Souvenir d'Italie, di Angelo Mancini
Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Seguo Angelo Mancini
si può dire da sempre. Conosco la sua poetica e credo di avere recensito tutte
le sue opere. Eppure questo nuovo lavoro, Souvenir
d'Italie, mi sorprende. La scia su cui naviga è quella di sempre, quella
dello smarrimento esistenziale, ma ci sono delle novità su cui vale la pena
soffermare l'attenzione. Qui si individua infatti, o meglio si chiarifica, la
ragione sociologica del disagio interiore su cui da sempre è puntato lo sguardo
dell'autore, cosicché il suo teatro dell'assurdo, di orizzonti comunque
solipsistici, diviene satira civile e finanche virulenta invettiva. Il turbamento
da sempre avvertito dall'autore di fronte a un mondo senz'anima, tutto preso
dai feticci del quotidiano, qui si fa lucidamente critico additando connivenze
e precise responsabilità di un simile stato. L'onirismo si carica di
riflessioni sociologiche che in qualche modo distanziano questo dai precedenti
lavori, facendo chiarezza sulle ragioni del conflitto interiore. In pratica, da
selvaggina, l'autore si trasforma in cacciatore e niente sfugge alla sua mira.
La struttura,
poematica, si compone di settantatre stanze dove il poeta alterna racconti
autobiografici a episodi tratti dal tran
tran quotidiano e dai costumi del tempo. All'inizio un prologo e alla fine
un epilogo ambientano il vasto orizzonte e l'intero racconto poematico all'interno
di una casa di cura, su un lettino di ospedale, dove il poeta giace in seguito a
un intervento chirurgico, dando anarchicamente la stura ai suoi pensieri
ribelli. Cita in esergo Pasolini rammentando che "il poeta è per sua
natura contro", ma chiede umilmente scusa ai lettori per questa sua natura
da bastiancontrario, dispiaciuto anche per se stesso, dal momento che ciò
accresce a dismisura la sua solitudine. Ne segue una poesia sgraziata, dodecafonica
potremmo dire, definita antilirica da
chi per "lirico" intende un componimento melico tradizionale,
classicheggiante, ma che si rivela in realtà intensamente lirica, se al termine
si dà la connotazione contemporanea che gli appartiene, di espressione di stati
emotivi squisitamente intimi.
E' vero: l'impianto
è prosastico, ossia tendente alla
prosa, ma non per questo è prosaico,
cioè privo di poeticità. L'andamento prosastico, qui, non sta a significare il
trionfo del mondo oggettivo su quello psichico. Al contrario, esso mostra la
turbolenta energia dell'inconscio, la virulenza indomabile dell'io di fronte alle
ingiurie e agli affronti dell'esteriorità. E non si pensi che il tono delirante
ed onirico sia il segno di una personalità egocentrica, chiusa in se stessa,
che non vuol piegarsi al trionfo dell'universalità, esteriormente e socialmente
intesa, come gregge degli uomini. E' vero il contrario. Universale non è il
pubblico consenso, ma è l'essenza più segreta dell'animo umano. E' a quella che
si rivolge il poeta. La sua opera non è un programma elettorale, non è un
comizio, non è uno spot pubblicitario.
Il suo sguardo è interiore, verticale, e solo di riflesso raggiunge
l'orizzontalità. La sua parola non è rivolta a tutti, ma al cuore e alla mente di
ognuno. L'opera d'arte non massifica, perché parla all'uomo dell'uomo stesso,
non dell'umanità.
Può sembrare fuori
luogo questo discorso teorico, ma invece ci conduce nel vivo dell'indignata
poetica manciniana. Egli dice: "Ora che le masse del mondo / sono davvero
masse indistinte / (come volevate, naturalmente) / ebbene vi dico: / ci sono /
ancora / pochi / veri / poeti / con tanto / sole / nel cuore / (contrari
anticonformisti / non abbastanza omologati) / ai quali tutto ciò / non sta bene
/ e contestano". Poi si rivolge agli studenti con asprezza dirompente:
"poveri sudditi / presuntuosi / servetti viziati / fiaccati dall'ozio /
dal consumo / da rozzi sballi / e stupide droghette / da discoteche /
cacofoniche". E infine, sconsolato, conclude: "un altro Pasolini /
purtroppo / non c'è... / è stato / guarda caso / eliminato". Quel Pasolini
che, a onor del vero, per gli stessi motivi contestava i rivoluzionari figli di papà del Sessantotto, quei giovani
di cui Angelo invece si dichiara nostalgico. Ma al di là di tutto, ciò che va
colto è lo struggente bisogno di universalità da cui entrambi i poeti sono
animati.
Entrambi sono delusi
dalle ideologie, programmi astratti, che nulla hanno a che fare con gli ideali sanguigni,
capaci di infiammare la vita dei singoli, costringendoli a mettere in pratica quello
in cui credono, nel piccolo delle loro azioni quotidiane. Magari bastasse porsi
sotto una bandiera e blaterare proclami per risolvere i problemi del mondo!
Bisogna vedere che uomo c'è sotto la bandiera, quanto è disposto a credere e a
soffrire. "Perciò, ragazzo, / a cosa aspiri, / tu, realmente?",
chiede Mancini, "e cosa critichi / e, magari, / offendi / se, in fondo, /
sogni / gli stessi / beni materiali / (ville auto belle donne...?) // Un po'
come certi / pseudo comunisti / "di un tempo" / indifferentemente /
operai o professori / con in bocca, / avidamente, / la magica parola /
"Capitale" / (pronunciata non per / finalità / politico-marxiane / o
marxiste / ma nel semplice senso / che aspiravano / inconsciamente /
bramosamente...? / al Capitale)". Ambiguità, ipocrisie che hanno creato e
creano danni non indifferenti.
Un mondo di vanità, un
reportage impietoso, fatto di flashes ed istantanee da cui emerge la
demenzialità del mondo. Ci sono descrizioni bibliche, da Sodoma e Gomorra, o,
se preferite, da bolgia dantesca, come nella scena dei nuovi mercanti del
tempio (stanza Cinquanta), ma perlopiù è il sarcasmo a tenere la scena. Come
laddove il poeta prende di mira coloro che si recano a tavola non per mangiare
e bere gioiosamente, ma per avere l'opportunità di sproloquiare e mettersi in
mostra davanti ai commensali. Tutto è apparenza e finzione, virtualità,
spettacolo, narcisismo, ostentazione. Si approfitta di ogni circostanza per
fare la ruota del pavone. Il terremoto, ad esempio. E' seguito in tv, in
diretta, e l'uomo che ha appena estratto il proprio bimbo dalle macerie è
costretto a mandare al diavolo la bella giornalista che vuole intervistarlo. E
che dire della quarantenne in carriera, tutta presa da viaggi e vacanze, che
confida ipocritamente all'amica di volere un figlio? Un radiogiornale di fatti
abnormi, assurdi, comici, paradossali, di fronte ai quali il poeta amareggiato
finisce per rivolgersi umilmente verso il cielo.
Nella settantesima
stanza la confusione regna sovrana. C'è tutto e il contrario di tutto. Atmosfere
kafkiane. Le cose appaiono in un modo, ma anche nel modo contrario: dipende dal
punto di vista. Nessun riferimento sicuro, tutto è vero e tutto è falso. Una
babilonia, un caos, ed è la maledizione della nobile stirpe di Adamo. Poi,
nella settantunesima stanza, un'improvvisa invocazione: "Vi supplico /
datemi / il silenzio". E forse il bandolo della matassa è davvero trovato.
Ecco infatti, nella stanza successiva, farsi strada finalmente, come miraggio,
una visione di pace: "i picchi ancora nevosi / s'indorano di luce / le
corolle dei fiori fremono / al bacio del sole nascente // stormire tenue di
foglie / dai rami che baciano il cielo / e nell'aria si estende celeste / il
mistero della vita". Una parentesi che subito sfuma nella settantatreesima
stanza, dove nell'incanto fatato delle Marmore s'impone la fetida presenza di
una latrina pubblica, il cui custode, grugnando come un maiale, è impegnato a
divorare una succulenta pasta e fagioli.
Ed ecco la nausea, comunque
salvifica: "in un attimo prezioso ed eterno, / ho sentito, nell'anima, /
tutta la nostra umana / miseria / e un folle desiderio / di perdermi nella
natura". Bisogno di autenticità, di semplicità, di verità. Che ce ne
facciamo dei milioni di amici virtuali su facebook,
se nessuno di loro è disposto ad aiutarci concretamente quando siamo in
difficoltà? Coltivare il silenzio è l'unico antidoto contro il veleno ipocrita
e ciarliero del mondo. Ma - voi mi direte - come può amare il silenzio un
poeta, proprio lui che fa della parola il suo credo? Ebbene, il poeta crede
nella parola creativa, nella parola che nasce dal silenzio, nella parola viva
che non nasce dalla parola stessa, in quel linguaggio autoreferenziale caro ai
saccenti che si ripete e si complica all'infinito, perdendo sempre più smalto e
mordente, fino ad implodere in quel corto circuito apocalittico profetizzato da
Marcel Foucault. Il silenzio, invece, l'azzeramento del linguaggio resta
l'unica garanzia di prosecuzione e di rinnovamento del linguaggio stesso e
della cultura, della civiltà.
Franco Campegiani
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