie così diverse e così uguali, il lirismo congenito che trova nella Poesia il suo habitat naturale e la sua espressione di elevatissima fattura e competenza, una profonda pietas che lo porta ad amare i suoi simili, le case e le cose abitate e vissute, a concepire amore eterno e speranza ostinata, non senza un velo di tristezza, ora legato a vicende concrete, ora frutto di meditazione e di riflessione sul destino umano e sulla possibilità che ciò che è creato dall’Uomo possa sopravvivergli. Sempre con garbo, con elegante perizia stilistica e vivacità creativa molto personale del lessico.

Illuminante, a tal proposito, il dialogo tra Oblio e Vita che si contendono il potere, l’uno di distruggere, l’altra del perenne valore della memoria collettiva attraverso l’Arte. La quale entra nella discussione per affermare la sua supremazia e il potere di trasmettere la Vita, non quella colta nell’attimo in cui viene vissuta, ma quella sedimentata, ripensata, ricreata con l’ausilio della memoria, riprodotta attraverso l’immagine, la parola, la materia, quella che, privata dalle scorie delle contingenze, sola si erge come monumento più duraturo del bronzo, a cui attingeranno le generazioni future.

L’alloro delfico possa meritatamente cingere per sempre le tempie Del caro Nazario Pardini.

 

 

 

 

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