domenica 1 dicembre 2013

F. CAMPEGIANI: L'ANGOLO DEL VERNACOLO

L’ANGOLO DEL VERNACOLO
La trasformazione del vernacolo in Mario dell’Arco
di Franco Campegiani

C’è un dato inconfutabile: il Popolo non esiste più. La morte del Popolo, che già Pasolini a suo tempo denunciava, è un processo culturale in atto da secoli, dall’avvento della società industriale, potremmo dire; o addirittura dalla Rivoluzione francese, come ha detto Marx, che proprio a quell’evento storico attribuiva la fine della cultura popolare e l’inizio della società di massa dei tempi attuali. Ebbene, il vernacolo non poteva non subire le stesse sorti. Il destino già da allora era segnato e sarebbe sciocco oggi non prendere atto di questa realtà, giunti dove siamo giunti, e cioè al cosiddetto villaggio globale, con la disintegrazione dei localismi e delle territorialità.
Non vorrei essere frainteso, però. So bene che non si può essere universali senza essere locali e che senza parlare del proprio paesello, o comunque delle particolarità, non si può raggiungere l’universalità, e viceversa. Non intendo pertanto avallare, con tale constatazione, la rinuncia al sacrosanto desiderio di ristabilire, nel caos imperante, un principio di sana umanità. Ritengo anzi necessaria ed urgente una rifondazione popolare, una ricostruzione del senso comunitario più autentico, ma mi chiedo: per combattere un avversario si può forse ignorarne la realtà? Lo si può forse eludere? La risposta è: no. Bisogna guardarlo in faccia invece, l’avversario; capirne l’anima, condividerne la weltanschauung, individuare e vivere i suoi punti deboli, amarli addirittura.
Solo così, dopo averlo abbracciato, potremo sperare di domarlo, o di attenuarne la nocività. Accettare non è porgere l’altra guancia, come potrebbe sembrare, ma è prima di tutto farsi accettare. Amare il nemico non significa eliminare la lotta, ma significa rendere costruttiva l’inimicizia, in una visione del mondo dove le opposizioni sono complementari, anziché antitetiche e distruttive tra di loro. L’Eden, in fondo, non avrebbe senso, se non ci fosse la cacciata dall’Eden, e viceversa. Il Caos è necessario all’Ordine, come questo a quello. Fuor di metafora: se non ci si immerge nella distruzione in atto, nei disvalori promossi dall’attuale (in)civiltà, non si acquista la possibilità di riaffermare i valori di un sano vivere civile, di un’autentica e vitale comunità.   
Questo preambolo non è peregrino per parlare di un gigante della letteratura mondiale che ha scritto in lingua romana più che in dialetto romanesco: di romanesco, diceva lui, esiste soltanto il carciofo. Di chi sto parlando? di Mario dell’Arco, che conobbi quando non avevo ancora trent’anni e che volle tenere a battesimo le mie prime opere letterarie: io non scrivo in vernacolo, ma ciò non impedì al magnanimo di prendermi a benvolere. Se ne parla, oggi, di dell’Arco, e sempre se ne parlerà. Se ne parla finanche negli ambienti romaneschi, dove non ha fatto scuola e dove venne apertamente osteggiato, anche se dopo la scomparsa molte voci si sono alzate in sua difesa ed in suo onore.
Ebbene, il raffinatissimo Mario dell’Arco – che paradossalmente poteva offrire la propria collaborazione a quel trasgressore del purismo che era Carlo Emilio Gadda, nonché donare la propria amicizia a Pier Paolo Pasolini, accorato testimone e protervo aedo dell’omologazione in atto – contribuiva a demolire a modo suo, con la sua squillante, coltissima e luminosa eleganza, la vitalità, non voglio dire del sonetto, ma del manierismo sonettistico, legato ad un senso anacronistico della popolanità. I suoi richiami accorati ad una visione umana e fraterna del vivere non hanno alcunché di nostalgico, di oleografico, di idilliaco, e risultano totalmente calati nella modernità, immersi nel veneficio dell’attuale momento storico.
Scomparso all’età di novantuno anni, sul finire degli anni Novanta (esattamente nel ‘96), Mario dell’Arco conobbe molto bene la realtà metropolitana. I tempi e i luoghi della sua poesia sono in buona parte anche i nostri, visto che ci precede solo di qualche lustro, e d’altro canto la vena con cui s’è imposto all’attenzione del mondo letterario, nonché di un pubblico vastissimo, non è stata precoce, essendo nata nel ’46 –  lui quarantenne –  con Taja ch’è rosso (Taglia che è rosso: il cocomero), prefato da Antonio Baldini. Siamo dunque nella Roma postbellica, dove in quegli anni inizia la grande trasformazione che di lì a poco avrebbe portato la Capitale alle dimensioni di una moderna metropoli, con i complessi problemi derivanti dal progresso tecnologico-industriale, nonché con le invadenti mode esterofile e quelle non meno aggressive dei media: stampa, cinema e Mamma-Rai soprattutto.
Per la verità il processo omologativo era già iniziato dopo l’Unità d’Italia, in seguito ai moltiplicati e facilitati viaggi interni, all’emigrazione dal Sud verso il Nord, al servizio militare, ai matrimoni misti, all’istruzione obbligatoria, eccetera. Tuttavia, verso la metà del ventesimo secolo esistevano ancora le realtà regionali, con quei grossi centri rappresentativi (di cui Roma era il più importante) che oggi, per una serie di ragioni che hanno accentuato e velocizzato il livellamento su scala planetaria, hanno affievolito enormemente le proprie valenze territoriali. Va anche rilevato tuttavia che in altre regioni italiane l’omologazione non ha avuto quella spinta che ha fatto dell’Urbe una moderna metropoli, e ciò ha consentito ai relativi vernacoli di conservare una maggiore, e a volte anche integra, indubbiamente autentica, aderenza alle radici, all’elementarità.   
La poesia dialettale di Mario dell’Arco è testimone, al contrario, del vasto processo di mutazione che ha stravolto la società. La sua Città non è più il paesone papalino del Belli, né il borgo rusticano di Pascarella, né il centro piccolo-borghese trilussiano. Roma, nella sua poesia, viene tacitamente assumendo l’aspetto di uno dei tanti, anonimi quartieri dell’immenso villaggio globale dei tempi attuali. Sradicamento, spaesamento, emarginazione, malessere, protesta: una realtà metropolitana inquietante, che in dell’Arco fa da sottofondo, da substrato invisibile e fertilissimo di una poetica surreale e crepuscolare, moderna ed angosciata, ma nutrita di speranze mai dome e grondanti umanità.
Il disagio metropolitano, in questa poetica, non è esplicito come nel neorealismo pasoliniano, bensì implicito, fornendo lo spunto per una poetica del fanciullino paradossalmente coltivata nel mezzo dell’assordante strepito urbano, ponendo tra parentesi i miasmi cittadini e animando per contrasto i monumenti antichi, la Roma imperiale, unitamente alle voci della campagna circostante, ancora vigorosa a quei tempi. Campagna dove alla fine il poeta si trasferì, andando a vivere a Genzano laziale, da lui ribattezzato Genzano dell’Infiorata. La prospettiva dellarchiana non ha intonazioni civili o sociali, ma antropologiche, nel più o meno consapevole intento (antipirandelliano, potremmo forse dire, in controtendenza rispetto alla babele avanguardistica) di una ricostruzione popolare e limpida dell’identità.
Una rinascita della Romanità dalle rovine dell’omologazione trionfante. Un’umanizzazione del mondo disumano che abbiamo creato, vivendolo per quello che è e bonificandolo dall’interno, senza osteggiarlo con sterili e presuntuose sfide. Mario dell’Arco riesce veramente a fare il miracolo, portando nel cuore della gazzarra metropolitana il suo immenso amore per il verde e per il plein air, la sua voglia d’azzurro, il suo paesaggio interiore, ricco di architetture classicheggianti e di fiabesca monumentalità. Non è vero, allora, che Roma è sparita. Non è vero che per ritrovare il popolo occorre andare a ritroso nel tempo e cantare come cento o duecento anni fa.
Roma è ancora qui, la si può toccare con mano in questo idioma totalmente rinnovato nei tessuti gergali, ma lontano anni luce dai capricci dello sperimentalismo, ed anzi straordinariamente cristallino, assolutamente privo di leziosità. Una vera e propria lingua, più che un dialetto, come è stato acutamente osservato, capace di parlare nuovamente di anima e di ristabilire un’alleanza dell’uomo con la realtà. C’è, in Mario dell’Arco, una fortissima pietas, un sentimento compassionevole, ma non lacrimevole, per il destino che accomuna tutti i viventi; un’accettazione dolorosa della realtà (o del mistero, che è la stessa cosa), tipica dello spirito romano autentico, come dell’anima popolare in genere, che ne ha viste di tutti i colori e non c’è sventura che possa farle smarrire la bussola. C’è sostanzialmente l’equilibrio di Giano bifronte, con quell’italum acetum, quella sana ironia che non consente esaltazioni, vuoi nell’ottimismo, vuoi nella frustrazione e nella negatività.
Ma c’è soprattutto la meraviglia per la vita, per i suoi incanti e disincanti, per la sua realtà semplice e profonda. Meraviglia sostenuta da una fantasia sbrigliatissima, ma non bizzarra o baroccheggiante, come potrebbe forse sembrare ad un lettore poco attento. Non c’è nulla di gratuito o di evasivo, di tortuoso o criptico, in questo mondo di fantasie fanciullesche. Di una fanciullaggine adulta e smaliziata, però: scafata, come si ama dire a Roma. Ho conosciuto Mario dell’Arco e l’ho frequentato per anni. Apollo e Dioniso vivevano in lui. Testa olimpica e cuore popolano. Questo è il ricordo che serbo di lui e spero di non dimenticare la sua voglia di elevarsi al di sopra delle angosce e delle miserie umane, l’espressione limpida e serena, il desiderio di cieli tersi, mantenendo integre le radici nell’umanità.



Poesie di Mario dell’Arco



Da “Una striscia de sole”, 1950

A NISCONNARELLA

Finché m’acceco e conto: uno, due, tre
e sto a trenta; finché
te cerco in mezzo ar prato
e scosto un ramo, e movo
l’erba, e trattengo er fiato:
tu ce sei. Corpa mia si nun te trovo.



A LA MANINA

Chiusa ner pugno mio,
chiedevi aiuto. C’è
qui, tra le dita, ancora
er battito d’allora: ma so’ io
che chiedo aiuto a te.



Da “Er gusto mio”, 1954

LA CICOGNA

Candida e lustra e tronfia,
la cicogna che porta li gemelli
va in giro co la sporta troppo gonfia
e se vergogna.
                         Scansa li castelli,
sopra a la villa svorta
e dove apre la sporta
è sempre er tetto de li poverelli.



Da “Caccia si, caccia no”, 1971

GNENTE LEPRE

Làscelo ar cacciatore er lepre! Tu
appunta la doppietta
contro la minuzzaja:
l’allampamosche, la codetta, er chiù.

E quanno spari, fa’ attenzione: sbaja!



Da “Epigrammi e chi vuole gli epigrammi?”,1977

II

Un materazzo solo
tutto zeppi e un lenzolo
pieno de buci: eppure sto benissimo.

Tu piume, tu batista, tu merletto
e ner letto a tre piazze,
una a dritta una a manca, du’ regazze
e caschi e penni come un ramo secco.

Vòi la salute, Checco?
Famo a cambio de letto.






VI

A mezzogiorno Marco se sganassa
un porco – e puro grasso.
Mica j’abbasta: corco
Su la carcassa, succhia osso per osso.

Penso ch’er più scandalizzato è er porco.



IX

Dico un verso – e l’amico
“Bravo!” me strilla.
                               A bocca piena, dato
che l’ho invitato a cena.



XIII

Una ventata spalla l’Infiorata
E dar tinello de via Livia cola,
colore der rubbino,
un marrana: a galla
er petalo de rosa, de viola,
de garofano
                     e bevo fiori e vino.



XVIII

A dilla interenosse
ho rigalato a Checco
du’ corna de stambecco.

Così, je piace o no, se fa capace
che le sua so’ più grosse.




XXXII

M’aspetti, pupo, sottoterra.
                                            A ora
a ora er tempo passa, er tempo appanna
la voce, imbianca li capelli – e ancora
canto una ninnananna.

Senza voce: finché
chiudo l’occhi e m’addormo accanto a te.


XXXVI

Antipasto e un sonetto: pastasciutta
e un sonetto: capretto
sbrodettato e un sonetto.
Sonetto e dorce, frutta
e sonetto, sonetto e marvasia.

Tutto ho gradito, amico: versi e cena
e grazzie de l’invito.
Sai che te dico? Solo a panza piena
s’apprezza la poesia.



Da “Una lastra de marmo”, 1979

II

Su un’ondata de verde
una lastra de marmo
m’ha diviso da te.

Eppure nun se perde
tra noi una parola né un sorriso.


Da “Flora di Mario dell’Arco”, 1981

IO-GIJO

Mischiato a troppi fiori
io-gijo, in mezzo a uno sguazzo de colori.
E penso a San Luiggi.
                                     Lui m’appare
tinto de celo – e uniti su l’artare
se spartimo la nuvola d’incenso.



Da “Roma di Mario dell’Arco”, 1982

LA TRAMONTANA

Come s’affaccia, sfodera le braccia:
du’ pale da mulini
e caccia a fischi e schiaffi li burrini.

In cima a Campidojo, grazzie a dio,
semo rimasti Marc’Urejo e io.



SETTE GIORNI CHE PIOVE

Sette giorni che piove e sette notti
e io piantato come una filagna
drento a Piazza de Spagna.

Hai visto mai che all’urtimo s’affaccia
fiume da Via Condotti.
Torno a casa in Barcaccia.



CUPPOLE

La cuppola è un pallone
ancorato sur tetto.

Chi è che l’ha gonfiato? L’architetto
e lo fa seccardino o burraccione
seconno er fiato che se trova in petto.

Abbotta le ganasse Borromini:
soffia – e sòrteno tanti cuppolini.
Ce mette drento un’ala de pormone
Michelangelo – e nasce er Cuppolone.



Da “Gatti, e chi vuole gatti?”, 1985

“ER GATTO SFATICATO”

Gnente, gnente difetti.
Chiunque dice “è un gatto sfaticato”
cerca rogna.
                     Defatti sta coll’ogna
su un sorcio disegnato
ner giornale a fumetti.
                



Da “L’angelo disparo”, 1990

TU E IO

Sottobraccio er vangelo,
anniscosto abbetereno
da la lastra de celo,
Gesù. Sordo a ogni voce,
ceco a la croce mia.
Inchiodato ar peccato,
posso sceje a l’inferno
fanga o lingua de foco,
pece o sangue bollente.

E tu (porcamiseria!) indifferente.



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