giovedì 21 febbraio 2019

MICHELE MIANO: PREFAZIONE A "I DINTORNI DELLA SOLITUDINE" DI N. PARDINI


PREFAZIONE

Nazario Pardini. I dintorni della solitudine.
Guido Miano Editore. 2019

Nazario Pardini ha al suo attivo molte  raccolte di poesia. È un personaggio, noto, da decenni nel campo della scrittura. Sulla sua produzione hanno scritto  i più qualificati critici letterari. Alla sua poesia sono state applicate varie chiavi interpretative, dalla motivazione esistenzialistica a quella psicanalitica alla religiosa a quella naturalistica. Ad essa egli perviene in maniera quasi inconscia, o meglio, sulla scorta di un cammino empirico, di sofferenze vissute e ben radicate nel quotidiano.
Il suo pensiero non conosce la freddezza dell’astrazione filosofica. È piuttosto un’analisi che scandaglia gli abissi della coscienza, una sorta di speleologia dell’anima che procede per constatazioni. Un narrare per sottrazione, incarnato in una lingua nuda e spinosa, che mira allo svuotamento e alla esasperazione delle forme implicite nella realtà. Un’essenzialità ascetica anima il lessico di Nazario Pardini, quasi retaggio atavico della sua terra  di Toscana come nella lirica La solitudine del mare: “Sono solo e l’inverno mi percuote / coi suoi venti freddi e burrascosi” o nella lirica E venne sera: “La luce crepitante dell’estate / invadeva la piana, delle reste / il giallo profumato d’erba stanca.” O nella lirica Vis à vis con la sorte:  “Sono troppi i ricordi. / D’altro lato / non è che il vento li possa disperdere / come fossero foglie”.
Irrompono gioiose esplosioni di eventi naturali… “Erano vive le stagioni / dei biondi girasoli” (È arrivato l’autunno),  così  la sua poesia è percorsa da accecanti apparizioni che squarciano la monocromia dell’angoscia in violenti chiaroscuri. È lo spazio per così dire lirico di un percorso intellettuale non circoscrivibile in un orizzonte destrutturante “Verranno giorni neri e dovrai scendere / dal limbo in cui accedesti / per riposare i sogni; la tua isola / sarà deserta senza gli abbandoni / che ti resero uccello migratore.” (Verranno giorni neri).
Sarebbe fuorviante definire Pardini mistico dell’essenza, perché si verrebbe  inevitabilmente ad intaccare quella razionalità di pensiero e quella misura che caratterizzano il suo fare poesia. Eppure non gli sfugge il senso della sproporzione essenziale dell’uomo, la macerazione spirituale che deriva dalla consapevolezza di essere un frammento sospeso nel vuoto del tempo ma anche di rappresentare qualcosa di unico grazie al pensiero. La natura così ritorna e riecheggia spesso sovrana e con lei i vecchi sopravvissuti di un tempo non alienato e non urbanizzato in cui “La luce crepitante dell’estate / invadeva la piana, delle reste / il giallo profumato d’erba stanca. / Sortivano i rumori dalle scaglie / di sterpaglie corrose.” (Venne sera). 
Ritorna anche l’infanzia dei ricordi come nella poesia In una immensità che ti rapina: “Lasciatemi almeno le memorie / di questo sacro fiume; il verde canto / delle acque moriture; il fluire /  delle immagini fioche di stagioni / che si affidavano a un guado indagatore / di sponde misteriose”, come il microcosmo di valori che incarna, tenace nel suo perpetuarsi tra padre e figlio, la metafora della speranza sempre presente nell’uomo. Si leggano i versi della struggente poesia Disatteso: “Disatteso mi è apparso questa notte / il campo di mio padre. Una vigna. / Sicuramente in sogno. Lui che sfrasca / ed io che apro, di ritorno da scuola, / le braccia al genitore”.
Ma sono la speranza e l’amore i cardini della poesia di Nazario Pardini: infatti anche davanti allo spettro della morte il poeta trova sempre l’urlo della rivincita. Egli vive in ogni uomo e dell’uomo scruta la trasparente caducità e per questo il poeta esalta le cose più semplici. Per lui è essenziale fermare il tempo ma anche penetrare nella mobilità mentale dell’uomo per scoprirne i disagi e la parte più creativa della sua odissea, per potere poi cogliere quegli aspetti che spesso sfuggono anche all’osservazione più attenta. “Ti posso solo dire dell’inquieto / mio essere. Del suo bramare invano; / del suo microscopico restare / davanti a un mondo che non ha ragione / di essere tanto immenso e così estraneo / al pensiero di un uomo troppo umano.” (Non chiedermi). Il messaggio della poesia deve contenere i valori più intimi della vita e dell’esperienza umana. Per questo il poeta trascende con i propri versi la realtà e nella meditazione e nella densità dei concetti egli vive la propria odissea di uomo, di cronista della propria storia ma anche di quella degli altri, che vede compagni di un viaggio senza ritorno. Proprio per questo Pardini avverte nella sua libertà una simbologia che costruisce i caratteri esteriori dell’essere, così soffocato da un dinamismo moderno senza precedenti.
Il suo non è un canto illusorio, poiché sogno, realtà ed illusione si fondono con la sua identità presente e pienamente raggiunta con il pensiero e con l’azione. Si legga la lirica La poesia si scrive: “… non pensare / alla miseria umana, al suo degrado, / fingi che quel momento sia per sempre. / È l’unico sistema per fregare / lo scettro imperituro della sorte.”
La poesia di Pardini rivela anche la preoccupazione per quanto della vita rimane, di ciò che egli ha vissuto e sofferto nell’iter terreno e comprende che soltanto l’opera del pensiero individuale può continuare a vivere dopo l’annullamento fisico. Pardini enuclea con disinvoltura la bellezza della stessa creazione nella quale s’immerge per raccoglierne i frutti della chiara odissea di uomo ma anche di spirito libero. Meditazione, recupero, densità dei concetti, abilità evocativa e psicologica del profondo sono le componenti essenziali della sua ispirazione, specchio di un’anima non inquinata, dotata com’è della capacità di comprendere e di cercare nell’uomo ciò che spesso sfugge alla maggior parte di chi affronta una ricerca tesa a rilevare le problematiche esistenziali che in ogni tempo lo hanno condizionato. Il recupero di questi valori dell’anima e del pensiero affiorano nei suoi versi, e se vede nel passato qualcosa che non può essere rivissuto e ne potenzia la carica trascendentale: il vissuto è qualcosa che non va perduto e il suo valore resta immutato; si evidenzia in una densità di concetti che il poeta riesce a farci rivivere sia metaforicamente che liricamente, in una concezione in cui l’uomo nulla di nuovo ha da scoprire di sé  se non il limite di sé stesso.
Ed è forse qui che il poeta rispecchia la sua amarezza: avverte la sottile presenza non della morte fisica ma dell’essenza dell’intelligenza umana che si perde nell’infinito cosmico, in questo ritrova se stesso e l’amarezza di non poter creare, di non potere sentire ed esprimere quella poesia del suo stesso pensiero che lo porta a vibrare all’unisono con la totalità umana. “Ci sono cose molto più feconde / a riempire il fondo della sacca: / il dolore di un figlio che ti lascia, / l’inquietudine che provi nella vita, / la gioia per un mondo ritrovato, / il senso di una noia che ti assedia, / lo smarrimento in cieli senza fine.” (L’ incendio dei papaveri, I).
Se la musicalità del verso e il fluire delle immagini sono le componenti più significative, è necessario aggiungere che sulla via della chiarificazione interiore e della conquista spirituale, il poeta non è mai solo; va oltre la suggestione crepuscolare nonostante alcune liriche appaiono il riflesso amaro della meditazione sull’esistenza, soprattutto sulla morte, contro la quale alza la bandiera della stessa poesia piena di vita e amore. E il tema del ricordo non è mai fine a se stesso ma è strumento per accedere a una sorta di dominio ancestrale della terra, in una componente solare. Il ricordo del padre e della madre diventano così indicazione di un nuovo percorso da raggiungere: “… forse non era luce, / forse non era / quella che io bramavo, / ma pur sempre la luce, quella chiara, / quella di casa mia.  / Chi dice che non fosse / quella che io cercavo.” (Verso la luce). La vera strada del ritorno, che è poi l’essenza pura del nostro vivere.

Michele Miano



  DAL TESTO



Verso la luce


Cercavo la luce. Camminavo,
e camminavo sempre, e camminavo,
per monti valli e fiumi. Per campagne,
per boschi. Mi infilavo tra i rovi e
le  sterpaglie: il mio corpo sanguinava:
ogni parte: le mani, le ginocchia,
il viso, e le speranze. Quando fuori
da tanta solitudine, mi apparve
un filo di chiarore per condurmi
al flebile messaggio: “Eccomi giunto,
sono oramai vicino”.
Ma un muro della tenebra più nera
affiancò il mio impavido viaggio.
Aprii un grande squarcio
tra il folto divorare di ogni tratto.
È lì che mi prostrai dinanzi al cielo,
che chiesi a quelle nubi di svanire
e indicarmi la strada della luce.
Apparve mio fratello poi mio padre,
l’uno col volto carico di gioia,
l’altro col volto sorridente e pio.
In coro di sussurri mi si volsero
ricordandomi percorsi ormai smarriti
nel tempo divorati dalle brume:
“Devi ricostruire la tua vita,
devi portare a galla le  memorie
di quando assieme stemmo sulla terra
ad imbastire giochi di speranza,
a ribellarci a squallide presenze
uniti nel vessillo dell’amore.
Continua il tuo cammino rafforzando
con i ricordi il resto della vita.”.
C’era dinanzi a me uno stradone,
che mi portava dritto a un  focolare
di una casa stretta di campagna
che conteneva tutte le mie cure.
Lo presi svelto con un nuovo ardore.
A metà via vidi che mia madre
mi attendeva come ai tempi andati
con in mano le vesti fresche e nuove
da porgermi al ritorno dalla scuola.
Poi incontrai un amico un po’ velato
che mi portò sul fiume ove fissammo
un patto d’amicizia: “Caro amico,
dammi una mano a ritrovare ancóra
le parole che usammo in quella sponda.”.
“Io posso solamente ritornare,
-questo mi è dato- sulla riva del fiume,
per squarciare la tenebra invernale
e riportarti un’ora a primavera.
Devi trovare poi con le tue forze
il modo di vincere quel muro
che ti impedisce di vedere chiaro.
Ricordati di me, dell’amicizia,
ricordati del volto di tuo padre,
della grandezza umana del fratello,
della bontà decisa di tua madre.
Ricordati di un giorno della vita,
di quello che ritieni il più importante.
Fanne tesoro! Da lì potrai partire
per i giardini in fiore del prosieguo,
luogo dove risplende un gran lucore
e dove non c’è posto per la  notte.”.

Mi lasciarono solo quelle immagini,
e da solo dovetti ripartire
di nuovo sperduto nei meandri
di una selva intrecciata di legami
alborei, di liane tanto spesse
da affogare ogni altra inflorescenza.
Mi apparve poi un varco in mezzo ai rami,
ed ascoltai un fragore di cascata:
là corsi a perdi fiato; uno scrosciare
mi si aprì di sorgente fragoroso
in mezzo a piante vigorose e verdi
che tenevano in seno  uccelli a branchi
dai piumaggi più vari. Un’aria fresca
di piccole molecole cosparsa
mi ripuliva il volto dalle scorie
che avevo accumulate nel tragitto.
Che bella vista! Che gioia ritrovare
una natura schietta, all’apparenza
simile a quella che tanti anni prima
avevo amata come mia sorella.
Corsi di getto sotto quell’azzurro
che confondeva il cielo. Mi saziai,
ne bevvi a dismisura, mi  bagnai
anima e corpo in quella  fioritura
di bellezze supreme. In mezzo alle acque
c’erano fiori gialli, bianchi, verdi,
di ogni levatura a profumare
l’innocenza primordiale di quel luogo.
Ritornò il sole, l’aria si fece larga,
gli uccelli fendevano il sereno,
i profumi inebrianti mi portavano
a rivivere sogni mai sognati,
a rivivere ancora. Ma ero vivo,
o dentro me costruivo una coscienza
che non aveva a che f are col reale?
Fu là che dal bel mezzo della selva
uscì una fanciulla nuda e bella,
dai riccioli cadenti giù sul dosso;
mi si posò dinanzi e sorridente
parlò come una ninfa che si leva
dal mare di Zacinto per contorno
alla cipride dea: “Tu non puoi,
umano fra gli umani, stare qui
a gioire delle bellezze eterne
che Natura dispensa a larghe mani.
Continua il tuo cammino, altra selva
ti aspetta ed altre notti da cornice
alle tue brame. Quello che vedi è fumo,
è solamente parte di un tuo sogno
che speri realizzarsi. Io sono Silva  
la dea della purezza, la dea eterna
che vive in mezzo ai boschi ormai lontana
dalle vicende tue. Sono protetta 
da fiumi e getti d’acqua che gli umani
mai potranno più vivere. È strano
che tu ti sia imbattuto in questo luogo
lontano dalle grinfie dei terrestri.
“Ma io ho già solcato boschi e selve,
ricuperato ho già le mie memorie,
ho di nuovo incontrato padre e madre,
le amicizie; e son loro che mi dissero
di percorrere la  via dell’amore,
quella dell’amicizia, quella dei
tempi sacri, in cui era ambizione
vivere con te e con te morire.”.
D’un tratto Silva si dissolse in aria,
sparirono i bei frutti all’orizzonte,
come i getti sparirono nell’ombra,
come i fiori cessarono il profumo
che attorno lievitava. Restai vano;
senza ancoraggio, senza alcun principio.
Udii solo una voce: “Torna a noi,
non puoi godere di una luce astratta            
che non fa parte del tuo credo antico.
Torna ai tuoi passi. Prendi quella via
che ti riporta in seno al tuo reale,
intero, con le tue memorie, e i canti
che più volte hai scritti con i crucci
che sono di un mortale. Porta il peso
di un uomo che ha tradito, che ha vissuto
il male del presente. Ripartendo da lì,           
dalla vita concreta, dai dolori del mondo,
potrai incontrare Silva, la bellezza,
potrai aspirare al tutto; all’innocenza;
per ora godi il tempo di un traguardo
che ti rivede a casa, a casa tua,
con la tua vita e tutte le radici
di quelli che ti dettero una storia.
Ma lotta, continua e ricercare
quella luce che offende l’ignoranza
e dà la gioia a quelli che l’ambiscono.”.

Eccolo il mio ritorno. Fu di sera,
quando il sole pungeva l’orizzonte,
quando il mare fremeva di bonaccia,
quando l’aria si volgeva al tardi;
non era quella la luce che cercavo.  
Ma quando scorsi i tratti  del mio fiume,
la casa stretta delle mie memorie,
e i prati sanguinosi della sera,
forse non era luce,
forse non era
quella che io bramavo,
ma pur sempre la luce, quella chiara,
quella di casa mia. 
Chi dice che non fosse
quella che io cercavo.

24/09/2018
  
 (...)

























3 commenti:

  1. Quanta ricchezza di poesia si riversa nei nostri occhi, e quanta luce ci giunge fin dentro al cuore. Questa nuova raccolta di poesie di Pardini si presenta come un sole che illumina l'isola di Leucade e noi con lei.
    La poesia qui riportata Verso la luce ci suggerisce come valutare la nostra vita, ci offre un chiave di interpretazione degli eventi che hanno segnato il nostro percorso, leggere questi ricordi e le persone care, le quali ci danno la forza per affrontare le sfide del presente e guardare al futuro colmi di speranza. Forse tutto serve per farci capire l'importanza del quotidiano, della luce che abbiamo nelle nostre case e dentro di noi, di cui spesso non ci accorgiamo perché troppo presi dalle novità lontane.
    É altresì pregevole la prefazione di Michele Miano, che mette bene in luce la ricchezza di stile e profondità di questo nostro grande Poeta, incitandoci con eleganza ad immergerci nel mare poetico di Pardini e navigare tra le sue poesie per saziare la nostra sete di bellezza.
    Complimenti all'editore Miano per questa prestigiosa pubblicazione e al nostro amato autore per il prezioso tassello alla poesia contemporanea.
    Un caro saluto

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  2. Michele Miano ha introdotto l'Opera dell'immenso Nazario con tale efficacia che ci ha permesso di vedere le immagini, di viverle. E Francesco Casuscelli nel suo superbo commento gli ha reso un altro ottimo tributo. Povere possono essere le mie parole, ma di fronte a versi di tale levatura è difficile tacere. L'Autore nella lirica pubblicata, che credo vada definita un Poemetto,dona un cammino visionario e splendente di immagini. Il Poeta evoca un canto dantesco nel suo viaggio tra i momenti dell'esistenza per tendere ad arco verso la luce. D'altronde nei grandi crepita spesso l'onda di luce ampia, romantica, esistenzialista, che rammenta i nostri classici, ma sa rinnovarsi e divenire nuova incarnazione del lirismo.
    "“Ma io ho già solcato boschi e selve,
    ricuperato ho già le mie memorie,
    ho di nuovo incontrato padre e madre,
    le amicizie; e son loro che mi dissero
    di percorrere la via dell’amore"
    Versi simili sono il dettato di un'anima pura, che nessun evento ha saputo scalfire, di un'anima che ha attraversato le intemperie della vita conservando la sacralità dei sogni ricevuti in dote. Nazario stupisce e stordisce. Insegna a credere, a non perdere mai i riferimenti importanti, i valori, i ricordi, gli incontri... E scrive con levità e trasparenza, dando al metro classico il compito di interpretare il suo dire. La metrica, docile, diviene strumento di altissima, moderna Poesia e rapisce.
    Una pagina di Letteratura indimenticabile. Ringrazio tutti e mi scuso per l'intrusione...
    Maria Rizzi

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  3. "Cercavo la luce. Camminavo,
    e camminavo sempre, e camminavo…"

    Significativo, emblematico, folgorante l’incipit della lirica “Verso la luce”. Cos’è la nostra vita se non un cammino verso la luce? Un cammino difficile, arduo, che ci porta ad affronatre boschi tenebrosi, boscaglie, rovi che ci feriscono e ci fanno sanguinare? E chi guida i nostri passi e ci aiuta ad "aprire squarci" nel "muro della tenebra più nera"? Ma i nostri cari, ovviamente, coloro che ci hanno preceduto in quel mondo di luce assoluta da dove ci indicano con amore immortale la strada! Quanta sorpredente verità in questi versi! Non è forse ai nostri cari defunti che ci rivolgiamo nei momenti più difficili della nostra vita? Non prendiamo forse forza ed enegie dal ricordo dei bei momenti vissuti con loro? E talvolta, bramando la luce, il riposo, la pienezza dell’eternità, non ci accade forse di evadere dalla vita smarrendoci in qualche sogno? Ma non è quella la luce che cerchiamo e che dobbiamo raggiungere. Ce lo ricorda il Poeta
    "non puoi godere di una luce astratta
    che non fa parte del tuo credo antico.
    Torna ai tuoi passi. Prendi quella via
    che ti riporta in seno al tuo reale."

    Si, è così! Solo vivendo pienamente il nostro quotidiano il "male del presente, la vita concreta, i dolori del mondo", "lottando, continuando e ricercando" possiamo ambire alla luce vera. E dove avviene questa ricerca se non nel nostro mondo, nella nostra quotidianità, nella "casa stretta" delle nostre "memorie"? E non è forse la luce chiara della nostra casa, faro nelle notti tenebrose della vita che cerchiamo? Lì dove ci rifugiamo e ci ritempriamo?
    Quale potenza comunicativa questa splendida allegoria che si avvale della cromia di immagini che ci ricordano i più bei dipinti degli impressionisti!
    Che modo forte e dolce insieme per trasmetterci un messaggio universale: non serve rifugiarsi nei sogni. E’ solo vivendo la nostra quotidianità, con le sue insidie e i suoi dolori, che raggiungeremo la luce a cui ambiamo.
    E si conferma Poeta della speranza e dell’amore, Nazario Pardini, come ha evidenziato Michele Miano nella profonda ed esaustiva prefazione, di quell’amore che sente prepotente verso il prossimo e verso quella Natura che è tanta parte dei suoi versi.
    Grazie ancora, Nazario, per quello che mirabilmente ci insegni !
    Ester Cecere

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