martedì 1 marzo 2022

ENZO CONCARDI LEGGE "HOC MIHI CONTINGAT" DI NAZARIO PARDINI


Nazario Pardini 

HOC MIHI CONTINGAT

Recensione di Enzo Concardi

 

 

 

Ecco l’ultima fatica letteraria di Nazario Pardini: poesie e prose, recita il sottotitolo, ma qui non è questione di strutture scritturali, ma di pathos nel significato greco del termine, ovvero ‘soffrire’ o ‘emozionarsi’ e creare con sentimento la partecipazione affettiva nell’altro; e di eros e thanatos in senso freudiano, ovvero ‘pulsione di vita’ e ‘pulsione di morte’. A mio parere queste sono le energie potenti che sprigionano dalla mente, dal cuore, dalla memoria dell’autore un flusso dinamico che tutto abbraccia, tutto comprende, tutto ama, tutto giudica e tutto reclama nel manifestarsi di un essere unico e irripetibile, proteso alla ricerca del senso della vita e della morte. È una sete profonda e infinita, eterna. Soprattutto nelle parti del libro che portano come titoli: Elegie, Dalla vita dei campi, Attorno al focolare, troviamo un abbraccio intenso, incessante, vitale, bisognoso con le proprie radici geografiche ed affettive, con i propri sentimenti ed affetti, con la natura tout court ovvero vissuta in prima persona e non dall’esterno, con la realtà e i simboli e finanche i miti della civiltà agreste e contadina oserei dire sine glossa, quasi come se quel mondo sia stato e sia per lui il vangelo della sua vita.


 


Ergo, qui si tratta di una perfetta fusione tra letteratura e vita, tra poesia ed esistenza, senza alcuna discrasia tra le due dimensioni: non c’è il docente, il professore universitario, l’accademico da una parte e la sua vita privata, relazionale e sociale, dall’altra; c’è piuttosto un uomo dallo spessore autentico che guarda la vita talora con passione, talora con disincanto; talvolta con sofferenza, talvolta con serenità; spesso in ricerca dei tanti perché, spesso solo meravigliato e incantato; alcune volte ancora speranzoso di primavere, altre volte malinconicamente cantore dell’autunno o del crepuscolo. Ma sempre alla ricerca del vero in se stesso, negli altri, nella società, nel mondo. Con tali presupposti, voglio dire che Pardini sarebbe comunque poeta e lirico ‘primigenio’, anche senza il suo curriculum vitae culturale, che non sempre facilita la libertà interiore del creativo, ma che rischia invece di ostacolarla se si trasforma in impalcature e sovrastrutture artificiose.

Si può recensire questo libro seguendo il tradizionale canone delle tematiche, ma in questo caso mi pare un criterio restrittivo, in quanto egli non ha certo vissuto la sua vita a scompartimenti, ma tutta insieme, unita, globale, integrale: preferisco perciò seguire l’ordine di pubblicazione, scegliendo i testi per me più significativi, emblematici e paradigmatici, nei quali emerge la scintilla della luce poetica. Si va per sintesi e non per analisi, dato lo spazio a disposizione. Melanconico autunno: simbolo del tramonto della vita, e infatti troviamo ‘foglie morte’, e ‘colori moribondi’, ma subentra il ricordo di lei che a piedi nudi accarezzava le foglie e rendeva felice il poeta; natura e amore – vissuto o sognato o sua memoria – in un connubio simbiotico dell’essere e dell’esserci. Laura e il bosco degli ulivi: tra favola e realtà questa lirica è uno struggente e commovente inno alla vita, alla vita che continua con ritrovate motivazioni dopo la morte del padre, da parte della figlia Laura, innamorata della natura con una ipersensibilità verso tutte le creature (“Le dispiaceva persino strappare / il filo dell’erba, / cosciente di toglierli la vita”); lei vince la solitudine dopo la visione e l’incontro con l’anima del padre, che da allora osservò la figlia al lavoro nei campi, tornata felice; una poesia-racconto avvincente, grazie alle immagini suggestive create dal poeta. Babbo e Mamma, poesie della memoria scritte con il nodo in gola e frutto di un pianto che non si vede, ma che sta tutto dentro: i ricordi del ‘babbo’ si affievoliscono e, nei colloqui sulla sua tomba (foscoliana funzione affettiva dei sepolcri), il poeta sente che sta per giungere l’ora anche per lui e spera in un ricongiungimento spirituale; e per la mamma scrive una poesia di sapore ungarettiano, cioè umana, profonda, intensa: “Ma tu sei stata giovane?” dice il figlio, preoccupato di sapere se ha vissuto solo una vita di fatiche e dolore, oppure anche di gioia e divertimento e conclude: “Quanto fanno male le memorie!”, ovvero nascono il rimpianto e il senso dello smarrimento.

 

Inizia ad intravedersi l’autenticità dei sentimenti di un certo mondo contadino – tra campi, lavoro, fatiche – ma vita, vita, tanta vita – perché c’erano l’amore, il rispetto per tutti e la sintonia con i ritmi della natura. Un lampo, una visione, tanti desideri per L’unica spiaggia, dove tutti approderemo nel cielo verso la luna, mentre dietro di noi la natura si scatena per cancellare le orme terrestri e noi saremo un’unica cosa con l’universo: potenti immagini (“sotto una bufera di cavalli”…) per i giorni dell’apocalisse e della parusia. A Delia: la donna reale-ideale del poeta in tante poesie; lei: tutto. I profumi del mare: è la presenza misteriosa del mare che lo stupisce ed inquieta, intento com’è a decifrarne il linguaggio arcano. Ed è quel Freddo di sera che ci fa capire la nostra fralezza e finitudine: “e si muore un pochino ogni sera”. Poi, Ulivi. Lirica che oso definire ‘religiosa’, poiché qui tutto è sacro per il poeta: le mie terrazze, il mio mare, i miei colli, i miei campi, i miei templi, il mio altare, i miei ulivi; dove gli aggettivi possessivi non indicano per nulla possesso, ma amore. In Stecchi al cielo (breve prosa) e in Pinete ritorna la presenza di Delia: nella prima si respira l’atmosfera leopardiana dell’idillio A Silvia, mentre la seconda è un modello di come egli canta liricamente la natura (“Pinete / sempreverdi alcove / di contorno al mare / ...”) e di come il ricordo indelebile di Delia ancora punga sulla sua ispirazione. C’è anche la breve prosa Delia, che ci ricorda il suo sentimento: “... Io fra la miseria degli uomini ho bisogno di te, stasera.”

 

 Ecco che è ormai evidente come un aspetto importante del suo canto in questo libro possa definirsi “poetica della contemplazione”, che nasce da uno sguardo d’amore e di meraviglia (il ‘fanciullino’ pascoliano) verso la realtà esterna e il mondo interiore. Inoltre si nota la compresenza, nella pittura dei paesaggi, di una aderenza al reale e di una trasfigurazione degli stessi, per cui essi diventano spesso ‘paesaggi dell’anima’. Si continua il viaggio: “La vita pallida come una foglia d’autunno si regge esile sulla pietà della morte. La morte pietosa risparmia il dolore e coglie la vita nel suo prolungarsi inutile di una terrena esistenza”. È la tacitiana prosa di Pallida vita che dà luogo a una delle diverse riflessioni sulla morte, presenza incombente silenziosa o pungente, insieme alla solitudine, compagne inevitabili della condizione umana. E infatti il nostro viandante nel crepuscolo, dall’alto della sua condizione di poeta osserva il brulichio del formicaio umano e si amareggia per le tristi maschere dei carnevali, che servono solo per uccidere il tempo “che ci divide dalla sera” (È festa), mentre poi affronta con piglio il destino di noi mortali e si apre ad un colloquio con La morte: bisognerebbe leggerla tutta questa lirica per capire, anche quando l’argomento sembra così lugubre, quanto egli ami la vita, e quanto tutta la sua poesia sia una continua dichiarazione d’amore per la vita, un inno alla ricerca del bello, del vero, della felicità, dell’eternità. Qui concede la parola alla morte: chiede ed ottiene di lasciarlo terminare il suo lavoro di scrittore prima del viaggio ultimo, in modo che il suo spirito e la memoria delle sue opere restino in chi verrà dopo (“Venne la morte / e prese il mio corpo / … / ma lo spirito lasciò in mezzo ai mortali”).

 

Dalla vita dei campi abbiamo conferma del suo radicamento nei luoghi natali, nella famiglia e tra la gente contadina: ci regala immagini di vita agreste, ricorda i lavori, la vendemmia, la semplicità della vita, la fiducia di tutti verso tutti, la sveglia del sole, le fiabe intorno al focolare domestico, i sonni di gente serena, l’odor della zuppa … nella sua terra sempre cantata (Civiltà contadina, La mia gente, Settembre ...). Lontana è la città, lontano il mondo moderno: Nazario Pardini qui è l’aedo di quel mondo che si va perdendo, compresi i suoi valori. Anche la sezione Alla ricerca di voci. Proverbi e detti raccolti nelle campagne pisane, rientra in tale contesto e sono antiche, ma affascinanti, perle di saggezza in rima, frutto di quella civiltà e delle sue dimensioni di vita e di lavoro. I racconti brevi di Attorno al focolare sono di argomento vario (filosofia, arte, storia, biografie, fantasie, …) e arricchiscono la nostra conoscenza dello scrittore che esprime anche le sue idee politiche (Lettera a mio figlio sulla libertà, Per sconfiggere la morte, La vita l’oblio e l’arte). Alcune Massime argute, acute e profonde concludono il libro: altre occasioni per riflettere. Ed anch’io concludo, con una azzardata similitudine: come il De Sanctis definì Dante un uomo con i piedi nel Medio Evo, ma la testa nell’Evo Moderno, così io mi sento di dire di Nazario Pardini: un uomo con i piedi sulla Terra, ma la testa nel Cielo.

Enzo Concardi

 

 

Nazario Pardini, Hoc mihi contingat, pref. Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 184, isbn 978-88-31497-79-4, mianoposta@gmail.com.

 

 

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