Ubaldo de Robertis: Parti
del discorso (poetico)
Marco Del Bucchia Editore. Massarosa (LU). 2010. Pg. 104
Abbrivi
che portano il Poeta a scovare sentieri in cerca di se stesso
Prepàrati a misurarti con i
silenzi scroscianti
tu che hai conosciuto i fragori
delle cascate
zampillanti di acqua e di luce.
Iniziare
da questa citazione testuale significa sintonizzarsi da subito con la più
profonda ricerca spirituale, che, qui, l’Autore affronta motivato dalle riflessioni
decisive sull’esistenza; da un palingenetico azzardo verso un oltre troppo
umano per le ristrettezze in cui siamo destinati a vivere; per orizzonti
pressoché impossibili ai nostri miopi sguardi:
Lapidi strette le une alle
altre fiori anneriti
volti stanchi
con alcuni eravamo cresciuti insieme
Queste mura raggelano
alzo il bavero e lo sguardo
oltre il filare dei cipressi
Per capire ciò che realmente
affiora
i pensieri sempre più incapaci
di significare il mondo
Ma l’Oriente dov’è?
Filari,
o siepi, che delimitano il nostro esser-ci per
verità imperscrutabili; per verità improbabili.
Ed
è così che dopo un lungo viaggio ci appare un cul de sac avvolto da veli di brume
inquietanti. Un redde rationem, un consuntivo, un pensiero a tutto tondo su un
percorso di silenzi e di cascate zampillanti, dove l’ieri l’oggi e il domani si
embricano indissolubilmente per dar forma al pathos del poièin. D’altronde la
poesia è sentimento, riflessione, sedimento, meditazione, repêchage di fatti,
immagini, momenti, vólti, illusioni e delusioni che tanto hanno a che fare con una
storia. E da là il Poeta trae la linfa che, col tempo, si fa patrimonio
prezioso, compagno fedele del suo esistere. Un serbatoio a cui attingere per
farne alcova rigenerante; per rinvigorire presenze che tanto ambisce riportare
a nuova vita, e con cui desidera tornare a sognare:
Lasciai valle colline compagni
alcuni destinati a compiere
altrove
la propria avventura. Mai
immaginavo
che sarei tornato io solo…;
ma,
anche, un confronto col tempo; fra gli impietosi granelli della clessidra e noi
che siamo destinati ad una perentoria sconfitta: È nelle corde umane cercare di
sottrarsi alla terrenità per azzardare slanci verso il duraturo: un’impresa che
ci rende perdenti considerando la precarietà della nostra vicenda. Un raffronto
che ci rende coscienti, solo coscienti, della futilità della nostra permanenza,
e della brevità del nostro cammino. È da lì che nascono i tanti perché
irrisolti e irrisolvibili, quelle inquietudini che alimentano con la loro
intensità epigrammatica il cuore del canto. Le insoluzioni del nostro iter
esistenziale. E in questa opera plenitudinis vitae, priva di sterili espedienti
sperimentalistici, il Poeta si affida al supporto di intrecci narratologici di
urgente resa ontologica, e umana; confessa tutti i suoi abbrivi emotivi, col
ricorso a nessi di iperbolica metaforicità di grande resa lirica. Sì, parlerei
di realismo lirico-introspettivo, di tante piccole realtà che, tutte assieme, compongono un polimorfico quadro; un quadro che
ognuno di noi fa suo, vivendolo come
propria esperienza vicissitudinale. Un parenetico messaggio che il poeta
rivolge a se stesso, all’altro di sé, a quella parte del suo essere che si
avvia improrogabilmente ad un silenzio assordante. E lo fa con un’ossimorica
contrapposizione fra luce e buio, fra giorno e notte, fra realtà e mistero. Fra
realtà e verità. D’altronde sta tutta qui la sostanza della vita: nella
simbiotica fusione delle contraddizioni. Nello scandalo delle contrapposizioni
che, al fin fine, determina il sale e il pepe del messaggio poetico. E de
Robertis lo vive pienamente questo abbrivo eracliteo fra Eros e Thanatos:
e sono pesci
le ombre tratte a secco
e vorranno perdonarmi
se sarò io
per indole più simile alla
preda
a dar vita al frastorno
a incatenarli all’amo
con la quiete della morte
intorno
Giace sull’arenile l’amuleto
carpito alla roccia madre
Libero a suo senno potrà
incendiare
il cielo ardere le foreste
proteggere l’amore
armonizzante Più di quante
virtù vanta il monile
più grazioso attraente il
collo della donna
che indossa l’ambra
gialla… (Lola),
dacché
è pienamente consapevole che il burrone nero fagocita ogni nostra illusione,
nell’indifferenza:
Non devi affrettarti
Non è di un bianco neve
non è soffice il sangue
dell’ultima stagione
è di un nero inclemente
miseramente ostile
indifferente.
Sì,
nell’indifferenza di una stagione che, come il presente, ci sfugge con tale
rapidità, da non essere mai con noi a dirci qualcosa sulle questioni che ci
assillano:
Come furfanti s’ammassano gli
anni
ma non sarà l’inverno cupo e
sciatto
a schiantarti il respiro…
E
c’è la natura che, con i suoi colori, con i suoi rumori, con le sue onomatopee,
con i suoi colli verdeggianti, o i suoi tramonti decadenti, avvicina l’autore e
lo aiuta a rendere corposi e visivi i barbagli più intimi, gli stati d’animo
più impellenti: il mare, l’avvento dei colori, la poiana, gli occhi di
gabbiano, l’aria fresca della notte, i petali rosati nei cespugli. Tutto si fa
colore o incolore, espansione o recessione, slancio o svolo, per accostare i
significanti dei versi. Un andare ondulatorio che si amplia o si rattiene per
abbracciare quegli abbrivi che portano il Poeta a scovare sentieri in cerca di se
stesso. Che lo portano, col paltò ormai consumato, sui gradini della vecchia
casa. È là che potrà sedersi ormai consolato, ad accogliere l’indifferenza dei
vicini: “come fosse/ un nuovo addio”
(Commiato). Un melanconico ritorno che fa da sottofondo a tutta l’opera e che
permea di sé la storia di questa plaquette, senza, però, scadere mai in becera
lamentatio. Anzi per fare da terriccio fertile ad un fiorire di versi di
estrema forza creativa; per aprirsi a pertugi di luce, a squarci di
rinnovamento epifanico, ad amori, a battiti di labbra e di sorrisi:
Un battito di labbra e un
sorriso
per non turbare i fanciulli
come alla partenza
di un viaggio lungo anni luce
Bene così! C’è già il salice a
piangere
Basta e avanza
Dunque? Dove eravamo rimasti?
Un
iter complesso, polivalente, vitale, disarmonicamente armonico, che, tracimando
ex abundantia cordis, si conclude con due inni: a Pisa, nuova città del Poeta,
(Austera e incantatrice/ Aquila nobilissima e sdegnata); e a Galilei, colui che
meglio la rappresenta:
Mai che venisse meno la magia
quando occhi minuscoli
indagavano
spazi sfavillanti di atomi (A Galileo).
Nazario
Pardini
Complimenti ad Ubaldo e a Nazario Pardini per la sua critica sempre così emozionante. In attesa di leggere il libro nella sua interezza, sommessamente mi avvicino ai versi di Ubaldo, ascoltando la sua ansia di significato e la sua ricerca rigenerante. Mi soffermo allora sulle due domande : " Ma l'Oriente dov'è?, ed inoltre" Dove eravamo rimasti? , che testimoniano il coraggio e la generosità del poeta, mai domo, nel suo viaggio e nel suo slancio verso un percorso sempre rigenerante .
RispondiEliminaNadia Chiaverini