Non
idoli, ma espressioni dell’anima ricerco nella lettura sfrenata della poesia
italiana. Non certezze, ma trepidanti paure echeggiano nei versi di Leopardi e
Montale. Come scaglie di sapone che si sciolgono tra le mani sono queste
letture febbrili. E alla fine resta il profumo silente e desiderato di quelle
ore didattiche.
Sì, resta
quel profumo; quell’immagine che si fa posto e scalpita per uscire. Sono i
fatti, i libri letti, gli incontri vissuti, i desideri, le utopie, che covano
nell’anima coccolate da un dolce sentire. E nel Poeta sono proprio queste
ricordanze a farsi materia di canto. D’altronde che cosa è la vita se non che
repêchage di antiche stagioni che ci videro snelli e audaci, incoscienti del
tempo. Sì, esiste anche la realtà, piena, zeppa, contaminante, fattrice di bene
e di male; ma questa da sé non è capace di coinvolgerci in un’ispirazione
feconda e poeticamente compiuta ed esistenzialmrente contaminante. E’ da là che
pesca il nostro animo per tradursi in “Poema”. Da quella vita che si è fatta
nuova, con tutti i suoi lampi empatici accompagnati da pathos, saudade, nostos
e che determina nelle nostre meditazioni la coscienza del tempo che fugge,
della sua precarietà, della sua
inconsistenza, della sua irrefrenabile corsa. E’ confrontandoci con le nostre
memorie che ci rendiamo conto di quanto una storia sia breve e fuggitiva,
dacché le antiche primavere, con tutti i loro giochi giovanili, si fanno
ingigantite, acquistando un sapore che non avevano quando le vivemmo: “Sed
fugit interea, fugit irreparabile tempus” (Virgilo Georgiche III, 284). E la vita non è altro che il tempo prestato
dalla morte nel racconto del Nostro; un racconto che occupa tutte le caselle
dell’esistere: meditazione, illusioni, delusioni, melanconia e soprattutto
inquietudine, incertezza, domande senza risposte: “… Confondo, scompongo,/
dimentico e ricordo/ ma il meriggio più non abbaglia/ i miei sguardi oltre la
muraglia” (Meriggio).
Affermava Alfredo Panzini: “I Poeti sono simili al faro del mare”, un’immensità
che rappresenta l’azzardo verso la libertà, ma pur sempre una libertà zoppa, limitata al nostro sguardo che non può
superare quegli orizzonti concessigli. Oltre c’è il buio. E le domande che ci
poniamo su quella oscurità sono tante, mentre poche le risposte; plurali i
perché senza soluzione. L’inquietudine d’esistere, la spinta a superare la
siepe che segna il limen della nostra vicenda, la coscienza dei nostri limiti, le
ingiustizie di una società da rifare, sono i tanti ingredienti che determinano
il focus di questa silloge. E sono proprio questi a renderla umana, vissuta,
umanamente oggettiva, ed empaticamente universale e spontanea. Non è azzardato di sicuro riportare la voce di Keats: «Se la poesia non nasce con la stessa
naturalezza delle foglie sugli alberi, è meglio che non nasca neppure.». Ed è
proprio il ricorso ad un panismo esistenziale di grande valenza ontologica a
fare da supporto all’anima del canto:
“Il tralcio di vite
che lega
con moto circolare
la terra al’uomo
è come
il cordone ombelicale
che lega madre e figlio…”
(Terra-Madre).
E
il Poeta sa che l’uomo non è più in simbiotica fusione con la Natura, e sa che
non ne rispetta quelle leggi che segnavano la vita e la morte, l’ordine e la
clessidra, la fine e la rinascita della madre eterna:
“…La terra dall’uomo
uccisa
ucciso
Il figlio dalla madre.
Oggi muoiono separatamente” (Ibidem).
Una
separazione che non è a se stante ma che implica temi civili, di falso
progresso, umanamente sentiti dal Poeta, dacché nei suoi versi chiede
esplicitamente:
- Non più “pactum
subiectionis”
- ma come Spinoza - “pactum
societatis”-.
E avvertimi, perché possa
coprire l’eco della tua voce
con un altro grido:
- Non vogliamo “società
moderna”
ma “società civile”-. Chiudi
gli occhi ora,
sogna l’isola di Utopia di Sir
Thomas More (Utopia).
Contenuti
poco adatti magari per farne Poesia, dacché la filosofia e la ragione, credo,
siano agli antipodi; mentre il canto si ciba soprattutto di sentimento e di
spinta emotiva. Ma è anche vero che ogni tematica è buona, basta che sia
filtrata dal cuore; basta che si traduca in immagine, pura, sana, macerata da
un riposo di lunga durata, come in
questi versi in cui dobbiamo dire che ogni argomento si fa lirico, personale,
sentito, naturale, poetico. Anche perché
c’è una ricerca attenta del verbo, dei suoi nessi, delle sue
combinazioni figurate; sì una ricerca polivalente che fa anche del suo proporsi
uno spartito musicalmente eufonico; uno spartito che abbraccia con la sua
pluralità verbale i tanti messaggi epigrammatici.
E
tanti gli ammicchi parenetici; ampio lo sguardo sull’esistere e sull’esserci:
dalla
città:
“… La città è la schiava
predestinata della prosopopea
umana,
lacrima sciolta al sole
priva del salino sapore” (La città).
Ad
una riflessione sulla felicità:
“… Magari si nasconde dietro
l’angolo la felicità,
in una scatola di
cioccolatini.
Forse è trasparente, ma non la
si vede,
forse si è persa tra le nuvole” (Per chi ha perso la felicità).
Da
una preghiera laica:
“… Ti chiedo se riscoprirò
quella luce che tanto allietò
la mia perduta infanzia;
o se nel tempo dovrò errare
cieco
per strade oscure” (Ti chiedo una fiamma… a Dio).
Ad
un profondo sentimento erotico dove l’imperfetto sembra voler prolungare un
magico momento di vita:
“… Lì, in quel posto dove
sedevi,
in quella stanza dove
meditavi,
in quell’eremo dove ti
appartavi,
ti ho conosciuto giovane
donna,
e con te ho conosciuto
l’agonia,
la sofferenza e la gioia di
morire
pronunciando a chiare lettere
la parola AMORE” (Malattia d’amore).
Insomma
plurimi i temi toccati dall’Autore in questo suo trasporto rievocativo o
auspicante. E anche se un sotterraneo sentimento di melanconica nostalgia
sembra fare da leitmotiv nel dipanarsi dello spartito, è nella lirica finale
che il Poeta trova una sua compensazione; in un sentiero di luce di cui va
affannosamente in cerca:
“… E lontano intravedo
un sentiero illuminato
che porta dritto ad un casolare
dove, appoggiato al bastone,
un vecchio curvato e festante
mi tende la mano verso la
libertà” (Guardo oltre la finestra).
Nazario
Pardini
DAL TESTO
Mani
aperte
Sul palmo della mano
sono disegnati atomi
di vita.
In un pugno
li hai chiusi (elevato
al cielo) gridando:
- Viva la Rivoluzione -.
L’odore contadino di castagne
arrostite
che saltellano (fuoco)
in mano.
- Siamo la classe del futuro –
dicevi
e del proletariato
(oggi) resta l’agreste nobiltà
come sogno (le sue radici)
abbandonato alla produzione
industriale.
- Siamo noi – avresti dovuto
dire;
noi con l’anelito di libertà,
con la nostra civiltà,
con i nostri cieli azzurri
che ascoltano
ansie spasmodiche;
e con le mani aperte
che portano chiari e distinti
i segni della vita.
Meriggio
Mi sento triste e solo
in questa mediana uggia.
Lucertole strisciano
lungo fili di erba seccati
dal sole invadente.
Confondo natura con vita
e linfa per me rimane
negli sterili sguardi
che il desiderio (della mente)
di vedere oltre ti permette,
altrimenti abbagliati.
Le fragili pieghe
di un foglio di carta
diventato aereo per gioco,
si confondono (in volo)
con le ali zigzaganti
di un’ape alla ricerca
di un fiore da impollinare.
E il muro odioso
che cinge il giardino
perimetralmente
segna l’ostacolo
insormontabile
che divide natura e vita.
La scala sottrattami
per impedire ai miei occhi
di varcare la cinta muraria
è stato un gesto ignobile,
come se mi avessero staccato
dal seno materno.
E allora su quel muro
ho dipinto fiori, api,
lucertole
e rondini; sole pioggia e
neve;
quattro stagioni per quattro
lati
del perimetro e al centro una
sedia
dove seduto osservo le
stagioni
del mio umore incostante.
Confondo, scompongo,
dimentico e ricordo
ma il meriggio più non
abbaglia
i miei sguardi oltre la
muraglia.
Poveri contadini
(a nonno Raffaele)
Poveri
contadini
con le
mani callose,
segnate
dal duro legno delle zappe.
Curvati
modellate la terra,
la
solcate per porvi i semi,
la
stendete per formare un giaciglio
accogliente
per le vostre piantine.
Attingete
dal vecchio pozzo
l’acqua
per irrigare i campi dei vostri padri,
assorbita
dalle pareti rocciose
del
sottosuolo.
Poveri
contadini
con la
fronte rugosa,
tracciata
dai raggi di un sole invadente,
infilatosi
nel buco d’ozono.
Poveri
contadini
umiliati
dall’ingegneria genetica,
dalle
politiche agricole comunitarie,
dall’industria
alimentare.
Tenete
sempre la schiena dritta,
fieri
e orgogliosi delle vostre produzioni.
Il
tempo darà ragione del vostro lavoro.
Splendidi
contadini,
sapienti
custodi delle nostre tradizioni,
del
cibo genuino della nostra terra,
delle
produzioni autoctone dei nostri vini e frumenti.
Mostrate
fieri le vostre mani
macchiate
dal sudore del duro lavoro,
mani
grandi e laboriose,
mani
aride e affettuose,
mani
forti e rugose,
mani
tracciate da cicatrici sottili,
mani
tenere e carezzevoli con i bambini.
Splendidi
contadini,
che
nei dì di festa,
posate
sulle ceste di vimini
i raccolti
di una stagione.
E
sentendo il tintinnio delle campane domenicali
vi
recate in chiesa per ringraziare il Signore
col
vostro cappello a tese larghe,
come
larghe sono le tasche dei vostri pantaloni.
Larghe
per metterci dentro
le
caramelle per i nipotini,
larghe
per gli spiccioli
da
donare all’offertorio.
Larghe
per il coltello da tenere sempre in tasca
per
tagliare il pane, il formaggio,
per
sbucciare un frutto.
Larghe
come le pareti del vostro cuore,
generoso
ed autentico,
passionale
e antico.
Cuore
scolpito nella cavità toracica,
cuore
pompato di sangue nobile,
cuore
ferito dall’atroce modernità,
cuore
seccato dall’odierna aridità.
Aperto,
vivo, sensibile e attento.
Cuore
di uomo combattente e onesto.
Questo
grande cuore
che
non può arrestarsi,
alimentato
da un sogno che si manifesta negli anni.
La
madre terra non può scomparire,
è bene
primario per chi non vuole morire,
per
chi la preserva e la ringrazia per i frutti,
ma
anche per tutti i suoi figli, buoni o brutti.
E tu
contadino, uomo etereo,
sei il
custode di questo amore eterno.
E
steso sotto l’ombra di un ulivo secolare,
col
cappello sulla fronte osservi quella terra d’amare,
quel
tramonto dolce dopo una giornata di lavoro,
la
brezza del vento che agita le spighe d’oro.
Le
mani conserte, appoggiate sul ventre bianco,
riposa
eroe, contento e stanco.
Ringrazio sentitamente il Prof. Pardini per questa splendida recensione. E lo faccio non come mero atto dovuto, ma consapevole di aver ricevuto una puntuale ed esaustiva analisi della mia silloge. In essa sono racchiusi tre lustri di vita vissuta intensamente, partendo proprio dalle “letture febbrili” di illustri poeti italiani e stranieri che hanno lasciato tracce indelebili nel mio recente, ma lungo come gestazione, percorso letterario.
RispondiEliminaNon domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. “Non chiederci la parola” E. Montale
Le ricordanze del vissuto personale, colte con grande sensibilità dal Prof. Pardini nell’individuazione di alcune liriche che ne contengono gli afflati più elevati, si traducono nella narrazione di una poetica che vuole individuare, nell’ambito della società civile e in quello della personale sfera sentimentale, quello che non si è e quello che non si vuole.
Per aprire una prospettiva che traguardi il vissuto quotidiano e vada incontro ad una idea di libertà che si traduce nei versi magistralmente riportati nella recensione
Confondo, scompongo,
dimentico e ricordo
ma il meriggio più non abbaglia
i miei sguardi oltre la muraglia” (Meriggio)
e ancora
“… E lontano intravedo
un sentiero illuminato
che porta dritto ad un casolare
dove, appoggiato al bastone,
un vecchio curvato e festante
mi tende la mano verso la libertà” (Guardo oltre la finestra)
Le profonde ferite che hanno tracciato la mia vita, gli interrogativi sull’esistenza stessa, non solo personale, ma anche quella umana; l’assurda capacità che noi esseri umani abbiamo di autodistruggerci o di distruggere quello che ci circonda, ma anche la spinta a superare la siepe, a guardare oltre il muro, oltre la finestra, oltre qualsiasi ostacolo che ci viene posto davanti sono quello che il caro Prof. Nazario Pardini definisce il “limen” della silloge, raccogliendo e cogliendo in una sola parola la poetica presentata in questo mio primo vero lavoro letterario.
Eccole le ragioni di un ringraziamento particolare, accorato ed entusiastico che sento di fare spontaneamente al Nostro caro Nazario (mi assumo le responsabilità di un tono confidenziale) perché con la sua splendida recensione mi ha rinnovato l’entusiasmo per la letteratura italiana e per la poesia, auspicando che altri appuntamenti letterari e di approfondimento culturale possano favorire un incontro fisico e non solo “epistolare”.
Pasquale Antonio Marinelli