Terre d’acqua
D’oro e di luce ti bagnerei lo sguardo,
improvvida luce del nostro primo
sentire, terra madre sbocciata dai polsi
di un piccolo nulla che in sé appalesa
tutti gli eventi.
Nuda, gloriosa, vortica l’acqua
delle nostre radici sull’orlo vivo
del tempo se al collo indossa
la vivacità di una corte di foglie
e di uccelli
dall’acqua raccolgo il mio volto
sfiorando l’asfalto, sfida i limiti
dell’emotività l’imperativo
a svettare e chissà cosa si cela al di là,
cosa riluce nel grumo violetto
di piume e cementi, quale solitudine
accesa alle palpebre chiuse.
E’ con questa poesia eponima, incipitaria, che
possiamo immergersi, fin da subito, in un animo tutto proteso alla scoperta di
se stesso; di un legame terra-acqua che fa di questo poema il leimotiv, il filo
rosso, la simbiotica fusione fra spazi ontologici e ondulazioni native. È da qui che inizia il cammino, l’avventura,
il viaggio, il nostos di una poetessa tutta intenta a varcare un mare per
bisogno di scoprire una verità, pur sapendo, Ella stessa, che è quel mare la
sua verità, che è quella terra il porto di arrivo di un viaggio di sapore
odissaico. Si sa che è proprio dell’uomo aspirare a superare quei vincoli che
lo legano agli spazi ristretti, dacché, per natura, ha bisogno di aria, di
cieli senza limiti, di orizzonti che vadano al di là dei suoi intendimenti. Ma
si sa anche che tutti siamo in cerca di un’Itaca che abbiamo persa, pur vicina,
in qualche misura, e che, prima o poi, torna per bussarci alla porta per
vivere, magari, più intensamente dopo anni di sperdimenti e sottrazioni. È
nelle corde umane. Ritrovare la luce, il fuoco che l’ha alimentata, che ha idealizzato
la sua terrenità, il suo piccolo tratto lambito dal mare, significa dare ossigeno
e sangue alla poesia, dacché ognuno di noi si porta dietro il sapore della
propria caducità e la forza delle proprie radici; e questa è la terra della
Nostra: “Cavallino Treporti è una lingua di terra incuneata tra il mare
Adriatico e la laguna nord veneziana, uno spazio fisico dunque, ma anche il
luogo dell’anima e del pensiero, una materia intima, emozionale atta a definire
una precisa identità e una specifica appartenenza” (dalla presentazione
dell’Autrice), qui il respiro dei suoi angoli, qui le penombre del mistero, qui
la luce dei suoi giorni; qui l’alimento delle sue memorie, qui gli scogli da
cui avrebbe voluto spesso partire, ma per ritornare nuova; con l’animo e la
mente intrisi dei tramonti e delle albe della sua antica e rinnovata memoria. “Un paese ci vuole, non fosse
che per il gusto di andarsene via”. (Pavese, La luna e i falò). “…Ritorno con
nell’anima lo sguardo/di una fanciulla intenta al corredo/che giocava
spensierata a palla/sorridendo con le ancelle. Torno a sera/zeppo di vita,/ arricchito
di genti di mari e di città/che colmarono in parte le mie voglie./ E questa è
la mia sera:/ è un’ora che lascia/ all’incoscienza del mattino/la ricchezza del
ritorno…”. (Nazario Pardini: La ricchezza
della sera, da Le simulazioni
dell’azzurro)
Ed è ogni angolo del suo mondo a farsi
epigrammatico travaglio esistenziale, territorio di chiarori e penombre che
l’ha veduta crescere. Ecco che la poesia si frantuma e si ricompone in un gioco
di assemblements che dia per risultato gli stati d’animo di una vita concretizzati
in quegli anfratti. Ogni angolo
sedimentato nell’anima parla di storie vissute, di vicende tristi o gioiose, di
avvenimenti che mai scadranno, dacché avranno vita con la luminosità di un poema
che li contiene.
Ed eccolo il navigatore che ha scorto dalle onde non sempre tranquille del mare il
faro che illumina gli scogli del porto:
D’oro e di
luce ti bagnerei lo sguardo,
improvvida
luce del nostro primo
sentire,
terra madre sbocciata dai polsi
di un piccolo
nulla che in sé appalesa
tutti gli
eventi.
Bisogna stare lontani, se non fisicamente, anche
per un po’ spiritualmente, per apprezzare i ritorni. Da questi l’epicità
di un lirismo di epifanica rinascita. E la Poetessa si accorge, aprendo una
finestra, di quanto sia estesa nella sua piccolezza, di quanto sia eterna nella
sua futilità, quella terra. L’animo vola e svola. Esce dal corpo e frulla sugli
angoli più nascosti di quel mondo. Se ne impossessa, li spreme, ne sugge le
sostanze più segrete, per portarle con sé al suo rientro, dopo la sua fuga. E il corpo vibra, la parola sente il bisogno
di dire quello che il dentro detta. Tutto è colmo delle nuove sensazioni, è
pieno di salmastri nostrani, di urli di
uccelli marini, di voci sussurrate ai silenzi, di battigie a una riva
insaziabile di suoni; si va al di là dei colori e dei movimenti, si va al di là
dei volti e degli spazi in questa foga di coniugare il sentire alla coscienza
di esistere; ai misteri del contingente:
e chissà cosa
si cela al di là,
cosa riluce
nel grumo violetto .
La parola scorre limpida, serena, a volte
concitata, altre riposata, a volte rapita, altre confusa, di fronte ad un mondo
che l’ha vista balbettare, e che la vede ora matura, gonfia di substantia da trasferire in epigrammatiche soluzioni; in
versi di grande sonorità eufonica e di urgente resa poematica. Così si esprime
nella presentazione la Poetessa: “…Qui un coro di voci diverse, attraversate
talvolta da ombre, innervano e sostanziano il sentire facendo emergere ciò che
sta celato nelle cose e negli istanti.
Sono le tante voci del mare, delle sue spiagge
che, nella frenesia dell’estate, accolgono circa sei milioni di presenze
turistiche. Sono i sussurri e i respiri più lenti della laguna con le sue valli
e le sue barene incontaminate, di qualche borgo antico, ancora depositario
dell’autentico, dei centri abitati e delle compagne intorno, adusi d’inverno ad
affidarsi a una luce bassa, interstiziale, capace di tenere insieme ciò che
resiste e ciò che potrebbe cedere in ogni momento…”. Sono i misteri della vita,
delle cose che ci chiamano, di quelle che ci portiamo dietro, e che sono guida
del nostro esser-ci. Sono dentro queste
cose le dolci illusioni, gli amorosi sensi, il focus del viaggio; e sono oltre
esse gli orizzonti a cui aspiriamo spesso indecifrati e indecifrabili per il
fatto che siamo umani, destinati al
dubbio di fronte alle questioni del vivere, cagione della inquietudine-buon
terriccio per la resa del canto. Il fatto sta comunque che noi viviamo loro
accanto ed è proprio questa vicinanza a formare il retaggio delle nostre radici
che inspiegabilmente ci vogliono a casa. Mistero dei misteri. Quattro i
sottotitoli dell’opera: Radici, Cieli di
voli e di assenze, Nutrimenti, Le parole per dirsi, che in un climax di
fattiva generosità esplorativa, scavano, perlustrano, scoprono, e appuntano
momenti di una storia dai risvolti intimamente profondi:
Considera di
questo luogo isolato
la macchia
viva del cielo:
un talento
mite ma autorevole
inonda i
campi e le case
di cose
buone, lucenti.
Già nella prima sezione sembra appiccicarsi
addosso alla Poetessa una luce che inonda i campi e le case. È la luce dei
riflessi del cuore e della vita, è la
luce che da sempre ha accompagnato Donatella per farsi sempre più possente,
sempre più splendente sulle cose raccolte in lei fin dalla sua nascita: Il mare, così silenzioso, così contrito, Le
molte voci, Il Faro di Punta Sabbioni, I due campanili, Il Faro di Cavallino,
Forte Vecchio, Barene, La pineta… un excursus puntuale; un ritratto
geografico e panoramico dell'anima; di tutto ciò che si erge con luminosità
accecante per “noi figli di un acquoreo disegno all’infinito.”. Ed è di questo
infinito che si ciba la Nostra, la sua intenzione poetica, di un volo verso
l’alto per trasferire tutto ciò che si è fatto immagine nella purezza dei
cieli; dacché tutto ciò che Ella ammira non è altro che un ritorno di giochi
che, dopo aver attraversato il campo dell’inconscio, è tornato agli occhi come
cosa nuova, sacra, da tenere vicina come questione di aria da respirare. “non sono troppe le parole da dire, basta quel
tuo esserci accanto”. E dove niente può essere notte, può essere buio, può
essere nulla e dove persino la sera “la lucida sera/sì, è una trepida sera
l’incantata/verticalità di un’attesa.”. E nell’ipotetica assenza che sarà del
troppo dolore? “Turbata bellezza, quasi da morirne,/che ne sarà del troppo
dolore?/ Fremente nell’ala, che ne sarà/ del fitto mistero che ci abbrividisce?/
Forse mai lo sapremo./…/ Diffonde il fuoco della mancanza/ la grazia crudele di
un indocile/ pigolio.”. Ed è un amore
incalzante, eterno, infinito, avvincente, a farsi mistero, a farsi domanda
incalzante, questione quasi escatologica. Ma i nutrimenti? L’alimento?: l’estate lenta, sere di paese, una nuvola,
il vanto del fiore, la campagna, foglie, poesia… un mélange di cospirazioni;
un groppo che prende la gola e che chiede spazio per farsi poesia. Sì, per
farsi canto ma per tale combinazione occorre il mezzo più umanamente disumano:
la parola. Quella per dirsi. Il valore aggiunto nella silloge della Nardin. La
grammatica del poièin richiede ben altro, non è di certo sufficiente lo spazio
della tradizionale morfosintassi. Bisogna volare, andare al di là dell’etimo,
con invenzioni iperboliche, con costruzioni di sintestetica significanza, con
iuncturae di personale fattura. Questo è il non semplice intervento di una
Poetessa che dagli abbrivi emotivi, dalle vertigini di panica intrusione, dalle scosse
di una elettricità a 200 W. riesce a ricavare un poema tanto vicino alla
laguna di ognuno di noi.
“Si scioglie
agosto nell’arcano marino,
precipitando
dilegua, ma prima
di andare
nello stupore incendia
le minuscole ignavie
degli occhi.”
“Acqua,
sorgente fertile, perfetta
di questo
canto imperfetto che
all’anima
giovando, doma l’arsura
e alle soglie
del nostro segreto
- per fame o
per amore -
per mano ci
conduce.”
Nazario Pardini
RACCOLTA POETICA “ TERRE D’ACQUA “ DI DONATELLA
NARDIN
Nota dell’autrice
Questa raccolta poetica è ispirata in larga
misura e dedicata a Cavallino Treporti, il paese dove sono nata e vivo e a
Venezia, la città che, affacciandomi a una delle finestre di casa, mi entra
negli occhi.
Cavallino Treporti è una lingua di terra
incuneata tra il mare Adriatico e la laguna nord veneziana, uno spazio fisico
dunque, ma anche il luogo dell’anima e del pensiero, una materia intima,
emozionale atta a definire una precisa identità e una specifica appartenenza.
Qui un coro di voci diverse, attraversate
talvolta da ombre, innervano e sostanziano il sentire facendo emergere ciò che
sta celato nelle cose e negli istanti.
Sono le tante voci del mare, delle sue spiagge
che, nella frenesia dell’estate, accolgono circa sei milioni di presenze
turistiche. Sono i sussurri e i respiri più lenti della laguna con le sue valli
e le sue barene incontaminate, di qualche borgo antico, ancora depositario
dell’autentico, dei centri abitati e delle compagne intorno, adusi d’inverno ad
affidarsi a una luce bassa, interstiziale, capace di tenere insieme ciò che
resiste e ciò che potrebbe cedere in ogni momento.
Ma il corpo vibrante, l’elemento vivo che nella
contingenza delle trame e degli eventi, negli incontri e negli addii, nutre e
potenzia l’immaginario è l’acqua, il principio primo, la sostanza simbolica,
lustrale sempre pronta, in un’osmosi continua tra uomo e natura, ad
incardinarci alla sua impalpabile essenza così come ai suoi frammenti pittorici
sorti dalla semplicità di un’intuizione, da una pronuncia melodiosa o da
qualcosa di oscuro, d’indicibile.
A tutto ciò il mio omaggio sincero, il mio
attaccamento, la mia modesta restituzione in poesia.
TERRE D’ACQUA
“ L’acqua è la forza che
ti tempra,
nell’acqua ti ritrovi e
ti rinnovi. “
da Falsetto di Eugenio
Montale
DAL TESTO
PRIMA SEZIONE: RADICI
Terre d’acqua
D’oro e di luce ti bagnerei lo sguardo,
improvvida luce del nostro primo
sentire, terra madre sbocciata dai polsi
di un piccolo nulla che in sé appalesa
tutti gli eventi.
Nuda, gloriosa, vortica l’acqua
delle nostre radici sull’orlo vivo
del tempo se al collo indossa
la vivacità di una corte di foglie
e di uccelli
dall’acqua raccolgo il mio volto
sfiorando l’asfalto, sfida i limiti
dell’emotività l’imperativo
a svettare e chissà cosa si cela al di là,
cosa riluce nel grumo violetto
di piume e cementi, quale solitudine
accesa alle palpebre chiuse.
II
Il resto è pace, un senso, un’idea
nel fondo intatto d’isole bastanti
a se stesse.
Il resto è quiete guizzata in gola
da una fulgida luna di rotondi silenzi
prima che nel dispendio di sé
l’acqua per una via ai più segreta
- dal
granato del sangue al rosso
rubino della carne - sia solo
una febbre di nebbie, di un dire
già detto il lieve rimpianto
o quel sostare felice, se siamo
già altro, nel fitto cangiante
di verdissimo verde, stupefatto
presente che ci allinda
e c’illanguidisce.
Tutta luce
Considera di questo luogo isolato
la macchia viva del cielo:
un talento mite ma autorevole
inonda i campi e le case
di cose buone, lucenti.
Nel liquido riflesso raggiunge
il suo limite il fiore - si modella
la grazia sulle imperfezioni - .
Considera l’esemplarità della storia:
qui, vicino all’amore,
anche prima di essere pensato
è tutta luce il respiro desiderante
della mia terra
creatura.
E poi il mare
E poi il mare.
Così silenzioso, così contrito
nel calice muto del petto
come se al mondo più nulla
esistesse.
E poi l’onda notturna, così stretta,
vibrata, come un lampo
d’imbiancate memorie sul piazzale
assonnato.
Accoglie la notte e le sue moltitudini
grate lo smeraldo splendente,
indistinto qua e là fino a graffiare
la bocca, ogni volta di più
esposti noi nell’urgenza dell’essere
o nel mancarsi pacato
noi figli di un acquoreo disegno
all’infinito.
(...)
SECONDA SEZIONE: CIELI DI VOLI E DI ASSENZE
Cieli di voli e di assenze
Cieli di voli e di assenze come
pellegrinaggi costanti, infiniti.
Offre le sue labbra al canto
un pettirosso, con repentina premura
danza le nuvole in coro,
fino a farsi soffio leggero le ruota
all’indietro ma più di tutto s’incora
perché nell’unità più non lo segue
l’ombra celestina del mare.
Turbata bellezza, quasi da morirne,
che ne sarà del troppo dolore?
Fremente nell’ala, che ne sarà
del fitto mistero che ci abbrividisce?
Forse mai lo sapremo.
Diffonde il fuoco della mancanza
la grazia crudele di un indocile
pigolio.
Haiku
Micio smagrito
sbriciola il blu del cielo
una gattara
Il cielo sopra Venezia
Oh sì, ogni giorno di più c’invera
il cielo sopra Venezia e c’è sempre
una parte di noi che nell’ineluttabile
suo s’immerge per farsi vertigine
vasta e silente.
Come l’amore paziente, confidente
cerca per lui un fuoco di primavera
una qualsiasi forma, fosse pure
la ventosa malinconia di un dolce
tracollo nel diventare a sera
un tutt’uno con il mare, fosse pure
il desiderio profondo di stelle
o di noi la nostalgia che nell’universo
delle umane cose lo renda possibile
e ne alimenti l’impenetrabilità.
Al parco
I
Gioca l’azzurro sopra i tetti di aprile,
lacerando la pelle del visibile
nell’aria disegna le sue micro-
narrazioni.
Placidi di primo sole - né vivi
né morti solo in attesa - stanno seduti
immobili sulla panchina
le due vecchie figure tornate quasi
bambine.
Intensa, donativa, precede l’armonia
la sintonia?
II
Il fossile di una poltrona color
ciclamino fa bella mostra di sé
accanto ad un’altalena
che dondola il tempo.
Malinconia di luminosità sospese:
prefigura i giorni dell’ansia
la luce del congedo.
Per farsi coraggio bisognerà
accarezzare le mani paffute
del bimbo appena sceso dall’altalena,
piccole mani fattive
da cui accorato ancora trapela
un po’di creato.
(...)
TERZA SEZIONE: NUTRIMENTI
La magnolia
Di un solo fiore all’anno si fregia
la mia magnolia indolente - è così
fioca la rinnovata intenzione,
tanto fioca che trema -.
In solitaria forma gocciola luce
sull’estate quell’unico fiore,
di grazia avvinto, prima di lasciarsi
cadere nel fiume in piena
del dissimile, ad ogni annunciato
chiarore ogni giorno di più giura
eterna fratellanza.
Signum ingenuitatis: basta un piccolo
slancio, un’emozione appena
nel così com’è delle umili cose,
per rendere più fiducioso
il mondo.
Haiku
I
grilli a sera
un'eccedenza di vita
oltre il silenzio.
L’estate nei nidi
Sonnecchia l’estate nei nidi,
nel più compiuto bramare, in palpiti,
in piume attende una luce capace
di dare forma ai tratti smarriti
dietro l’opale di fuoco.
Come se molto di noi si presentasse
all’alba indifeso, ci soffia in bocca
al risveglio un caldo rigoglio e tutto
al vivo - linfe, foglie, maschere
scheggiate di noi invase
da un’inspiegabile gratitudine -
sembra riacquistare senso
e vivacità.
Beach on fire*
Si scioglie agosto nell’arcano marino,
precipitando dilegua, ma prima
di andare nello stupore incendia
le minuscole ignavie degli occhi.
E’ una festa di luci ad arrotolare
il mare attorno ai colori e quanto
l’ardire nell’artificio dei fuochi
fluttuanti lungo i tredici chilometri
dell’arenile; effusi, protesi
allagano il cielo i bianchi ancestrali
congiunti ai labirintici rosa, fluttuando
dardeggiano su orme e presenze
ammutolite con il naso all’insù i blu
vitali e taglienti addossati ai drammatici
viola e quale incessante vortichio,
quanta inermità disposta a proclamare
la gioia, quante ombre incapaci
di staccarsi da ciò che non è più
come nei sogni risvegliati dai fuochi
morenti sull’acqua quando nell’eco
di cose andate, ma luminose ancora,
senza passi si cammina.
*Spettacolo pirotecnico iscritto nel Guinness
dei
primati come il più esteso al mondo e che
richiama
ogni anno a Cavallino Treporti circa
250.000
persone.
Foglie
Sussurrano sole
le foglioline
dischiuse, fremendo d'oro
abbacinate assecondano
l'appena nato dei prati.
E' forse amore ciò che nell'effimero
trova il suo compimento?
Disarma l'abbaglio la lacrima blu
dell'ultima foglia volata via
con il cielo d'autunno accartocciato
sul viso, come la rosa attorta
alla pelle flessuosa a fare corpo
con noi per rinvigorire nell'incolto
dei rami l'oscura crepa del mondo.
Trema la bocca corolla nel dire
il tempo che muore, docile cede
riponendo il sorriso perché solo
gli uccelli del bosco sanno la verità
dell'inverno che viene dal lieve
soffrire delle foglie.
La campagna
Un intreccio di sensi tra fissità
e mutamento.
La campagna si ritrae, nel fremere
di zolla, e già fuori da noi, in poche
righe oppone i torpori dell’inverno
ai gialli elettrici dell’autunno.
Nessuno le vede ma si danno
splendide gemme e bambole di spighe
appena sotto dicembre - è un bacio
breve ma profondo quello apprestato
dall’immaginazione -.
La campagna monda, trascende,
nel tempo che dice e nega in foga
di comunione concettualizza il verde,
si perde l’io nell’irta sostanza
del mutamento
e allora, come la campagna, esserci
nell’essere semplicemente.
Biancolatte una vela
Biancolatte fende una vela
il logorio sommesso del giorno.
Non so il ritorno.
Non so se mai.
Se nei luoghi dell’inemendabile
si scioglierà in perdono
il dolore della perdita cupa.
C’è una residua gentilezza
nel livore ma nel bosco
bianchissimo dell’altrove
si è ridotto a brandelli
pure il sole.
Haiku
Barche e naufragi
implora un riparo
l’umana pietà.
QUARTA SEZIONE: LE PAROLE PER DIRSI
Voci
Il buio non è ancora finito, mi dici,
ma la fioritura degli ori notturni
è stata generosa.
Hai i capelli bagnati, le labbra dischiuse
al dono di piccoli baci materni
senza rossetto.
In piedi di fronte al letto, tu che sai
vivere d’alba anche sul far della notte,
impareggiabile sorvegli i sogni
e le paure di tutti.
Ricama il tuo sguardo brezze gentili
alle mani rugose e a quelle belle, pacate.
Hanno lo stesso bisogno di cure,
mi dici, tutti i percorsi d’amore:
le stelle sognanti nella notte esiliata
il vacuo, l’incongruo, le meretrici
accorate lungo le mie strade
fiammate e quel guaire di un cucciolo
vulnerabile e solo nell’abbandono.
Di grazia imbevuta, averla davanti
e riconoscerla l’acquorea voce
della mia terra felice.
II
Ecco:
è
d’oro nel chiuso di casa la voce
di
madre allagata, dispiega
la
levigata parola a fatica
con
occhi molli e salati s’infila
per
sempre nei figli orizzonte,
immacolata
barcolla al varco nudo
di
stella la sua mano argentata
di
rughe, d’eternità e di silenzi
e poi
ci saluta sbiancando nell’oltre
un
lungo dolcissimo addio.
Resta così la notte,
senza un vero perché.
Resta un silenzio d’ombre
che portano in bocca
la scabra bellezza di ciò
che non ha parole
per dirsi, le rare volte
un’affezione, una complicità
senza fine.
Haiku
Il campo brullo
apre gli occhi un bocciolo
non sa il suo tempo.
Beltà dei geli
Beltà dei geli e delle invernali figure:
a passi brinati, leggeri si muove
il pomeriggio invernale
verso tramonti sempre più corti
punteggiati da un’insanabile
inanità.
Pungenti torpori in un idillio di nevi:
ci si versa del vino in ruvidi
bicchieri da osteria per trovare
nell’evidenza del tremore
un po’ di calore.
Scivola sulle labbra screpolate
del vento un profumo intenso,
quasi ostinato di viole
in lode muta vi è rimasta incisa
la memoria assolata del fiore.
(...)
Curriculum bio-bibliografico di Donatella
Nardin
Sono nata e
risiedo a Cavallino Treporti-Venezia. Dopo gli studi classici ha lavorato nel
settore turistico con incarichi anche dirigenziali. Appassionata da sempre di
lettura e scrittura, soprattutto poetica, solo da qualche anno ho iniziato a
partecipare a vari Concorsi Letterari con risultati alquanto gratificanti. Ho
ricevuto infatti numerosi riconoscimenti, un centinaio, nelle varie graduatorie
concorsuali. Nel 2014, quale premio editoriale di un Concorso, ho pubblicato la
mia prima silloge poetica “In attesa di cielo” Ed. Il Fiorino (Premio
Giovanni Gronchi, Premio Cinqueterre Golfo dei Poeti, Premio Rivalto-Roberto
Magni, Premio Leandro Polverini). Nel 2015 è stata data alle stampe la mia
seconda raccolta di testi lirici “Le ragioni dell’oro” Ed. Il Fiorino
(Premio Giovanni Gronchi, Premio Città di Arona). Numerose mie poesie e alcuni
racconti sono stati inseriti in varie antologie di Concorsi Letterari, in
raccolte collettanee di Case Editrici come LietoColle e in alcune riviste
dedicate come Poesia, Crocetti Ed.
Desidero significare la mia profonda gratitudine al Professor Pardini per aver generosamente ospitato la mia poesia in questo spazio. Un grazie grande per le sue puntuali osservazioni critiche, sostenute sempre
RispondiEliminada una notevole competenza capace di cogliere e disvelare anche ciò che sta oltre la parola.
Grazie molte ancora.
Donatella Nardin
Ma è la nota di chiusura al libro non una recensione questa.
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