mercoledì 18 dicembre 2013

P. BALESTRIERE: "IL NATALE DEL VILLAGGIO"

Pasquale Balestriere ci fa ri/vivere in questo brano il clima natalizio di altri tempi, quando le tradizioni erano abbarbicate nel cuore e nei costumi della gente di paese. Tradizioni, comunque, se Dio vuole, che ancora permangono a Buonopane, territorio di Ischia, o in piccoli altri borghi non contaminati dalle frenesie della vita moderna. Dall’animo dello scrittore fuoriescono immagini di vera poesia, sapide di buona memoria, e impreziosite dalla crosta biscottata del tempo; l’Epomeo che punge innevato l’azzurro del cielo, il profumo del buon vino, dei dolci fatti in casa, il rito dell’uccisione del maiale, e la rievocazione di una natura amorevolmente partecipe alla vita umile, cordiale, e affabile dei popolani assumono valenza di cristallizzazione  di abbrivi emotivi. Bella pagina di prosa poetica, di realismo lirico, dove l’umiltà si fa grandezza. Descrizione asciutta e oggettiva che arriva facilmente al sentire di tutti, o meglio al cuore di ciascuno, senza cadere mai in un sentimentalismo di becero passatismo, di ovvia melanconia per il tempo che fu, perché qui a Buonopane ancora: “…   si respirano fragranze di mosto e profumi di vino, dove si esegue e si tramanda la famosa ‘Ndrezzata, dove la tradizione si conserva anche nell’acqua di Nitrodi e nella grande quercia di Candiano, la festa del Natale mantiene non solo il suo fascino di evento spirituale, ma anche la carica vitalistica di festa della tavola, ricca come in nessun altro periodo dell’anno.
E ancora oggi, nei freddi decembrini,  lo sperone innevato dell’Epomeo punge, caparbio, l’azzurro del cielo, mentre le campane annunciano la festa delle feste”.

                                                                                            Nazario Pardini


il NATALE del villaggio



S’annunciava così il Natale dell’infanzia: con freddi intensi e lo sperone innevato dell’Epomeo a pungere l’azzurrità del cielo. Oppure con piogge lunghe, interminabili, che chiudevano in casa bambini desiderosi di giochi all’aria aperta.
Il piccolo borgo di Buonopane, accovacciato in un semicerchio di colline, svolgeva tranquillamente la sua vita contadina.
Nel secondo dopoguerra i campi -nonostante l’accentuata emigrazione- pullulavano di persone intente al lavoro: a dicembre, intorno alle viti semispoglie, cominciavano i gracchi (“azzecchi” e “schiocchi” li definisce il Pascoli) delle forbici da pota;  il contadino ritardatario  “faceva le fratte”, cioè scavava con la zappa buche nel terreno allo scopo di captare acque preziose. Le donne raccoglievano erba per i conigli e  legna per il focolare, che dava cenere per concimare le cipolle e brace per alimentare il braciere, intorno al quale si riuniva tutta la famiglia nelle fredde sere invernali; e che, nelle occasioni importanti, profumava la casa se si ponevano sulla brace pezzetti di pigna o d’incenso, o semplicemente bucce di mandarini o d’arance.
In prossimità della nascita del bambinello,  quasi come in un rito pagano,  cominciavano i sacrifici: del maiale, per esempio, che doveva immolarsi per garantire una certa riserva di cibo  per l’inverno: salato, sotto aceto, trasformato in salumi (capocollo, salsicce, prosciutti,  soppressate, ecc.), in ciccioli (‘e cìculë), in lardo, in sugna, in sanguinaccio. E tra amici stretti e parenti ci si scambiava” ‘u ségnë ‘e puórchë”, cioè il segno (dell’uccisione) del maiale, consistente in vari assaggi  dei prodotti ora citati, ma in particolare delle carni. Va notato che l’acquisto e l’allevamento del maiale indicava, in quei tempi di povertà, un minimo di benessere economico.
L’altra vittima predestinata in tempi natalizi era il gallo (‘u capóne), il quale, nel corso della sua non lunga vita, ad ogni chicchirichì  suscitava  un ironico commento a forma di proverbio: “Canta capónë ca Natale vènë”, cioè canta pure, gallo, che prima o poi arriva  Natale.
Chi non aveva la “ricchezza” del maiale  e la disponibilità di un gallo si accontentava del coniglio di fosso, da sempre generoso con il suo allevatore. Al mezzogiorno della vigilia si “faceva l’ottonzë”(otto once, circa 250 grammi), si consumava cioè un pasto leggero a base di baccalà fritto. Di sera  invece  il primo (povero) piatto era spesso costituito da vermicelli “cu ‘e fiurillë”, cioè con i gallinacci e cantarelli, gli unici funghetti che si potevano ( e si possono ) trovare nei boschi dell’isola d’Ischia a dicembre. Erano lontani e inavvicinabili, per motivi pecuniari, capitoni, gronghi, murene e le varie fritture miste.
A pochi giorni dal Natale, se non addirittura alla vigilia, si preparavano, sempre in casa,  i dolci tradizionali: panettone, roccocò, susamielli, poi i mustaccioli; ed anche i liquori dopo aver acquistato, di contrabbando, l’alcol  e, nelle botteghe,   i “sensi”, cioè i concentrati ( essenze o estratti) aromatici del gusto preferito.
Quando il tempo aveva ancora ritmi lenti -diciamo negli anni Cinquanta/Sessanta- l’avvicinarsi del Natale, che ancora nei piccoli paesi era avvolto da misticismo religioso, veniva scandito da due momenti che ne creavano l’atmosfera: le novene, con i loro canti gioiosi, e la preparazione del presepe.
Si cominciava con la novena dell’Immacolata e poi, dal 16 dicembre, si proseguiva con quella di Natale. La chiesa, in queste circostanze, era molto frequentata, certamente più del normale. I canti erano guidati da uno degli organisti del paese, che in quel periodo erano Ottavio Di Meglio e l’insegnante Salvatore Di Meglio, che si avvalevano del necessario supporto di un paziente e forte Giovan Giuseppe che “tirava i mantici”, cioè girava la manovella per alimentare, appunto, i mantici dell’organo.
 La preparazione del presepe era l’altro momento significativo. Il presepe, non l’albero di Natale, che qui è arrivato dopo, dalle nevi ghiacciate del nord dell’Europa.
Si cominciava con la ricerca e la raccolta delle “réppulë”, cioè di muschio e di selaginella, per fare il tappeto del presepe; e poi ceppi di canne, pezzi di rami, cartoni e materiali vari per costruire il paesaggio. Nell’ultima fase si posizionavano i “pastori”. Spesso al presepe lavorava tutta la famiglia.
Ma le feste natalizie si portavano appresso, per la gioia non solo dei bambini, un piccolo corredo di giochi. Con le nocciole, per esempio: le ragazzine “alla fossa”, cercando i far rotolare le nocciole in una fossettina a colpi di “pizzico”, cioè incrociando pollice e indice e facendo scattare il pollice che colpiva la nocciola con la forza necessaria perché questa si imbucasse;  i ragazzini invece si divertivano “a castilletto”, cioè disponendo ognuno quattro nocciole a castello e cercando, con una nocciola più grossa, di colpire i castelli, allineati, da una certa distanza. Gli adulti invece, nelle lunghe sere festive, amavano giocare a tombola (le donne), a carte (gli uomini). 
Passava così il Natale d’una volta. Naturalmente con una tavola ricca di cibi (una tantum!) e la classica lettera  fitta di promesse (da marinaio) dei figli sotto il piatto del papà.
E oggi? È un Natale piuttosto diverso ai miei occhi. Ma a quelli dei bambini del nostro tempo forse questa festa appare come appariva a me tanti anni fa, con la magia, l’allegria e il miracolo che accompagna ogni nascita.  Certo, al presepe si è aggiunto l’albero, qualche canto natalizio di un tempo è stato sostituito da altri più moderni; il maiale viene ucciso in vari periodi dell’anno, e il pollo si può anche comprare facilmente, e magari è sostituito dal tacchino. Forse non si gioca più con le nocciole e non si porta il bambinello per le case, ma non sono sparite le cerimonie religiose e alcuni canti intramontabili conservano  il fascino di un tempo. Nel presepe i pastori sono più nuovi e più numerosi, e c’è più illuminazione natalizia per le strade, e di giorno, nei campi, gracchia sempre qualche forbice che trancia e cima i rami delle viti, mentre a casa ancora tante donne preparano i dolci tradizionali. E, dopo un periodo di assenza, sono pure ritornati gli zampognari.
Sì, lo possiamo dire: nel paese di Buonopane, dove  ancora si respirano fragranze di mosto e profumi di vino, dove si esegue e si tramanda la famosa ‘Ndrezzata, dove la tradizione si conserva anche nell’acqua di Nitrodi e nella grande quercia di Candiano, la festa del Natale mantiene non solo il suo fascino di evento spirituale, ma anche la carica vitalistica di festa della tavola, ricca come in nessun altro periodo dell’anno.
E ancora oggi, nei freddi decembrini,  lo sperone innevato dell’Epomeo punge, caparbio, l’azzurro del cielo, mentre le campane annunciano la festa delle feste.

                                                                                                                                    Pasquale Balestriere


2 commenti:

  1. Straordinario quadro del tempo che fu, la cui semplicità profondamente spirituale non tramonta e sembra poter nuovamente albeggiare oggigorno. Ben venga la "crisi", se riuscirà a farci riflettere sui limiti di un progresso che trama contro l'umanità. Nei cosiddetti "secoli bui", il popolo era analfabeta, ma le teste erano piene di valori e c'era più umanità. L'analfabetismo odierno, al contrario, sta inaridendo le teste e rende cinica l'umanità. Si dirà che i contadini di un tempo erano ingenui, ma chi li ha conosciuti sa che non è vero e che erano molto scaltri. Essi vivevano nell'incanto, è vero, ma era un incanto, il loro, che sapeva farsi carico del disincanto di condizioni di vita assai grame. Inimmaginabili per noi, figli rammolliti e pieni di spocchia, rinchiusi nei paradisi artificiali, nelle campane di vetro - queste si, davvero "incantate" - delle moderne città.
    Franco Campegiani

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  2. Toccare, con il pensiero, la tradizione del Santo Natale, mantiene vivo il ricordo di piccole cose che si dischiudono nella gaiezza di un clima familiare ricco di prospettive e di affetti, fondamentali per la crescita di tutti quei bambini che negli anni a venire non perdono l'occasione, come ha fatto Balestriere, di raccontare momenti cosi' importanti.
    Con questo racconto, complimenti e Buon Natale. Miriam Binda
    miriam binda

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