domenica 3 giugno 2018

IL COMUNE DI LARINO PREMIA UMBERTO CERIO(CONTRIBUTI DI P. BALESTRIERE E N. PARDINI)


            IL COMUNE DI LARINO           PREMIA 
           IL PROF.UMBERTO CERIO
            del prof.  Mario Moccia

   
Umberto Cerio,
collaboratore di Lèucade
Il 1 giugno 2018, alle ore 18, nella sala “Ermanno La Riccia” presso la Biblioteca Comunale di Larino, l’Amministrazione Civica ha voluto onorare gli ottant’anni del prof. Umberto Cerio, con la concessione di un Encomio come segno del pubblico riconoscimento dell’intera cittadinanza. Numerosi i presenti, ricchi e variegati interventi e testimonianze. Hanno fatto pervenire i loro attestati di stima anche gli illustri professori Nazario Pardini e Pasquale Balestriere, con due pregevoli contributi.


       IL TESTO DELL’ENCOMIO
  
COMUNE  DI  LARINO
CONCESSIONE  DI  ENCOMIO
  
Il Sindaco di Larino, ritenendo di interpretare i desideri e i sentimenti della cittadinanza, segnala al pubblico riconoscimento attraverso la concessione di un

ENCOMIO  CIVICO

il professor Umberto Cerio, per i grandi meriti acquisiti in una vita dedicata al lavoro, agli impegni sociali, all’arte poetica ed alla cultura in generale, per aver onorato, quindi, l’intera comunità e, mostrandosi degno figlio della nostra cittadina, per aver contribuito ad accrescerne il prestigio.
Il prof. Umberto Cerio è nato a Larino ed alla sua città ha dato il meglio di sé, identificandosi sempre come figlio devoto, sollecito a salvaguardarne l’immagine e l’importanza storico-sociale con l’impegno di tutta una vita spesa non soltanto nella meritoria e lusinghiera attività professionale, ma anche per la risoluzione dei problemi sociali della sua terra, con un’intensa attività politica che lo ha portato più volte a ricoprire ruoli di notevole rilevanza istituzionale.
L’attività didattica che lo ha visto educatore di numerose generazioni studentesche e maestro di vita, si è avvalorata per la sua particolare attenzione ai problemi contingenti della realtà contemporanea, per la risoluzione dei quali si è notevolmente prodigato con un impegno serio e nobilmente altruista per tutto l’arco della sua vita. Costantemente attento ai problemi dei più deboli, sensibile interprete delle istanze sociali, coerentemente impegnato in attività politiche tese al riscatto di una terra generosa, ma penalizzata da una situazione di secolare marginalità, con la conseguenza del doloroso, progressivo ed inarrestabile abbandono dei suoi figli, ha saputo coniugare sempre e dovunque il notevole apporto del poliedrico bagaglio culturale con il fervore e la passione dell’innovatore che fonda le sue proposte risolutive sul rigore della seria e meditata coscienza politica.    
La profonda e vasta cultura umanistica, retaggio della sua formazione presso il locale Liceo Classico e corroborata dalla laurea in Filosofia, si è arricchita ed oggettivata senz’altro nella speculativa attenzione alle ragioni dello spirito umano, ma anche nella frequentazione quotidiana della Collettività che lo circondava, che gli ha permesso di misurarsi direttamente con i problemi contingenti dell’uomo di tutti i giorni. La sua professionalità di Docente di Materie Letterarie gli ha consentito di affinare l’analisi dello svolgimento storico della società con una sensibilità particolarmente attenta alla crisi ed al dramma della civiltà contemporanea, e questo gli ha permesso di cogliere con acume e perspicacia l’universalità dell’uomo nello svolgimento della storia.
Dell’uomo del nostro tempo è diventato il cantore, dei drammi del suo cuore ha analizzato le tante sfaccettature, della profondità dello spirito umano ha saputo rendersi interprete, innalzando un canto che, superando i limiti della realtà immanente, riesce a porre l’umanità al centro di una poetica millenaria che, dal passato cerca il sostegno e la lezione necessaria a superare lo sconforto, dalla forza degli antichi aedi trae l’energia indispensabile a penetrare gli arcani del destino umano e recuperare il retaggio degli insegnamenti dei nostri padri per affrontare, con avveduta consapevolezza, il cammino della vita umana.
Dalla poesia classica e dal mito antico ha tratto la sensibilità squisita che gli ha permesso di diventare il Vate della contemporaneità, il novello Aedo che, con la nitidezza delle sue analisi e la complessità del suo canto riesce a dare al nostro spirito moderno, inquieto e smarrito, la maschia determinazione ad affrontare la vita a testa alta, con lo sguardo impavido, con la saggezza che solamente la conoscenza dei grandi personaggi della nostra mitologia riesce ad infondere in chi sa leggere, con la dovuta attenzione, gli avvenimenti antichi, accostandosi umilmente alla tragedia di quegli eroi che, con le loro vicende, sono diventati un faro universale.
“So che il mio canto tonerà    a smuovere macigni…. –  a rendere mansueti gli animali    a placare gli uomini selvaggi….” dice il Nostro in una sua opera ed Il suo canto diventa catartico; il nostro poeta va, infatti, alla ricerca di quelle risposte che la ragione non può dare ed il ricorso al mito è il tentativo di aiutare ogni uomo ad incontrare se stesso per “…sognare tutti i sogni segreti  -  della conoscenza e delle memorie…”
Il nostro concittadino si è fatto cittadino del mondo, ergendosi a baluardo contro la paura dell’ignoto, intento a fustigare la mediocrità degli atteggiamenti, nella consapevolezza che la società degli umani ha bisogno di grandi esempi a cui rifarsi per riscattare la propria dignità.
I numerosi ed importanti premi che le sue opere hanno collezionato in tanti simposi letterari testimoniano la grande ammirazione che il prof. Umberto Cerio ha suscitato in tanti qualificati ambienti e permettono a tutti noi, suoi concittadini, di sentirci orgogliosamente partecipi dei riconoscimenti e delle lodi che universalmente gli vengono attribuiti, nonché della stima di cui meritatamente gode.   

Larino, li 01 - VI - 2018 Il SINDACO di                                 LARINO              
           Avv. Vincenzo  Notararangelo



Di seguito il contributo di Pardini



UMBERTO CERIO
IO, ORFEO  - NEL LABIRINTO -

Ho letto e riletto scritti vari  dell’amico fraterno Umberto; tanti e tutti pubblicati o sull’isola di Lèucade o sul mio monumentale saggio di oltre 700 pagine: Lettura di testi di autori contemporanei.  La sua figura primeggia, in primis, perché è un grande artista, e poi perché interpreta l’arte alla mia maniera: passione, memoriale, rivisitazione e attualizzazione del mondo classico-mitologico, panismo, e soprattutto utilizzazione dei simboli naturali per concretizzare gli input emotivi. E lui è un maestro; un grande maestro e un altrettanto grande uomo. Quante telefonate per dirci di poesia, di vita, di anni che scorrono come acqua cheta! Quello che lo rende unico è  la sua magnanimità, la sua disponibilità a comprendere gli altri ad ascoltare e fare tesoro di ogni rapporto umano. La sua poesia corre diretta, fluente, compatta, armoniosa, robusta, schietta; fatta di versi reificanti amore, sacralità della vita, affetti,  abbrivi in vertigini di sinestetica-allusività; in classiche misure metaforiche; in urgenti cavalcate che traggono linfa dai problemi spleenetici del vivere. Per non dire della modernità verbale, della saggezza culturale nel trasferire emozioni in corpi significanti suasivi. Mi piace riportare un mio scritto su una delle sue opere a me più vicina; su una esperienza sua personale difficile che mi ha tenuto per parecchio in ansia; si sa che non di rado la nostra vita subisce degli sconquassi emotivi quando siamo legati fortemente, con animo schietto, alle sorti di un vero amico; a vicende che ne possono compromettere la vita e che lui, dopo una postuma decantazione, ha saputo, da par suo, convertire in un poemetto di elevato spessore estetico con punte di straordinaria lucentezza lirica; dove i personaggi si fanno vivi ed attuali con  la loro complessità epigrammatica; con un vissuto straboccante di pathos: Io, Orfeo – nel labirinto–

E inseguivo Euridice,
che ombra tra le ombre, si perdeva
fino a sparire in una nebbia ostile.
I miei passi, -e la flebile certezza-
sempre più arresi a vana speranza,                                          
seppero vicino il precipizio
e l’angoscia della caduta
nell’improvviso spazio
del vuoto  ignoto della coscienza.

Umberto Cerio si presenta sull’isola con un nuovo poemetto strettamente legato ad una sua vicissitudine personale: un intervento a cuore aperto. Un viaggio, quindi, un odeporico intento, un nostos in cui il poeta va alla ricerca di sé, della luce, della vita in un momento di assenza dell’organo degli organi: di quello che tiene i nostri abbrivi emotivi, le nostre vertigini esistenziali, i nostri azzardi oltre la ragione, oltre l’omologazione tesa ad azzerare quella spiritualità che ci fa umani, soggetti a cadere nel regno degli inferi, nel regno buio delle tenebre, fra le rocce che squarciano la carne:

Ma io precipito, cado nel vuoto
nero, sbattendo sulle dure rocce.
Sanguina il mio corpo, sanguina
il mio cuore e lascia lunghe le tracce
del suo dolore oscuro
e il petto mi si squarcia, dilaniato
dalle lame feroci delle rocce.

Un vuoto fra la vita e la morte, in cui l’anima tiene sempre impresso il volto dei giorni felici:

Dove sono le stelle
e gli occhi della mia donna in amore
dopo il fragore del crollo
che improvviso portò buio e silenzio?

Un metaforico allungo pieno di significanza ontologica. Ma nel viaggio c’è un’isola in cui approdiamo prima del porto finale; quella del rifornimento, del rimessaggio, quella di un bilancio momentaneo, dell’aggiornamento della carta nautica; è lì che facciamo il punto della situazione: riflettiamo, ripeschiamo le memorie, riviviamo i rischi e le difficoltà incontrati fino ad allora, e aspiriamo, sì, aspiriamo a raggiungere la meta; ci organizziamo, rinvigorendo le forze; cercando energie nuove nascoste dentro di noi per la risalita; per il canto di un nuovo Orfeo:

Pietra dopo pietra e ombra dopo
ombra cerco la luce.
So che il mio canto tonerà
a smuovere macigni
a scuotere gli alberi dei boschi
a rendere mansueti gli animali
a placare gli uomini selvaggi.
Il canto mi renderà Euridice
e ci riporterà al Sole
e questa cava testuggine
che sempre offre suoni così dolci
renderà più bello il mio canto
quando risplenderà a me vicina.

Si fanno vive, corpose, e tracimanti le memorie; il loro serbatoio contiene le immagini di un lungo cammino:

Le notti passate col fremito
della mia dolce Euridice?

 Ed è così che focalizziamo il punto d’arrivo; la meta dettata da una mente rinvigorita, trovatasi sola senza il compagno della vita. È qui, durante le quattro ore in cui il poeta si sfronta  con la morte, quando tutto è in mano di coloro che in camice bianco giocano sul suo esistere, proprio in questa fase, si conferma la natura poetica del nostro; si fa più potente, più visiva; i personaggi intervengono con più virulenza; appaiono più significanti nel loro ruolo:

Era vero ciò che il mio canto
otteneva, oppure era inganno
di Persefone il turbamento
e lo sguardo incredulo di Ade
per noi che tornavamo alla luce
e alla vita del mondo superno?

Ecco la mitopoietica; quella che fa del mito la rielaborazione della vita personale; la contestualizzazione di una realtà a volte crudele, a volte feconda. Tutto si fa simbolo, estremamente dialettico e plurale, poeticamente affabulante. L’amore ideale sembra vincere su thanatos; si incarna in Euridice, sogno, vita, luce, rinascita; la navigazione vede il faro dell’isola agognata. Il viaggio si completa. Appare la sagoma della foce; si torna al reale. Il risveglio è il sublime. Una voce: “Tutto bene”. E accanto la moglie che, come la luce del vero, del bene, e del sacro, forse piangente e tesa per i rischi corsi dal suo navigante, l'abbraccia risalito ai lampi del giorno: 

Euridice era lì. Io tornavo.
Alla forza del fremito di vita
che impazzito tempestava la linfa
che aspettava il tumulto vitale,
l’esplosione improvvisa della luce.
E il sangue di nuovo
premeva nelle vene e nel cuore.
Scomparvero le nottole urlando.
Tornarono i frutti della terra.

Grande poeta, grande forgiatore di miti, ma soprattutto grande amico, fratello direi, carissimo Umberto, ad maiora semper.

Nazario 



Il contributo di Balestriere.

UMBERTO CERIO
La poesia come luce

Ho conosciuto Umberto Cerio il 20 ottobre 2013, in occasione della cerimonia di premiazione del concorso di poesia “Città di Quarrata” nel quale  eravamo entrambi tra i vincitori. Prima di allora  mi era noto solo di nome, come accade a chi frequenta tale tipo di manifestazioni,  che hanno  – se non altro –  il grande merito di favorire contatti e conoscenze tra poeti e scrittori. Però, mentre  questo  primo approccio nella  maggior parte dei casi si ferma a un livello superficiale, nel nostro caso - mio e di Umberto, dico-  si è trasformato in vera amicizia, alimentata e cementata,  oltre che da affinità caratteriali, sociali, culturali, storico-geografiche ( Umberto mi ricorda spesso che entrambi apparteniamo all’ex Regno delle due Sicilie)  e da interessi comuni, anche da accadimenti e vicende biografiche, liete o tristi. E ciò è accaduto, in particolare, perché Umberto Cerio è persona di grande sensibilità e spessore umano, puro nei sentimenti come tutti gli uomini dovrebbero essere, ma soprattutto i poeti.
Mi piace sottolineare che il nostro festeggiato è stato  egregio e scrupoloso  docente ed anche amministratore e uomo politico onesto, accorto, generoso.
Per tutti questi motivi Umberto Cerio è molto caro al mio cuore.
Ma ora voglio dirvi del poeta, attraverso qualche passaggio critico,  da me redatto, che illustra gli elementi salienti del suo mondo creativo.

Sulla silloge “La luce o del gioco delle memorie”

Emozionato e partecipe, mi sono dato alla scoperta dell’ultimo parto poetico di Umberto Cerio, “La luce”, con sottotitolo “o del gioco delle memorie” (Edizioni ETS, Pisa  2016, pagg. 45 ) che integra ed espande, ma insieme definisce,  un titolo quasi fulminante nella sua brevità.  Coinvolto già da tale intestazione, vero e proprio ammicco al mio “Il sogno della luce”, ho immediatamente inteso quest’opera del poeta molisano come un ulteriore amicale contributo a un (bi)sogno di luce; e, a mano a mano che avanzavo tra i suoi versi pervasi dai freschi profumi di una vita intensamente vissuta, sentivo che  questa aspirazione, o meglio esigenza, di luce ci accomunava e ci rendeva ulteriormente fraterni e consonanti.                             
È proprio vero: rampolla dall’immediatezza della  vita reale, con il suo carico di gioie e di dolori, la poesia di Umberto Cerio; proprio come il diamante emerge dalla cava penombra della miniera. E tuttavia dalla realtà si affranca; se ne solleva, depurandosi del torbido e delle scorie dell’hic et nunc  e cercando una dimensione spirituale dove più serenamente la riflessione si fonde con la memoria, il pensiero con gli affetti, in una recuperata misura di saggezza, in un perseguito desiderio di pace, in un cercato e realizzato equilibrio creativo.  È in questo spandersi nella vita, saggiandone e suggendone i fermenti più  intensi e talvolta inquietanti, per poi elevarsene, ma  portandosene echi e sentori e collocandoli nell’ atmosfera della memoria e del canto,   che risiede l’essenza artistica del nostro poeta. Che, qui, canta la luce: scoperta, inseguita, afferrata, posseduta,  perduta, ritrovata, di nuovo persa. Ma sempre risorgente in quella continua corsa a ostacoli che è la vita: “La luce che cercavo  / è quella che ho trovato mille volte”(La luce dove, vv. 1-2). Si tratta quindi di un attingimento provvisorio, di un possesso mai perenne: come tutto ciò che appartiene alla vita, come la vita stessa. E mi trova perfettamente d’accordo  l’affermazione con cui Nazario Pardini apre la sua ottima prefazione: “Verità, vita che scorre, farfalla dolorosa, memoria; e luce. Una luce che ... rappresenta l’aspirazione della condizione umana  a quel fuoco che nutre i colori ma che, al contempo, ne segna la fine”. Perché la luce e il buio come la vita e la morte sono complementari, proprio come  facce di una  stessa medaglia.                                         
Al lettore non disattento è del tutto chiara la portata metaforica della luce: che a me pare incarnare soprattutto una dimensione eletta,  certo di sapienza, forse di appagamento contemplativo che segue lo svelamento (“Portami preziosa la luce / che segna la nostra esistenza, / che ci sveli l’ebbro canto dei giorni” Fragmenta animae, vv. 16-18),  un locus amoenus dell’anima; e, insieme, una condizione che va oltre la terrenità e si colora di accenni metafisici con venature metempsicotiche (“E un giorno forse sarò un gabbiano / o forse un airone / per volare in cieli sconosciuti...” Gabbiano e airone, vv. 7-9). Quella del gabbiano è una presenza fissa che entra, insieme al mare e all’abisso,  in quasi tutte le 26 liriche della silloge. Ed è figura in cui leggo il testardo tentativo di superare gli ostacoli, la vivificante speranza, la pazienza del vivere. Il gabbiano sorvola senza troppa fatica gli “abissi atroci” (La clessidra, v. 17) per gli umani e il mare in tempesta,  e riporta al giusto metro l’immensità visiva di una piana marina, che potrebbe apparire addirittura invalicabile. E soprattutto vede dal’alto: ciò potrebbe voler significare, per il poeta, mantenere la giusta, saggia e quasi epicurea distanza tra sé e le cose,  per mantenere la loro influenza entro onesti confini e per conservare serenità di vita e di giudizio.                                         
E devo dire anche che ha il mito nel cuore Umberto Cerio: un mito che si alimenta non di sterili fantasie, ma di solida realtà, e quindi si riverbera e trova conferme nella nostra quotidianità o da questa si diparte, fino a diventare archetipo della condizione umana di sempre; un mito che trama fittamente la poesia del Nostro (che peraltro testardamente è volto alla ricerca di analogie e di risposte per giungere alla radice delle cose, cioè alla “luce” rivelatrice), rendendola ancora più compatta e unitaria e che le dà colore e calore.   Così il mito, qui,  ha sempre valore paradigmatico e, insieme, sintagmatico, giacché il poeta  intesse legami, e anzi costruisce ponti, tra l’antico e il moderno e viceversa, ben consapevole dell’immutabilità della natura umana, che trova in affetti e istinti i canali, i modi e   le forme per manifestarsi; sicché il mito abita, indifferentemente, nel passato e nel presente, vive  -in situazione di latenza-  in tutti gli uomini. Potenzialmente tutti possono incarnare un mito. In realtà solo chi ha consapevolezza di sé ne può attivare la vita, in un processo di affinamento culturale e morale, in un perseverato tentativo di migliorare se stesso e la società di cui fa parte.
Infine devo un ringraziamento pubblico all’amico Umberto Cerio che ha voluto coinvolgermi -in modo chiaro o velato- in ben tre  componimenti di questa silloge, che si connota per finissima sensibilità poetica e umana.    


Sul poemetto Antigone                               
                                                                                       
La prima emozione viene al lettore dal linguaggio, soprattutto sotto il profilo tonale: pacato, serio,intriso di pietas, segnato da echi e risonanze. Scolpito, di tanto in tanto, da settenari che frenano e quasi dominano l’onda dei sentimenti, la riducono entro i binari di una consapevolezza epico-tragica, perfusa di un pathos assolutamente corale: perché tutto il testo riporta, in fitto ideale dialogo, alla solennità dei cori delle tragedie greche, anche se invero non vi sono barriere spazio-temporali per un personaggio come quello di Antigone, drammaticamente solitario nel contesto in cui vive il suo doloroso amore di figlia e sorella, e proprio per questo indiscutibilmente attuale e proteso fino ai bordi di ogni epoca futura. 

Qui in ogni verso si coglie la partecipe e sofferta presenza dell’io poetante, che sceglie il registro del cuore profondo e vi intinge la penna.


Sul poemetto Medea

La poesia di Umberto Cerio si innerva nella classicità e vi mette radici, seguendo la corsia di marcia che dalla realtà attuale giunge fino al mito, cioè alla scaturigine della nostra civiltà e quasi della vita stessa. Insomma, dal moderno all'antico, dove Cerio cerca -e ri/trova- gli elementi essenziali e fondanti di una vicenda umana (come quella odierna) solo apparentemente evoluta, di fatti ed eventi solo apparentemente contemporanei, ma che invece stanno -immutabili- nella nostra condizione di esseri mortali. Il poeta individua con sicurezza nei miti antichi i precedenti di ogni singola avventura umana: anche per le Medee attuali che sacrificano gli affetti sull'altare di una vendetta, di un'idea, di un'opinione,di un convincimento.

Aggiungerei che, ad indicare quanto certi sentimenti siano forti e perenni nella natura umana, e quanto identici a se stessi, Cerio realizza uno scarto verbale di grande potenza ed efficacia (dal passato remoto al presente) già all'inizio del poemetto (“ Poi fuggisti ad Atene / sui cavalli alati, dono del Sole./ Corinto, radice degli avi, / già ti era straniera, nemica feroce, / e pensi alla vendetta... "). Con il passaggio al presente, la Medea del mito, ben oltre ogni corredo antico ed epico che le è intorno, incarna già la "Medea tradita di oggi". E il breve ritorno al tempo verbale del passato remoto, verso la fine della prima parte del poemetto, non fa che sancire tale situazione.


Conclusione

A Umberto Cerio, eccellente  e illustre figlio di Larino, il mio affettuoso abbraccio, un fervidissimo augurio di  felice compleanno, con tanti complimenti per il riconoscimento che in questa circostanza  un’attenta e lodevole Amministrazione  Comunale gli attribuisce. E che egli ha ben meritato per una vita di serietà, di impegno, di dedizione agli altri, di poesia.
Ad maiora, amico mio!
E grazie al prof. Mario Moccia per avermi coinvolto in questa festa.
                                                                                                Pasquale Balestriere


Nel corso della serata,  vivace e densa di spunti culturali, il prof. Umberto Cerio è parso, a seconda dei momenti, visibilmente sorpreso, felice, commosso, intervenendo, quando necessario,   per  spiegare, chiarire, puntualizzare; e ringraziando vivamente gli artefici dell’evento.

                                                                                                  Mario Moccia





4 commenti:

  1. Approdato sulla nostra Lèucade, ho trovato i soliti mari profondi e voli di gabbiani nel nostro cielo terso e pieno di colpi di luce, e la sorpresa, graditissima, di quanto accaduto il primo giugno e su riportato con ampia dovizia di particolari, presso la biblioteca della mia città, con il conferimento di un Encomio civico della Amministrazione comunale di Larino. Inutile dire che quell'attestato di stima, accompagnato da contributi critici straordinari, vale, per me, più di un premio letterario. Pertanto, nel'ordine, voglio ringraziare tutti, da chi ha avuto scritti e parole di stima nei miei confronti a tutti i presenti che ho sentito vicini a quelli che su Face Book mi hanno dimostrato amicizia, a iniziare dal prof Mario Moccia al Sindaco di Larino, avv. V.Notarangelo insieme a tutta la civica Amministrazione. Infine, e ovviamente tutt'altro che ultimi,l'incomparabile contributo critico, sul alcune mie opere, di Nazario Pardini e di Pasquale Balestriere, che da pari loro, hanno "scritto" concetti e parole di lode (non so se interamente meritata).
    Grazie veramente di cuore.

    Umberto Cerio

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  2. Infinite congratulazioni per questo importantissimo riconoscimento che corona tutta una vita dedicata allo scrivere. Non è facile essere "propheta in patria" ma chi lo diventa può dire con orgoglio insieme a Orazio "Non omnis moriar".
    Con l'augurio che questi ottanta anni non siano un punto di arrivo ma invece un punto di partenza per una stagione sempre più ricca di soddisfazioni.

    Carla Baroni

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  3. Al mio caro amico Umberto che ho avuto l'onore di conoscerlo ed apprezzarlo qui su Leucade sia come persona che come artista/poeta il mio copioso e sincero augurio per questo meritatissimo riconoscimento a coronamento dei suoi 80 anni. Di Lui, sin dall'inizio, sono stato sempre attratto dalla sua proverbiale mitezza e silenziosità e per le sue poesie belle e vere che mi hanno sempre lasciato positivamente attonito per la loro spontanea espressività quale prerogativa propria e unica. Mi associo all'auguri della Baroni perchè questi 80 anni siano un nuovo punto di partenza per altre stagioni di successi letterari in uno a quello di buona salute. Pasqualino Cinnirella

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  4. Ringrazio Carla Baroni e Pasqualino Cinnirella per le parole che mi hanno dedicato per il mio ....obiettivo di ottuagenario e per gli auguri per l'Encomio civile che l' Amministrazione comunale della mia città ha voluto dedicarmi. Per quanto riguarda, poi, la mia età prometto che scriverò ancora ed ancora. Grazie

    Umberto Cerio

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