martedì 17 dicembre 2013

S. ANGELUCCI: PRESENTAZIONE "L'APE E IL CALABRONE" DI C. CONSOLI


PRESENTAZIONE L’APE E IL CALABRONE
DI CARMELO CONSOLI



Benvenuti a tutti e grazie di essere qui.
      L’opera, sulla quale questa sera vengo invitato (e ne sono onorato) a relazionare, appartiene ad un poeta vero; e non lo dico soltanto perché Carmelo Consoli è una delle voci più persuasive e ormai consolidate del panorama poetico contemporaneo quanto - e maggiormente - perché, con la stesura de L’ape e il calabrone, egli dà prova inconfutabile dell’autenticità con cui, nel suo profondo, scaturiscono i versi.
      Per intenderlo compiutamente, però, è necessario rifarsi alla genesi del libro; la raccolta nasce dal dramma di un lutto flagellante: la perdita di Franca, l’adorata consorte del poeta, Zoe: l’ape che “nacque in una culla di papavero rosso all’ora che la cicala si sgola e le lucertole giocano a nascondino. . . nella ridente terra di Romagna”.
      È, dunque, una storia triste quella che ci viene raccontata, una ‘via crucis’ contrassegnata dalle edicole degli ultimi giorni di vita della donna-ape che, inesorabilmente, s’avvia verso la fine; ma non è sola, a sorreggerle la croce c’è lui, Nerosole, il calabrone-scrittore che un giorno le parlò “della sua terra di arance e limoni, . . . degli odori dei gelsomini e dei fichi d’india (di Sicilia)” facendola innamorare.
      Poi, venne il giorno del “sospetto”, la “prima stazione del dolore”: “venne mefitico” il mostro, “senza volto”, dapprima; quindi - svelato - l’“otto giugno” a dare il via al calvario.
      Siamo all’inizio, alla seconda delle due sezioni in cui si divide la prima parte del testo: non a caso, il Nostro, la intesta Andante con sgomento, e sarà bene subito riflettere su questo.
      C’è un’indicazione dinamica che non può e non deve essere sottovalutata: musicalmente parlando, l’andante è più lento dell’allegretto ma più mosso del moderato. Ciò sta a dimostrare che, pur nella tragicità del terribile momento della rivelazione, qualcosa - sebbene attutito - continua a vibrare; e sono suoni emessi quasi in segreto dall’anima. Suoni che, però, il canto non può non raccogliere: un emistichio de Il sospetto - la lirica di pag. 25 - ne è, a mio parere, inequivocabile segnale.
      Quando Consoli sosta con il pensiero sulla considerazione dei danni che il male oscuro procurerà all’amata, si lascia sfuggire (ma meglio sarebbe dire: ci offre) la più grande, la più importante di queste confidenze: il mostro, nutrendosi del corpo di Franca, le sottrarrà la possibilità di “essere - ella stessa - mistero nel mistero”.

      Ancora ‘in nuce’ ma è questo l’indizio; ancora non sbocciato ma è questo il fiore dove, infine, l’ape si poserà e troverà il polline migliore.
      Non anticipiamo i tempi, tuttavia. Ora è il momento di fare naufragio sull’Isola del male, dove “feroce”, “viscido”, “sanguinolento”,  il maligno “(accarezza) con cura i malati, / passo dopo passo, amorevolmente.”. Ora, altro non si può che ascoltare il responso, la sentenza dei “bianchi profeti”, bere il fiele e l’aceto delle loro notizie, aggrapparsi alla stessa, loro impotente speranza.
      Ed identificarlo, si, riconoscerlo in fondo il medesimo male nei musi scuri dei “bufali d’acciaio” che “i neri del parcheggio” sono costretti a sistemare in fila “dentro savane” artificiali costruite sull’asfalto: tanto lontane dalla vita quanto dal sorriso di Amir, dai suoi “occhi di luna”.
      Quindi, il Piano, pianissimo, senza respiro che apre la seconda parte: La lista dei progetti del ventuno di giugno, di chi sa ma non vuole arrendersi; la Preghiera del ventiquattro al Dio del focolare, al Dio dei campi; il dubbio legittimo della fede: “In quale lontana galassia piangi / o sorridi per il mio lamento? Tu dove sei in tanto scempio?; la paura, il senso tutto umano dell’abbandono: “Non lasciarmi, riportami alla lavanda, / ai gelsomini, alla mia donna ape, / al suo dolce ronzio negli orecchi. . .”.
      L’orlo del precipizio e, dopo: giù, sempre più giù, fino all’“ultimo giorno”, “l’ultimo sguardo”, “l’ultimo sonno”: è il primo luglio, la morte arriva a mezzanotte, “al primo nascere del nuovo giorno, / al primo giorno della nuova vita / al primo soffio dell’eterno amore.”.
      Ecco, è già iniziato Il tempo che verrà: l’ape è “rinata tra le siepi”. “Tutto come prima / come se la morte / fosse stato uno scherzo” - scrive Carmelo - senza vaneggiamenti, perfettamente consapevole che l’ora è scoccata: Franca è tornata in vita perché continua a vivere nel mistero, che altro non è che il mistero di se stessa.
      Adesso si, che il grano è maturo, e il calabrone può posarsi sulla spiga più alta e dorata, e, da lì, godere del volo della sua ape innamorata. Adesso si, che, in sogno, può essergli recapitata la lettera che non si può scrivere né imbucare ma soltanto desiderare: “Ti scrivo da una luce che non so”; “Ti scrivo dopo che ti lasciai il volto tra le mani / quella notte d’ospedale; devi sapere ch’ero già volata. . .”; “Ti mando un bacio che è di Dio / . . . . / Sappi che nulla è cambiato della terra che sognammo, / lo stesso orizzonte arcobaleno, l’uguale fragranza dei giardini / c’è nella luce che ora m’avvolge.”.
      Quella luce: un luogo e un tempo nuovi, una dimensione sconosciuta ma nota allo spirito fin dall’origine, nella quale la maledizione della pena non ha ragion d’essere perché tutto e tutti sono tornati puri e, dunque, benedetti.

      Tutto e tutti sono stati battezzati dal mistero dell’Amore che - per dirla con Dante - ‘move il Sole e l’altre stelle’.
      Com’è facile immaginare, lo stile, l’aspetto formale rischiano di passare in sottordine rispetto alla rilevanza dei contenuti, ma non va mai dimenticato quanto - in poesia - il costrutto sia intimamente legato all’esposizione.
      Così - ne L’ape e il calabrone - l’ipermetricità risponde all’esigenza del verso, che resta comunque libero, di distendersi seguendo il ritmo scandito dal racconto del cuore (ne è evidentissimo esempio la lirica - sulla quale invito, chi acquisterà il libro ed avrà la fortuna di leggere queste pagine - a soffermarsi a lungo) - ne è chiarissima testimonianza - dicevo - Da questo cielo infiniti sorrisi, la poesia che conclude l’opera.
      Ad un racconto: certo - è innegabile -, alla storia, dettagliatamente riferita, di una tragica esperienza esistenziale ci troviamo di fronte; senza omettere, però, senza trascurare che il romanzo - vorrei dire: la fiaba - che stiamo leggendo è un narrato senza filtri, dettato e trascritto, come si addice alla sana creatività.
      Ho parlato di fiaba, suscitando, forse, in qualcuno delle perplessità. È mia intenzione, quindi - prima di chiudere - essere ancora più esplicito: dicendo fiaba non pensavo né alla favola né, tanto meno, alla favoletta, e l’esclusione dell’idea non riguarda neppure - nei miei pensieri - la mancanza del classico lieto fine, che, invece, c’è ed ha una letizia infinitamente più grande.
      La fiaba - cui mi riferisco - è quella vera; l’unica dove ad essere protagonisti non sono i principi azzurri e le fate turchine ma due umili insetti, resi immortali dalla parola poetica: l’ape e il calabrone che, con il canto di Carmelo, ringrazia Dio per avergli donato “l’amore tutto e tutto il dolore della terra”.


               Sandro Angelucci



Roma, Caffè Letterario “Mangiaparole”, 14 Dicembre 2013 

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