martedì 5 settembre 2017

N. PARDINI: LETTURA DI "SHIRIM"DI GABRIELE BELLUCCI

Gabriele Bellucci: SHIRIM. Edizioni Polistampa. Firenze. 2014. Pagg. 56



“Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas”. Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell'interiorità dell'uomo abita la verità. (Sant'Agostino)

Una travagliata ascensione verso la luce. Un nostos umano, etico, filosofico, poetico; una scalata di grande  potenza vicisitudinale: è l’uomo che con tutte le sue magagne esistenziali si avvicina al potere di Dio in un excursus dove la fede fa da terriccio fertile per la crescita dinamica del canto, dal peccato al perdono. Una plaquette di suggestiva intrusione emotiva dove il verbo, con tutta la sua valenza etimo-fonica, con tutto il suo messaggio icastico, ci prende per mano e ci accompagna dolcemente in questo percorso fortemente inclusivo. La copertina riporta un’immagine emblematica che fa da prodromico annunzio al resto del testo: le due mani che nel giudizio universale di Michelangelo quasi si sfiorano: "Est Deus in nobis", diceva Ovidio; i poeti abitano in un loro mondo, in una repubblica delle lettere in cui come diceva il romantico Berchet tutti sono concittadini indistintamente. L’umano che può toccare la coda dell’infinito ma che non può certamente raggiungerlo del tutto date le sue miopi possibilità terrene. L’autore è cosciente della sua precarietà, di quella dell’umano esistere, e cerca con il suo volo di vincerne l’esilità, affidando la sua anima alla grandezza di Dio. Un viaggio, quindi, non sempre liscio, fatto di scogli, di inceppi, e di trabucchi, verso il faro di un porto che illumini l’approdo. Ed eccoci arrivati all’isola felice, dove tutto è quiete, dove ogni sottrazione si dissolve in un alcova di edenica spiritualità; di nirvana quietudine che presuppone, però, interrogativi di valenza escatologica: contrapposizioni che nella loro simbiotica fusione danno vita al diacronico fluire del pensiero umano; spirituale: l’ordine e il caos, l’alfa e l’omega, il bene e il male, il giorno e la notte, il buono e il cattivo… Una dualità che si fa splendore accecante nella fusione del Verbo. Il testo è arricchito da immagini ispirate alle fasi del percorso biblico. Si apre con la Genesi, 1. E Dio disse: “facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza…”. Tanti gli interrogativi che si fanno avanti nel prosieguo: il libero arbitrio, il male e il bene, perché Dio ha creato il male, ha voluto l’uomo peccatore, perché  credere e non credere. D’altronde, credente o no, l’uomo è preso per natura dalla voglia incontrollata di proiettarsi oltre ala siepe, oltre le colonne che demarcano il suo essere ed esistere. È umano, fortemente umano azzardare sguardi al di là della nostra vicenda. Il fatto sta che spesso i nostri voli sono frenati dall’impossibilità, data la nostra imperfezione, data la nostra esilità, di raggiungere la meta. Da qui l’inquietudine del vivere, la saudade, lo spleen, la coscienza della nostra precarietà. Beati coloro, quindi, che riescono ad incontrare la luminosità dei cieli, e che riescono ad immergere il loro essere in tale luminosità. Un processo di assoluta fermentazione lirica dove la parola gentile e dolce  riesce a concretizzare gli input meditativi per farsi corpo di stati d’animo fortemente ispirati:

da Adamo
(…)
Prima che il cielo
chino sopra di me vidi il tuo volto
nella luce del giorno,
più splendente del giorno;
ero gioioso di camminarti a fianco
nel giardino. (pgg. 13)

ad Eva

Vicino al solco tracciato dalla spada
rannicchiai la vergogna,
il mio dolore
e attesi trepidante la tua voce.
-        Signore – urlavo,
ma questo non placava la tua ira.
(…)
non conoscevo niente
del mio essere donna.
la vita che mi desti
scorreva senza tempo
nelle mie vene. (pgg. 17)

da Il serpente

(…)
Perché loro perdoni e me condanni
e dal creato mi spingi perpetuamente
nell’abisso dell’infinito nulla? (pgg. 23-24)

ad Adamo

La colpa non ha parole,
il silenzio imbruna,
in cupi antri ci spiano occhi di brace,
nere ali,
sabbie di deserto. (pgg. 25)

ad Eva

(…)
Io ti amo ancora oggi
Signore, Dio,
ma amo il mio peccato.

da Il serpente

(…)
Così folle di rabbia e di dolore
trascino la zavorra umana
dentro al peccato che mi fa peccare. (pgg. 30)

ad Adamo

                     Vieni, Signore, Dio,
nella voce profonda del vento
che bruisce cespugli d’erba.
Non celarti al tuo servo!
(…) (pgg. 33)

Fino a

“L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore…” (Luca, 1)

… La risposta fu solo una parola.
Nel silenzio fremente del mattino
l’ombra calò,
ti avvolse di pienezza
senza ferire il candore del giglio.
(…) (pgg. 39)

Le parole si succedono con musicalità ed eleganza. Si incalzano le une le altre in iuncturae di energica significanza. È la semplicità eufonica, la euritmica andatura che le fa apparire come componenti di un’orchestrazione di resa melodrammatica; ed eccovi a romanze di vera ascensione pucciniana, alimentate, per lo più,  da settenari e endecasillabi che si incatenano con rattenute ed espansioni per corrispondere alle esigenze dei contenuti; e per concludersi, alfine, in:

Abbà, Padre,
per quante volte
diradando la tenebra che inghiotte,
del Nulla l’offuscata caligine che
assale,
di inceneriti desideri
la sabbia rovente che frana
e le deboli orme cancella,
per quante volte, Tu, ancora…
(…)(pgg. 49)

Ultima sponda sorretta dalla voce di Matteo:
Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo”.
                                                     (Matteo, 28)


Nazario Pardini

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