-
Il sogno di un mare inesistente – L’errore che
ci spinge alla ricerca – Ciò che fa di me un uomo è l’avere imparato, plasmando, la creta indocile del
vivere – sono tanti tasselli di una poetica che rende umanamente vero il
percorso poetico di Ivano Mugnaini. Perché è vita nel suo scorrere un po’
lieto, un po’ accidentato; nel suo scorrere precario e doloroso, anche, di cui
siamo coscienti. Ed esistiamo. Ma ne siamo convinti? o è un esistere falso, e
quello vero è proiettato e irraggiungibile?
-
Azzardiamo sguardi in cieli lontani, col rischio
di incespicare nelle sporgenze della vita. Rischio non raro. Ed è così che
soffriamo, pur alleggeriti dal nostro poetare: soffriamo di questi spazi
ristretti, taedium vitae. L’uomo ha double face. Vive da uomo, azzardando
l’anima e la mente oltre i confini. E si
può bruciare.
-
“Ma intanto ridono (i bambini), e alzare la
testa / per vedere il sole è anche per te, ora, / una forma vitale di follia”.
-
“… l’istante / in cui ti senti vivo, / seppure
fragile, / inadeguato all’eterno.”
-
Queste
poesie sono talmente nuove, e contaminanti che, ironizzando, con una vena di malinconia, sulla tragicità
della vita, si rendono tutte utili
all’organicità dell’opera. Non si può sezionare. Se poi si tiene di conto della
parola è sorprendente come sappia, con
le sue dilatazioni, accompagnare l’autore nella traduzione dell’anima. Una
parola ampia, secca, sfrontata, dolce, ma soprattutto azzardata nella rottura
del verbo e della sintassi per rincorrere il dilemma dell’esistere. Una parola
che riesce a fare della quotidianità un trampolino di lancio verso la
possibilità dell’impossibile.
-
Ho ritenuto opportuno pubblicare l’opera
tutt’intera per dare la possibilità ai miei lettori di gioire della sua
simbiotica fusione fra dire e sentire. E tante sarebbero le occasioni per
spunti e riflessioni.
Nazario Pardini
Nazario Pardini
IL TEMPO SALVATO
Raccolta
Di
Ivano Mugnaini
Malgrado le difficoltà della
mia vicenda, malgrado i disagi, i dubbi, le angosce,
malgrado il desiderio di
uscirne fuori, dentro di me non smetto di affermare
l'amore come un valore.
[Roland Barthes]
Sezione I:
“Tra la poesia e la vita”
L’amore è la capacità di avvertire
il simile nel dissimile.
Th. W.
Adorno, Minima Moralia, III
Incontriamoci adesso
Corri amore, prendi una
tee-shirt e un’arancia
incontriamoci in un albergo di
provincia
con le persiane azzurre e un
balcone
che sa di basilico, terra e
fiori di campo,
un albergo qualunque pigramente
affacciato
su un vicolo stanco di polvere
e passi
di suore e bambini che cantano
nenie, pifferi, topi, tubi di
scappamento,
è questo l’attimo, è questo il
momento, amore,
porta solo le tue labbra e
un’arancia ,
incontriamoci in un albergo di
provincia
vicino al mare.
Io berrò il tuo seno e la tua
guancia
sarò il bambino e tu la mia
bilancia
getteremo la maglietta sul
tetto scuro
della tua cara amica che sta in
Francia
tu sarai le labbra ed io sarò
l’arancia,
non esitare, vola sulle tue
scarpe più belle
quelle leggere, di tela rosa e
bianca,
incontriamoci adesso, in un albergo di provincia
anche senza il mare.
***
Dentro un letto d’alghe
lontano dal mondo, con te,
perla che sgorga dalla pelle
pupille gelose che bevono
la luce dei tuoi occhi;
o, se così non fosse,
con te, dentro un letto
d’alghe,
oceano lento, sconfinato,
per dirti che non ti amo
perché non mi ami,
ma dirtelo così vicino,
così all’interno, così
profondo,
che l’eco sarebbe stilla
d’eterna
bugia, ape impazzita che ronza
testarda
e feroce sopra e dentro il
miele
della tua e della mia follia.
***
Vivere,
forse
Vivere, forse, per un granello
di bellezza, anche se non sai
come
né perché e non si vede cornice
né quadro né si legge la chiave
del gesto, la mano che avvolge
con bestiale eleganza la rete
calata
nel pelago, senza un riso o un
ghigno,
meccanica metodica
tarlo che logora
sereno
morde e martella compìto,
spietato, secco il fiato nel
fondo
dei polmoni, apnea, abisso,
esplodere
rosso di buio, e il flauto
dolce
che ti scava dentro, inatteso.
***
Il
giusto peso
Dare, ora, alle parole
il giusto peso, è tutto
ciò che abbiamo, scegliere
cosa dire senza oscillare,
goffo,
tra il rumore dello sghignazzo
e il tremore prudente
di chi ti ha amato, bianco
di capelli volati per la strada
uno ad uno. Sollevare le parole
con le braccia, sentire la
pelle
bruciare di sudore ad ogni
sillaba
che riga l’asfalto, ogni
silenzio
che sfregia la spina.
Parlare e tacere a tempo,
prima che il tempo deponga
una lapide ironica su ogni
istante,
monologo cupo di vecchio
ubriaco,
dialogo di comari che si
lagnano
dei prezzi folli del
supermercato.
E’ ora di darsi, nudi, alle
parole,
sperando in un abbraccio di
passione,
o almeno in un riso pietoso,
alito
sul collo e sulla mano, profumo
di vento che ti passa accanto
mentre
guardi due occhi accesi, e il
silenzio
che ti esplode dentro è un
nemico
che puoi ancora annientare.
***
La chiamasti amore, lei,
Sibilla, la poesia,
la poesia, carne
soffice, molle nelle mani sopra
gabbie di tendini, ossa cieche
all’abbraccio feroce,
occhi sbarrati, croce, delirio,
le braccia puntate sul letto,
mitra di carne, fuoco mentre
ride, serena, intangibile.
Ma resta, là dove non sai
vedere
né toccare, nell’iride azzurra
del tuo occhio di colosso
montanaro nutrito di caglio
denso
e aria eterea di panorami
strappati alle urla del vuoto,
il sorriso dell’attimo breve,
infinito
in cui forse l’hai amata,
posseduta
senza sfiorarla, compresa
nell’ombra
delle stanze, nel vetro della
finestra
socchiusa in cui, guardandola,
l’hai scordata, cercandola
l’hai smarrita,
perdendoti l’hai veduta,
vorace,
identica a te.
***
Chimera
-
a Dino Campana -
La più ardua e la più chiara,
notturna
“Chimera”, perla in uno scrigno
di velluto
nero. “Non so se tra rocce il
tuo pallido
viso m’apparve”, scrivi, urlo e
sussurro
alla tua eterna Gioconda,
sorriso di sfida
tra le dita del mondo.
E il mistero di lei lo chiami
“dolce”,
tu che dalla vita hai spremuto
mosto agro
fuori e contro il tempo.
“Dolce sul mio dolore è la
Chimera”.
E il dolore, ora, è mio e tuo,
il più folle dei furti, pietra
preziosa
immensamente pesante venata
d’oro
nel profondo.
Allora, vedo anch’io in un
riflesso lunare,
la faccia, la pallida guancia,
la fronte fulgente,
la luce che acceca.
Felice di non capire, condivido con te
un attimo di suono, eco
lontana,
una valle in cui scorre cupo e
forte
il tuo fiume e due ragazzi
urlano
muti l’amplesso liquido del
loro amore.
Sorride ancora la tua Gioconda
Chimera
e l’orrore adesso è abisso in
cui ansima,
urla armonia aspra di bora e
fluida di resina
la tua poesia.
Nell’immobilità dei firmamenti,
tra i gonfi rivi respira
l’arcano del pianto
e del riso che hanno fatto di
te te stesso.
Anch’io adesso per un istante
osservo
le ombre del lavoro umano,
tempo
senza misura, senza la chiave
che apre e sbarra al cuore lo
spazio
vitale di dolore e voluttà,
anch’io,
forse, vedo e sento, nel viso
di lei,
il sorriso di un volto
notturno,
e ancora per teneri cieli
lontane chiare
ombre correnti, e ancora,
anch’io, la chiamo,
la chiamo Chimera.
***
La
notte
La chimica pura e corrotta
dei tuoi studi, gli anni
giovanili, terra d’elezione,
stagione effimera
della mente, la notte,
compagna insaziabile e
assetata.
A lei hai dato tutto, il tuo
seme sparso
nel grembo ha generato un corpo
arcano, rosso di sangue e
grida,
pronto a correre, a fuggire,
appena nato.
Alieno alla luce, al riflesso
paziente
delle aiuole, suore dai capelli
a larghe
tese, ombra di chiese
consacrate
al santo protettore del potere.
Le cosce della notte, sode,
calde, distese
è lì che hai gettato i tuoi
pensieri,
li hai lasciati stritolare
per ritrovarli fertili,
schiusi,
urlanti di forme di parole.
La notte, calore di geli senza
fine,
i guanti a scaldare la penna,
nella bocca il diamante di un
riso
da incastonare
in un concetto, un’idea, pietra
che forgia e misura,
frantumandolo,
il corpo del mondo.
***
Lo
sceneggiato a colori
Abbiamo
rivisto insieme, su una rete
infima,
minore, “Sandokan”, lo sceneggiato
a
colori di una gioventù ruggente.
Abbiamo
provato di nuovo a sognare
album
di figurine da riempire
a
poco a poco a scuola, lasciando una sola
casella
vuota, quella che manca,
per
fortuna, la Perla di Labuan,
da
cercare domani, sperando
di
non trovarla mai.
Ora,
però, neppure gli occhi della Tigre
cerchiati
di kajal, sanno più ipnotizzare,
è
sbiadito il rosso del sole, l’India domestica,
chiosco
abusivo di Cinecittà, sa di zucchero
caramellato
andato a male.
Passa
adesso, eterna e inesorabile, solo
la
réclame. La segue e la incalza una canzone
anni
settanta; “la piazzetta del mercato è ancora
là”,
sì, ma il sorriso da contratto del cantante
biondo
tinto somiglia, ora, a un ghigno,
o
forse a un pianto.
***
Verso
te
Il
tempo, l’ora vuota nell’afa,
una
macchina ferma nel sole,
sulla
pelle tessuti e pensieri
che
vorresti di cotone, mentre
sudi
e ridi nel sudario
di
fustagno. Il tempo,
quello
di cui parlano solenni
i
poeti, osano afferrarlo, o almeno
si
crogiolano nella morsa
della
più megera menzogna.
Ricordo
una saggia e solenne
poetessa
romana che proponeva
una
ricetta, gli ingredienti esatti
della
pietanza ipocalorica
dell’esistenza.
Beata lei! Quasi
santa,
degna della gloria imperitura.
A me,
nell’afa
settembrina, nell’auto
che
sbarra alla bocca e ai polmoni
muri
d’aria, resta un sibilo vicino
alla
ruota, il timore di non sapere
se
sia serpe o cicala, una radio accesa
che
gira da sola su stazioni impossibili
da
sintonizzare, e una biro leggera
per
scandire le sillabe e gli istanti
di
quest’ora sperduta.
***
Quale
amnistia?
Quale
amnistia? Per quali peccati mortali?
E’
cosa da poco, in fondo, la morte, banale,
veniale
o giù di lì, di sicuro scontata,
garantita
come una sentenza, o un elettrodomestico
Philips
con controllo illimitato di qualità.
Perché
tarda allora l’indulto al vizio comico
del
vivere? Qualcuno lo disse “assurdo”,
questo
abuso, tale misera esuberanza, ma
fu
solo mirabile tautologia.
Almeno
allora uno sconto di pena alla pena
dell’essere,
una via di fuga, d’ingresso, d’uscita,
il
lusso di un carcere aperto alla speranza
della
redenzione, il crimine antico di ritrovarsi
colti
clamorosamente sul fatto, nel sacco entrambe
le
mani, in piena flagranza di reato, nell’atto doloso,
e
recidivo, di essere ancora vivi, ancora umani.
***
Il sorpasso
Come
se si potesse scarnificare
la
parola, irriderla, violentarla
e
lasciarla lì, occhi gelidi, incolume,
feroce,
ancora serena.
Inebriarsene,
sfregiarla di carezze
di
vetro, senza pagare lo scotto, la ruga
che
scava la pelle, lasciandola bella
di bellezza
ineffabile.
Passarle
addosso il peso del corpo
e
lamiere squadrate come si fa
con
l’asfalto, confidando nella pazienza
dell’eterno.
Ma
l’asfalto si squama, si sgretola.
La
strada non è la stessa. Lacera,
deborda,
la rabbia dei pini, affiorano
grida
di radici.
Passi
al mattino nell’abitacolo
surriscaldato,
e ride l’operaio
del
cantiere stradale guardandoti
blaterare
tra i denti frasi
che
si schiantano sui finestrini.
Ride,
lui che sa, conosce la consistenza
del
bitume, sonda l’amalgama con i piedi,
una
danza imparata da bambino, gambe
salde
tra i grumi e l’aria, cosparge
cantando
la strada al giusto livello,
la
quantità ideale.
Ride,
mentre il cervello si tritura
in
una pasta farinosa, impalpabile,
e
prosegui, lento, a un palmo
dalla
striscia della mezzeria. Scruti
il
guard-rail con la coda dell’occhio
lasciando
solo un esile spiraglio
al
sogno, Il sorpasso, il mare verde
di
Castiglioncello, l’urlo di un’onda
fulminea
di sole, abbacinante,
sulla
strada salmastra del tutto, del niente.
***
L'attimo
Sarebbe
troppo agevole, per noi,
uno
schianto di cielo, urlo, pianto,
riso
stranito, poi più niente.
Solo
il corpo, per istinto antico,
si
affannerebbe alla ricerca
di un
riparo di fortuna.
La
mente, già leggera, lontana
sulla
schiuma che vola
verso
il mare.
Ma la
nostra tempesta, per quanto
lunga,
limacciosa, densa di vento
e
torrenti, tronchi, liquami, rottami,
finisce
sempre, all’indomani, con un sole
in
tuta da lavoro, stinta ma brillante,
abbastanza
per vedere che niente, davvero,
è cambiato.
Solo
il ciglio del fiume è più largo,
corroso,
cosparso di fango già pronto
a
mutarsi in argilla. Estetica immutabile
del
nulla, laccio emostatico di una subdola
serenità,
vespa cieca a spasso
sopra
e dentro la testa, ti lascia solo
l’attimo,
lo scarto, fessura breve
di
silenzio afferrato in controtempo.
***
Se questa tregua inattesa del tempo
Se questa tregua inattesa del
tempo sia affanno
o euforia, lo dirà forse il
respiro di carne che abita
nel buio di ossa umide, oscure
come le grotte di Matera.
Se saperti distante e vicina,
prossima alle braccia,
alle dita, remota come isola
bianca in atolli di palme
e corallo, sia quiete o cerchio
di acque infestate
da ilari squali, è corrente
incerta, verdetto
inespresso del mare, capriccio
di rottami e maree.
Se ascoltarti giurare che oggi
più che mai mi ami
sia premio o condanna, è come
cercare
nei versi un profumo di donna
sincero di vita.
E’ assurdo, sbagliato,
frustrante. Ma un mattino
ti svegli e assieme al passo
malfermo del cuore
e alla barba da rifare, c’è un
profumo che aleggia
nella stanza. Dolce da far
ridere, da incutere timore.
Non è tuo, non ti appartiene.
Eppure ti segue, ti alita
accanto. Dolce e tenace da fare
urlare di rabbia. Dolce
e tenace da inorridire. Dolce e
tenace da farti vivere.
***
Non è più concesso
Non è più concesso, o almeno opportuno,
lasciare spazio al rimpianto.
Visi che erano
sogno, brivido che squassava la
schiena,
speranza, pazzia. E’ bene
guardare ora
la foglia che cade sul tratto
di via
che hai di fronte, prendere il
sole che c’è.
Adesso c’è il vento che sposta la foglia
sfiorandoti i piedi. E conta
soltanto vedere,
con gli occhi spalancati, se
l’aria che la muove
è brezza o fiato di treno
marcio d’olio
e di distanza. Tonnellate di ferro
corrono costanti.
Nell’attimo in cui ti sembra di
cogliere una mano,
uno sguardo dal finestrino, ti
distrae il grigio
e il viola, la venatura
pulsante di quella foglia,
per un istante intrisa
della stessa lontananza.
***
L’aria del Lungarno
L’aria del Lungarno scorre tra
tempo e memoria.
Neppure il traffico la soffoca,
cappio di lamiere
che scorre e non la sfiora. Si
cammina, sul Lungarno,
come soldati in libera uscita,
studenti che si specchiano
in un fiume che appare anche
lui fuori
corso, distratto, smarrito,
felice di bellezze
di pietra e di carne che gli
scorrono accanto. E' un Labirinto,
il Lungarno, senza Minotauro.
Cammini a passo rapido,
e ti ritrovi nello stesso
punto, nell’attimo preciso per cogliere
l’incanto dei denti di una
straniera estasiata
che guarda e ride, perché le
straniere ridono sempre.
Riesci a rubarle uno sguardo,
un profumo, ma prosegue, zaino in spalla, leggera,
danzante. Sa dove andare, pensi, conosce la destinazione. La incontri di nuovo, quattro
ore dopo, nel medesimo punto, sudata, sperduta. Qualche parola di inglese o spagnolo
inventato al momento per dirle che in fondo è normale, ci si può perdere anche a Pisa,
sulla strada circolare che costeggia il fiume. Ciò che conta è ritrovare il respiro, percepire
dalle finestre lo sguardo di Byron, di Shelley,
danzante. Sa dove andare, pensi, conosce la destinazione. La incontri di nuovo, quattro
ore dopo, nel medesimo punto, sudata, sperduta. Qualche parola di inglese o spagnolo
inventato al momento per dirle che in fondo è normale, ci si può perdere anche a Pisa,
sulla strada circolare che costeggia il fiume. Ciò che conta è ritrovare il respiro, percepire
dalle finestre lo sguardo di Byron, di Shelley,
di Leopardi, dirsi, con loro,
che ormai per questa sera è tardi,
per tutti gli esami, i sunti, i
riassunti, gli schemi. Ciò che conta
ora è invitare la ragazza a
camminare verso lo sbocco,
le labbra rosa della Marina,
laggiù.
Perdersi in un tramonto
screziato di rosso, trovando
nell’Arno una luce, il riflesso
di un tempo immutabile,
mai uguale a se stesso.
***
Forse l'infinito
Ferma per ore sulla soglia, ti godi
il sole invernale, gatta folle,
il freddo,
il vento, un punto che oscilla
lentissimo,
forse l'infinito, o forse un
moscerino
alla portata di un colpo di
zampa.
Immobile di nuovo, pietra che
freme,
assorbi il mistero dell'aria,
il silenzio,
il senso vuoto e denso di
essere viva.
Nient'altro.
Io ti guardo. Ti odio, e ti
adoro.
***
Quando
verrà l'inverno
Quando verrà l'inverno,
mortalmente sano, geleranno i
virus
e le parole, si serreranno
strette, spaurite,
le bocche spalancate dei
bambini e i latrati
di cani straniti dal cigolio
dei cancelli,
sguardi gialli sollevati verso
vetri ignoti.
Piomberà, freccia, ferita, la
sferzata
di un vento di neve. Respirare,
in quel momento,
sarà azzardo, scommessa, mossa
fragile,
sull'orlo di un dirupo. Sarà
sentire,
nel fiato della tramontana, la
voce,
l'urlo del lupo. Riconoscerlo
affine,
vicino, sarà morire nei suoi
stessi occhi,
nelle ossa appuntite, tornando
magri,
leggeri, nei fianchi e nei
passi
voraci, soli.
***
Qualcosa dentro
Qualcosa
dentro non si adatta,
non si adegua, continua a
pulsare
per moto proprio, ad ammalarsi,
a guarire,
con impulso autonomo. Scorre la
vita
a dispetto di te, ti porta su
lidi
secchi, inattesi, proprio
nell'attimo in cui
senti che niente muta il niente
che, lento,
divora.
Ma qualcosa non si attaglia,
non si allinea. Sfiora la
superficie un pensiero
perla di luce ignota, scivola
via con riso stranito, sognando
il tonfo,
il crepitio dello schianto, il
profilo
dello scoglio. O un prato
dove la distanza è
il salto di un fosso, di
slancio,
ad occhi chiusi; l'attimo in
cui la mente
diventa riflesso di sole, riso
profondo,
leggero, del cuore.
***
Inadeguato
all'eterno
Se le braccia spalancate
della ragazza nuda
avranno la pietà del miele
selvatico, se il suo sorriso
sconosciuto e impuro
ti darà la certezza del corpo
e del cuore, senza cercare
niente di più del battito
delle tempie e del fuoco del
sudore,
avrai il dono scabro
di un attimo: l'istante
in cui ti senti vivo,
seppure fragile,
inadeguato all'eterno.
***
Sezione II
“L’attrazione”
L’odio
non cessa con l’odio in nessun tempo, l’odio cessa con l’amore:
questa
è la legge eterna .
Dhammapada, I, 5
L'attrazione
Quando vacillano le fedi,
quando le speranze e le stelle
che eri certo di toccare,
si spengono senza un palpito,
senza un rumore,
non c'è musica né suono,
non c'è nota
che possa entrare
in sintonia con te, perché è
sempre
troppo allegra o troppo triste,
invita a un riso o a un pianto
che non sai accettare
senza vergogna, senza timore,
come se fosse troppa grazia
o troppa pena, come se il vizio
antico di vivere fosse una
colpa
che non sai smettere di
sentire.
A tratti, ti viene da pensare
di avere sbagliato direzione:
dal buio verso la luce, è
esperienza
comune, è più agevole, più
naturale;
più ostico per l'occhio e il
corpo umano
è muoversi dalla luce verso il
buio.
Forse alla nascita abbiamo
sbagliato
cammino. Oppure, semplicemente,
la scommessa, il senso, il
destino,
è individuare a tentoni,
toccando
la calce fredda del muro,
l'interruttore. Senza paura di
vedere
la mano che trema:
la fame, il bisogno,
l'attrazione.
***
Capita, fatalmente
Capita, fatalmente, magari
mentre
mangio una pizza in un locale
affollato,
di pensare per cosa vivo, per
cosa
e di cosa mi nutro, davvero,
nella carne,
nel respiro. In fondo, alla
fine, rimane
solo lei, lei sola: la poesia.
L'idea
di averla senza possederla,
sperando
con coraggio, con velleità vitale,
di esserne posseduto nel
piacere
di amarla fino a farmi male.
La poesia, la certezza che
nessun potere,
nessun politicante avvelenatore
di sangue
e di sorrisi, potrà mai
strapparmela del tutto
di dosso, nessun assurdo,
nessuna follia,
neppure quella che la genera e
la uccide,
istante dopo istante;
neppure la mia.
***
Non un alito d'aria
Non un alito d'aria, un guizzo, uno scarto
di tempo. Anche il lago sullo
sfondo, sarcastico,
stupendo, è un dipinto di
autore manierista.
Navigano, sull'acqua e nella
testa, vele di carta
e fustagno, orrore immobile,
certezza del nulla
che scivola verso la sponda.
Ma ripetono, tenaci, i poeti riuniti in
schiera
compatta di lettura, in una
formula, un'invocazione
a un dio muto, scontento, una
delle loro parole
preferite: "vento - vento
- vento".
Rido amaro della loro patetica fiducia. Ma
un alito
reale, spettina la fronte.
Forse è chimera, vana
impressione. Ma anche le foglie
fremono assieme
al cuore, perfino il lago si
increspa. La vita ritrova
se stessa nella parola.
***
Tra
polvere e luce
Tra
gli arcani accordi del concerto
che
ti risuona dentro, testardo
mentre
fingi di ascoltare
il
tintinnio perenne
di
giulive dentiere elettroniche
che
sbranano il fumo di un bar,
tra
il calore istantaneo
che
brucia la pelle di sete
e
fame di inesplorati cammini
dispersi
ghigni sarcastici
di
ebbre fatali spirali,
tra
polvere e luce
translucidi
amplessi
aria
e tempo
brivido
e respiro
ricordo
e sogno di domani,
ti
trafigge ironico un raggio insistente
e
ti vedi, d’un tratto, nudo, soffocato
dalle
braccia di un pomeriggio sconfinato
mentre
immagini ancora vele di fughe
su
rotte di oceani, accarezzi silenzi
con
le dita raggelate delle mani
e
confondi le voci col latrare dei cani.
* * *
Forse una poesia
Non so cosa necessiterebbe,
oggi
per strapparmi a me stesso;
forse una poesia ben scritta,
letta
in una stanza chiusa mentre
attendo
che si liberi la via che
conduce
alla vita. Una poesia che
faccia piangere,
e ridere, che faccia
comprendere,
come un cieco nel buio, lo
stipite, l'angolo
appuntito nello stomaco, il
mobile antico,
di mogano che non avrebbe
dovuto
trovarsi lì. Una poesia che mi
stenda
sul letto, placido e perso come
un pensiero,
un ricordo, sicuro di essere
nudo e morto,
seppure dotato di troppo
respiro e coperto
da strati prudenti di cotone e
fustagno.
Un verso, come un sasso che
ferisca
la mano ma muova di onde
nuove lo stagno del tempo.
***
Il sole d'autunno
"Aprile è il mese più
crudele, genera memoria
e desiderio". E' vero, ma
non meno aspro
è il vetro di questo ottobre di
sole che bussa,
insistente, voce calda di
amante. Invita a uscire,
riempiendo di te l'aria di un
istante, cercando
nelle facce della gente il più
spiazzante e sincero
sorriso. Lo sguardo che ti fa uomo,
fragile,
imperfetto, eppure disegno,
progetto
di cielo che nutre armonia,
sole d'autunno,
da cui farsi scaldare ancora,
prima che un vento buio ci
trascini via.
***
E’
meglio scrivere di riso che di lacrime.
Perché
il riso è il segno dell'uomo.
F. Rabelais
I bambini là fuori
I bambini là fuori, ridono di
gioia
vedendo uno sprazzo di sole
che sbuca tra le nuvole.
Sono gli stessi con cui, tra
qualche anno,
dividerai il buio degli sguardi
e il silenzio
delle parole.
Sono gli stessi che
sfrecceranno sulle strada
mutilando la carezza
delle foglie.
Forse lo sono, anzi, lo sono
certamente.
Ma intanto ridono, e alzare la
testa
per vedere il sole è anche per
te, ora,
una forma vitale di follia.
***
L'età
più oscura
L'età più oscura è oggi, il sole che non
scalda,
l'aria di furori vani, la corsa
nel petto
che non si affianca alla
strada, ai passi
di nani impettiti, alle rughe
del selciato,
l'attimo passato, un grido, una
voce che non ci ha
ferito né accarezzato.
Eppure il foglio che abbiamo
davanti è ancora
bianco, quasi immacolato. Un
dono, o forse
una sfida, o solo un segno, un
indizio.
C'è, nelle cose, in questo
niente che si eterna,
uno sbocco, una via di fuga, un
inizio senza fine.
E nulla, neppure l'abisso di
giorni e nottate,
dita lente di bambine che
pettinano
orride bambole di plastica,
potrà strapparci
al nodo del dubbio, la corda
del funambolo
o dell'impiccato, l'idea che il
passato è un cappio
che non ci ha ucciso, ci ha
lasciato ossa e fiato
per respirare, e un presente
incurante
del baratro.
Come un ramarro, contento del
tratto di muro
e della pelle squamosa, assorbo
calore,
quando c'è, e respingo al
mittente le dita
untuose di certa gente.
***
Occhio di ladro
Dopo i fari e gli spari, mai
abbastanza
lontani, la ferita nera e gli
occhi rossi
rannicchiati in zigomi di
silenzi,
fermarsi in un angolo libero da
luci
e da ombre, e sentire alla
radio la beffa,
la cura, della poesia.
Uscire lento, furtivo, sguardo
astuto
di ladro che ha trovato la
combinazione
e ruba, un po' alla volta, per
fame,
per sfizio, per necessità.
Occhio di ladro che sorride
senza guardare
nessuno, perso e felice di
potere e dovere
rubare per sempre.
***
VLADIMIR: Questo ci ha fatto passare il tempo
ESTRAGON: Ma sarebbe passato in ogni caso
VLADIMIR: Sì, ma non così velocemente
S. Beckett, Aspettando Godot
La
speranza di settembre
Ora che sono finiti gli spunti
antichi
e le idee adeguate annotate con
cura
hanno ridisceso una per una
scale di ferro
senza ringhiera, ora che
perfino l'afa
lascia spazio alla coscienza
della sera,
sarebbe tempo di scrivere solo
del tempo,
come un naufrago che si
innamora
dell'acqua e si abbandona
ad occhi aperti ad un infinito
abbraccio.
Sarebbe tempo di percorrere le
strade
dei perché lasciando a casa le
borse
dei come, cercare una voce, una
chiave
nelle ossa spezzate dei cani o
nella carne
soffice di ghignanti puttane.
Sarebbe tempo,
se il tempo non fosse fragile,
imperfetto,
regolato da cronografi tarati
male, ancora
soggetti a salti e arresti,
orgogli e terrori,
costretti a fare algebra
dell'aritmetica,
sbagliando i più elementari
teoremi,
contenti, in fondo, di fallire
gli schemi
essenziali, le basi, i calcoli,
le proporzioni,
felici, nonostante tutto, di
sprecare un'altra
estate fingendo di studiare,
per poi tornare,
assetati, al primo giorno di
scuola.
***
Il non amore
Forse proprio quando comprendi
meno
scorgi una chiave, ed è
consolazione
sapere che niente si apre,
nessuno
squarcio di luce; di nuovo tace
il corpo
e solo il tempo si muove
assieme al sangue
intravisto in fotogrammi
ingurgitati
assieme a un piatto di cibo che
scordi
prima di averlo metabolizzato.
Tra foga e vomito, fame a
apatia,
diventi silenzio che strozza
la parola, passato che non sai
scacciare.
E perdi il senso dello sguardo,
la mano,
la voce che si insinua nella
gabbia
e la frantuma, bocca
spalancata,
schiuma amara del non amore.
***
Il resto è silenzio
E' muto l'alfabeto del mondo,
la stanza mima pace malata,
bambola di ceramica ferma
in un sorriso quieto, letale.
Ma arrivi tu. Già salendo
le scale mischi urla e respiro,
risa e parole. Arrivi tu, e
prima
dell'acqua da bere avida come
un naufrago, viaggiatore di
lande
inesplorate, chiedi una radio,
una canzone.
Arrivi tu: nell'abbraccio gioioso
e feroce dei corpi, c'è il
suono
del vinile, solco che si fa
corpo,
materia, memoria di armonie
eternamente vive.
C’è musica se ci sei tu. Vorrei dirti
Che c’è armonia anche in tua
assenza,
nell’eco del ricordo o nel
respiro
dell’attesa. Ma non sono
abbastanza
romantico, non sono abbastanza
poeta.
*
* *
Il
privilegio
La neve negli occhi, un gelo
senza tempo. Si trovò a
pregare,
l'esploratore, con ciò che gli
restava
delle mani strette tra i denti
dell'inverno. Provò a
congiungerle,
a farle combaciare, labbra
unite,
fantasma di un sorriso.
Ringraziò,
il viaggiatore, ilare e
compunto
come il giorno della prima
comunione:
volse gli occhi al cielo, per
quanto
gli concesse la pressione
dell'aria,
e pregò, sì, per la prima volta
in vita sua. Con parole brevi
come
il fiato che gli usciva a
stento
dalla gola, elevò un inno di
lode
a chiunque avesse donato
la morte alla vita.
Con tale pensiero posò la testa
di lato sul cuscino della
valanga
che lo avvolgeva in un lenzuolo
di marmo frantumato. Posò
la testa docile di bambino
sul guanciale ricoperto di
bianche
figure, fiabe aperte alla luce
della fine. Posò la testa senza
più
sognare, se non il sogno
vero di una frase, parole di
sale
e miele, un verso
semplice ed estremo:
"Se Dio c'è è perché si
muore".
***
Sezione III
“Il tempo salvato”
L’arte
è un antidestino.
A.
Malraux, La voix du silence
Il
tempo salvato
Da luoghi di sangue senza più calore,
anime morte si affollano ai
margini
di centri commerciali aperti a
miraggi
di saldi all'ottanta per cento,
davanti
ad un Caronte senegalese
parcheggiatore
precario nella pupilla ferita di
ferocia,
incerto tra il riso e la
nostalgia
di una terra di bellezza
assolata. Ti chiedi, da solo,
se sussiste,
se respira ancora, il tempo
salvato, strappato
con la vita alla vita.
È assurda la risposta, non la
domanda,
non la follia che ti spinge ad
alzarti prima
della luce cercando il senso,
la parola,
scoprendo che è bello cercare
di nuovo
per riuscire a vedere il troppo
che è stato tradito nell'atto
sventato
del tradurre, rendendo sacra
una pena
che nessun dio può amare, se
non
nel silenzio insensato che nega
anche
l'ipotesi di sé, la possibilità
di essere
immaginato come ente
inesistente.
Non c'è bellezza nel dolore,
non c'è
santità. È sana la fatica, il
sudore
che lava la fronte. La sola
vera morte
è il soffrire. Ed è già
putrefatto, dentro,
chi lo loda, da qualunque
pulpito,
con qualsivoglia intenzione.
***
Il mondo non ha angoli
Ci ritroveremo, mi hai detto,
in qualche angolo del mondo.
Ma il mondo non ha angoli,
ogni punto equivale a tutti
e a nessuno, la curva del tempo,
ferro, nebbia, graffio, veleno,
traccia di sogno, linea di una
mano.
Ci ritroveremo, certo, e ci
accorgeremo
che è gravido di altre carni,
di altri
semi, il ventre del destino.
Ma ancora avido, feroce,
partirà lo sguardo verso un
lembo
di pelle, l'occhio, il collo,
il braccio,
il seno, e di nuovo sarà
immagine
del mondo, spazio di luce
agibile,
abitabile, l'attimo in cui,
ridendo,
ci diremo che non è possibile.
***
Il grado zero
Arriva un momento in cui tutto
ciò
che rimane è attesa,
sospensione,
grado zero della vita. Diventa
colpa,
allora, perfino muovere le dita
della speranza, dirigere il
cuore verso
l'idea di un cielo chiaro,
arioso, un morso
di pane, una briciola, un sorso
residuo
di vino.
Ma più colpevole e più tenace è
l'udito fisso sul legno della
porta,
inchiodato, crocifisso, appeso
a un battito, un tocco
incerto, furtivo: forse il
tonfo,
l'incedere cieco del destino.
***
C’è
qualcosa di folle nell’estate
C’è qualcosa di folle
nell’estate,
i suoni si impiccano a corde
invisibili
oscillando nell’aria come occhi
sbiancati
come lingue spezzate in ghigni
irridenti.
C’è qualcosa di falso
nell’estate,
come una vela lontana bevuta
dalle labbra dell’orizzonte,
come un silenzio sdraiato
in mezzo agli sghignazzi.
C’è qualcosa di vero
nell’estate,
il sangue di un’illusione
che corre verso un luogo e un
senso,
la sorpresa di un’onda anomala
e leggera
perlata di un riflesso di
speranza.
Il
vino più sapido, amore
Se
questi versi colassero da soli
miele
aspro di incoerenze, potrei stringere
dita
e parole di vento, grappoli turgidi
di
seni, gocce chiare, istanti stillati
uno
ad uno su prati di girasoli
che
sbarrano al cuore sentieri
di
tempo.Potrei, ma l’ocra è intrisa, ora,
di
geli ottusi di ragioni. Il veleno
è
penetrato nei tessuti,
gli
acini si serrano in solchi
sottili,
rugginose riflessioni.
Tocca
a noi, ora, trovare il modo,
la
maniera, distillare in una carezza
brividi,
sguardi, anni smarriti,
sospesi
tra ciò che è stato e ciò che sarà.
Tocca
a noi cogliere il graspo essiccato,
sfiorarlo
con mani tremanti, ansie
ancora
vive, sensibili
ai
sussurri della brezza.
Tocca
a noi stringerci con tenera
violenza,
sentire il cuore
dentro
il petto e non sapere
a
chi appartiene, se è il tuo, il mio,
quello
del mondo, della vita che ancora
urla,
ride, respira, fuori e dentro noi.
Tocca
a noi premere, aderire, pronunciare
nel
profumo dei capelli frasi mai dette,
verità
nuove, paure antiche da annientare,
specchi
da fissare negli occhi
senza
frantumare
sorrisi
sinceri di realtà.
Il
vino più sapido, amore, è quello stillato
da
pieghe grumose, ogni sole,
ogni
tempesta che sapremo trasformare
in
liquido sorbito
giorno
dopo giorno, sorpresa
ignota
a agende e calendari;
essere
ancora assieme
dèi
terresti e fragili
umanissimi
e immortali.
*
* *
***
Perla che rischiara le ore
Finalmente ritrovo poesia.
Come un'antica compagna che mi
chiede:
"Come sei oggi?" e
pretende una foto
e io la ignoro, lei che mi ha
salvato,
nutrendomi, nascondendomi,
uccidendomi
della sola vita che mi è
concesso
respirare.
Ritrovo poesia, nel libro di un
amico
perduto nella nebbia, un
incontro affannato,
un saluto alla cerimonia di un
premio,
pesce fuor d'acqua, lui, io
aria, fantasma
senza castello, cervello
spento, occhio
orientale, fessura accecata di
paura.
Finalmente ritrovo poesia, nel
libro senza
figure, quasi senza copertina:
un azzurro
smorto e un insetto stilizzato
schiacciato
da chissà quale piede. Eppure,
leggendo
di luoghi del mondo rincorsi
dal tempo e
da infinito timore, ritrovo
poesia, e
non so dire se sia gioia
sentire dentro
la stessa frenesia di quando
rubavo
la donna al mio compagno di
banco.
Ritrovo poesia, in un libro che
parla di felicità
lontana. Ed è dono e beffa
osservare, dove
non so vedere, la presenza
tenace
di un'amarezza che oggi, parola
per parola, si apre a una
speranza
che non pretende niente, se non
la necessità
di una perla che rischiara le
ore,
notte calma che brucia, splendore senza luce,
aria, suono, musica, acqua,
uva.
***
Squame
In questa notte d'inverno,
fra strade di gelo, nel fosso
circondato dai viali pedonali,
saltano i pesci. Guizzano
nell'aria colorando il silenzio
di fuochi, riflessi, voli
lievi,
risa di gioia.
Sono gli stessi pesci, scuri,
sporchi, nativi del fango, che
poche ore prima erano presi
di mira dai petardi
dei bambini di buona famiglia,
ben vestiti, annoiati da lusso
e moine.
Mi guardo le mani. Attendo,
impaziente, le squame.
***
Sezione IV
“Il tempo dell’attesa”
Vivi
ogni giorno come se avessi vissuto tutta la tua vita proprio in vista
di
quel giorno.
V.V.Rozanov, Foglie cadute
Il
tempo dell'attesa
E' ancora il tempo dell'attesa,
sospende il battito tra
attrazione
e paura; l'aria, elemento
vitale,
alimento dell'esistere, si fa
rischio, pena. Andare alla
finestra,
alla luce del sole, dovrebbe
essere impulso,
palpito nelle vene. E'
diventato
tempo, riflessione: nell'istante
in cui
ragiono sul bilancio del dare e
dell'avere,
la distanza tra il divano e il
davanzale,
si siede la pena al mio fianco,
ed è
gentile, quieta, quasi
gioviale. Mi copre
con un abbozzo di abbraccio la
vista
del vetro assolato. Resto
seduto,
comodo, stordito. Il gelo nella
carne
è carezza, la stanchezza ora è
dolce:
sapere di non volersi muovere,
restare alla portata delle sue
dita.
Ma c'è un raggio più tenace,
diretto
da trame di mura e di rami.
Arriva a sfiorare la gamba,
l'avvolge,
la scalda. Riesco ad alzarmi, a
camminare.
***
Nel
mistero
Una preghiera per chi non trova
la macchina lasciata nel
parcheggio
sotterraneo, per chi passa la
sera
sotto le finestre delle case
altrui
cercando una musica e una voce
affine al suo passo, per chi
muore
per la donna sbagliata,
sapendo che sarebbe la sola in
grado
di dargli qualche spicciolo di
vita.
Una preghiera per chi non sa
come
pregare, dove guardare, dove
dirigere
lo sguardo; una preghiera
per parlare di niente, dando
fiato
allo spazio di chi percorre
il pianeta in punta di dita, e
tutto
ciò che spera è inciampare
sopra
una lama fatale, o scoprire che
l'acciaio
serve per tagliare il pane, e
le dita
per camminare sulla pelle.
***
Fliegender
Uccidili tutti, Fliegender,
uccidi il rumore e la furia
della loro ignoranza vociante,
spiazza l'attesa beata di
banalità
parlando una babele di idiomi
antichi e moderni, codici
miniati,
chiavi di accesso a paradisi
sul confine tra giorno e sera,
crepuscolo di dèi assenti
con cui continui a dialogare.
Stordisci
la loro fiducia nell'identità
del corpo
e della parola. Illudili che
tutto
sia uno scherzo, perfino il
dolore,
la divinità della pelle
sfiorata da mani
candide e impure. Uccidili
tutti,
con un sorriso che nega loro
occhi
e cuore, concedendo solo una
mano
forte, e un pensiero altro, che
resiste.
Anzi no, non ucciderli:
lasciali in vita,
vegeti e urlanti, a coltivare
latifondi
di gramigna e vino agro di
tracotanza.
Lasciali campare, così che si
senta
risuonare forte, nel silenzio,
l'eco
lacerante del divario, la
distanza,
la differenza. Anche la mia.
* * *
Una siepe di rose selvatiche
Siamo
un capriccio del tempo,
schermo
esile alla pioggia e al sole,
legno
di croce, linee orizzontali
senza
scarto, senza profondità, la voce
del
ladrone salvato in extremis,
o
la battuta sconcia di un Barabba
eroe
della gente a lui affine.
Ci
è concesso di guardare in basso,
il
sangue sui chiodi arrugginiti,
i
piedi sgraziati, la terra
assetata.
E' questa la beffa, la sfida:
perdere
sangue ad ogni passo,
ogni
sogno, e generare, nonostante
questo,
un sentiero, proprio quando
spezzati,
recisi, rideremo con la luce
nei
visi di chi ha capito che non c'è
soluzione,
se non nell'immagine
di
una strada, una siepe di rose selvatiche
colta
con la coda dell'occhio.
*
* *
La creta indocile
L'uomo
è l'unico animale che
non
apprende nulla senza un insegnamento:
non
sa parlare, né mangiare, né camminare.
Allo
stato di natura, sa solo piangere.
È
amara verità, tra scienza e metafora:
il
pianto è proprio dell'uomo, è nel suo
patrimonio
genetico, nel bilancio
del
destino. Nasce sapendo di dover piangere.
Viene
dichiarato vivo, dall'ostetrica, solo
quando
lo sente gridare la pena del respiro.
Ma
è uno sbaglio, un errore inveterato:
il
primo pianto è solo la prova dell'esistenza
biologica,
simile a quella di una pietra,
un'alga,
una radice di gramigna.
La
vera nascita, la vita vera, ha luogo
nell'atto
di negare il piano prestabilito:
nell'istante
della prima gioia, il riso
universale,
quando il petto esplode
in
una galassia d'amore.
Sono
nato con te, nell'istante in cui
ti
ho vista e ti ho amata. La data
anagrafica
è un ricordo, un'ipoteca
lontana,
un mutuo con la vita che non
finirò
di pagare. Ciò che fa di me
un
uomo è l'avere imparato, superando
limiti
e barriere, l'arte di sorridere,
plasmando,
con dita goffe ma sincere,
la
creta indocile dell'esistere.
*
* *
Una lettera
Cosa
potrebbe accadere
se
spedissi adesso una lettera
al
mio unico amore? L'amore
cieco,
testardo, il più fedele
e
bastardo dei cani, quello che
ti
lecca le mani con affetto
e
intanto digrigna i denti pronti
a
spezzare le ossa e il cuore,
così,
per istinto vitale.
Le
scriverei che sono vivo,
nonostante
la rabbia a cui
nessuna
distanza riesce a fare
da
vaccino. Le direi che il pensiero
di
qualche mattino dorato di luce
e
di quiete con il tempo
e
con la sorte è ancora suo,
suo
soltanto.
Le
allegherei una rosa,
una
foto, un'icona. Lei strapperebbe
la
pagina con dita calde
come
il suo sorriso,
rosso
come le labbra che solo
la
rosa bacerebbe, prima di essere
ridotta
in coriandoli vermigli.
È
questo il senso, sono
quei
petali rossi i figli che lasciamo
su
questa terra che ci accoglie serena,
come
fossero caduti dal più bel
ramo
in fiore. Forse è questo
l'errore
che ci spinge ancora, ridendo
e
morendo, a cercare.
*
* *
I
capricci del vento
Non
ho saputo ascoltare il silenzio.
Ora
sento sibilare rapida la vita.
Sprecare
il tempo, ora, è la sola rabbia,
la
sola pena. Distinguere sguardo
da
sguardo, parola da parola, imparare
che
ogni passo lascia una traccia,
un'impronta.
Forse il suono
del
silenzio ci parlerà dell'ombra
che
ci danza a fianco, lieve come
un
alito, duro come un tormento.
Sarà
bello smettere di voltare
la
testa di scatto, inutilmente,
come
un gatto che teme la sua
immagine
riflessa in uno specchio.
In
un istante di quiete sapremo
condividere
il tratto di strada
che
ci è capitato in sorte, con
le
gocce di rugiada di un mattino
o
con un ramo esile, contorto,
che
sa leggere nell'acqua e nell'aria
i
capricci del vento.
*
* *
Strada per il mare
Ho
guidato per strade di sole,
tra
incroci ciechi e mercati affollati
di
gente frenetica o immobile, occhi
bianchi,
crudi, in mezzo alla carreggiata.
Ho
attraversato lande brulle e boschi
di
lupi e faine, ho visto migliaia
di
gambe e schiene percorrere i loro
sentieri
con zaini e borse colme di vite
aliene.
Ho visto cartelli stradali
creare
circoli per goffi millepiedi
su
sentieri accidentati in cui sono
sbucato
imprecando ad ogni tonfo,
pregando
solo per l'uscita, il sollievo
dell'asfalto
ritrovato.
Ora,
dopo giornate di guida, i miei
passeggeri
mi urlano, esultanti, che
laggiù,
oltre il profilo delle colline,
si
intravede il mare.
Sorrido,
senza farmi notare, al pensiero
che
adesso, a me, dello splendido panorama
azzurro-verde
prezioso come smeraldo
non
mi importa niente. Mi godo
un
alito quieto di brezza, e la speranza
che
a breve potrò sdraiarmi nella frescura
a
sognare montagne innevate, oppure,
chissà,
il colore sfumato di un altro
oceano,
un mare distante, solitario,
forse
inesistente.
*
* *
Il
testo mi deve dire qualcosa che io non so.
Io
scrivo solo perché non ne conosco lo scopo;
se
lo sapessi smetterei.
da "La biblioteca delle
voci", 2006
Con sollievo
Lasciamo che il testo trovi
la sua strada, l'oggetto, il
messaggio.
Niente sarà sprecato, non un
gesto,
un sorriso, uno slancio, un
pensiero
dedicato a lei che, ferma di
fronte
al portone serrato del sogno,
ci dava
appuntamenti per il giorno
sbagliato,
ridendo, giocando a scardinare
il tempo
che giocava a dadi, distratto,
muto.
Lasciamo che il verso trovi
per sé e per noi la sua strada,
il suo senso.
Tutto, perfino il nulla, ha
corpo nella parola,
e la sua assenza di sostanza è
pietà,
misericordia nella tortura che
ci consuma,
il "foco che ci
affina".
Forse, magari nel regno del
sonno, quando
sarà pace il silenzio e prato
il respiro,
ci sarà detto dove conduce il
sentiero
e diverremo noi il cammino,
saldo, sicuro,
ignaro di abissi di tornanti.
Tutto avrà scopo,
e ogni interrogativo irrisolto
sarà arte
arcana di filosofia astratta e
carnale, volto
incrociato lungo un viale,
quando
è quasi sera, e, con sollievo,
non si è certi
di distinguere buio e luce,
falso e vero.
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