ADRIANA
PEDICINI
DIARIO
SEMISERIO DI UNA QUARANTENA
SEMISERIO DI UNA QUARANTENA
Nessuno immaginava che saremmo stati chiusi in
casa per quaranta giorni, si fa per dire, perché i giorni sono stati molti di
più da quando, per uno scherzo di Carnevale, il Carnevale non aveva potuto
essere celebrato con i tradizionali riti e i carri allegorici, e le gigantesche
maschere di cartapesta, avevano fatto mesto ritorno negli scantinati.
Noi almeno stavamo a casa. Altri, purtroppo,
già nei letti d’ospedale a combattere una battaglia difficilissima e lunga. Né
si immaginava quale esorbitante ondata di umani avrebbe invaso di lì a poco i
luoghi deputati alle cure
Non sapevo come avrei affrontato il disagio di
questa imprevedibile, ma rigorosa e necessaria prescrizione.
Ero un tipo a cui il tetto della casa sembrava
gli piombasse addosso, o forse il fatto che il palazzo, pur distinto e
signorile, era ubicato come nelle strettoie dei borghi medioevali, tra la strada,
su cui insisteva di fronte un altro palazzo, e un campo di terra battuta su cui
erano posizionate due tendostrutture per il tennis indoor e due campi per gli
allenamenti outdoor, aumentava il senso di oppressione.
Naturale una sorta di claustrofobia che mi
spingeva ad essere quanto più possibile fuori casa. Andavo in palestra, alla
lezione di ballo, con molto piacere, un po’ meno a fare la spesa o a svolgere
altre commissioni. E poi le passeggiate con mio marito per il Corso quando
avevo voglia di incontrare gente, o lungo la pista ciclabile se ero in vena di
praticare un vero e proprio allenamento.
E poi l’impegno associativo, che mi dava
l’adrenalina giusta per impiegare con fervore le mie giornate a organizzare gli
eventi culturali o ricreativi.
E lui, il mio compagno di vita, era contento di
tutto ciò. Cioè, non avendo alcun motivo di dubitare di me, gioiva se io
uscivo, non tanto per liberarsi di me sic et simpliciter, quanto perché il
sapermi piacevolmente impegnata, gli consentiva di raggiungere quella sorta di
atarassia che invece, avendo me tra i piedi, non gli sarebbe stata possibile,
perché riluttante a essere coinvolto in conversazioni non di suo interesse.
Come avremmo fatto ora con la quarantena,
costretti a stare in casa h. 24?
Prima della quarantena, la casa dove abitavamo
con i figli, andati via essi, sembrava piccola per dare spazio ai nostri
sguardi, per prendere fiato a pieni polmoni perché, ad ogni passo, ci
ritrovavamo di fronte per entrare o uscire dall’uno all’altro ambiente, e non
di rado si creava qualche ingorgo con l’inevitabile balletto dovuto
all’incertezza dove si muovesse ciascuno di noi due, se a destra o a sinistra.
Non erano rare le volte in cui ci dicevamo che la presenza dell’uno era
ingombrante per l’altra e viceversa, ovviamente con una punta di ironia.
Ecco perché letteralmente fuggivo da casa
appena potevo, sicura che, comunque, lui era in casa ad aspettarmi. Non sapeva
stare senza di me. Ma neppure voleva seguirmi nei miei impegni, per così dire,
sociali. Del resto non avevo bisogno, per mille motivi facilmente intuibili, di
portare con me il marito come un trofeo alla cui luce illuminarmi, grazie al
quale difendermi. Per l’una e l’altra cosa sapevo fare da sola, e non per
sminuire lui, sia ben chiaro.
Tuttavia il problema esisteva e grande pure.
Come avremmo fatto durante la quarantena a sopportarci in casa?
È vero, si dice che l’uomo è un animale di
abitudine e gli bastano ventuno giorni per assumere nuove abitudini. Ok, ma si
trattava pur sempre di quaranta giorni di rodaggio di convivenza in modalità “io
resto a casa”.
Fu quasi istintivo far finta di nulla. E
procedere come al solito.
Una volta svegli, io a letto ad attendere il
caffè mentre mi aggiorno con i tg di tutte le reti affinché nessun particolare
mi sfugga. E lui in cucina a preparare il caffè, doverosamente con la moka,
perché le tanto acclamate moderne capsule di caffè per le macchine elettriche,
a prescindere se sia vero o no che rilasciano plastica, non sono in grado di
preparare un caffè buono e aromatico come fa la moka, soprattutto pensando che
sono solita sorbirlo non zuccherato e allora, se non è buono. che gusto c’è a
bere una tazzina di caffè?
Quindi relax ancora per un po’ a letto e poi
via di corsa a fare qualche esercizio di ginnastica adattando sedie e tavoli a
mo’ di attrezzi, niente di diverso, nello spirito immaginifico, dai fantastici
cavallucci che da bambini eravamo soliti cavalcare con sedie e scope.
Lui, intanto, fatte le sue abluzioni, mi
attende in cucina, dove, dopo aver fatto la doccia per non perdere l’abitudine
alla cura della persona, mi reco a fare colazione con lui.
Mi vede ben pettinata, vestita, talvolta anche
col rossetto sulle labbra, e mi chiede puntualmente: Ma vuoi uscire? sgranando
gli occhi nel timore di ricevere una risposta affermativa.
“No, che dici, sono venuta a fare colazione con
te, e voglio presentarmi decente”.
“Ah, ok…vuoi il tè, il succo di frutta, la
spremuta d’arancia, la banana? E le fette biscottate le vuoi? Marmellata di
mirtilli o di arancia amara?”.
Giuro, mi prende lo sgomento, perché lui è
così, ti travolge con la sua generosità, ma mi toglie anche il respiro, anzi la
possibilità di scelta perché se dico: “Ma ti sembra che io sia sciupata? Non ti
sembra di esagerare?”, lascia tutto in asse e mi redarguisce: “Fa’ quello che
ti pare”. Allora per non infrangere l’idillio…grazie di qua e grazie di là. E
mangio, mangio, mangio fino al punto che dopo mi viene da piangere per essere
stata debole e non aver scelto oculatamente una colazione sana per quantità e
tipologia di alimenti.
Ma tant’è, siamo in quarantena e la psiche mia
e sua cercano puntelli.
E sul cibo si trovano sempre quelli adatti e
piacevoli.
Difatti dopo colazione il briefing: che
mangiamo oggi?
Se dipendesse solo da lui stilerebbe un
rigoroso piano settimanale di pietanze da cucinare, ma io sono solita rompergli
le uova nel paniere, perché non mi piace il solito, voglio esperienze nuove da
provare, perché non m’interessa il mangiare fine a se stesso, ma lo ritengo un
mezzo per traghettare la noia e arrivare alla sponda della rilassatezza. Il
cibo mette sempre d’accordo corpo e mente. I colori, le mescolanze, gli odori
sono elementi essenziali del cibo e c’è bisogno, secondo me, anche delle
lusinghe della scoperta, della novità. Dopo aver vagato nei campi elisi della
fantasia con tanto di ricette di Giallo zafferano e simili reperite sullo
smartphone, torniamo alla prosaica scelta di sempre: pasta o legumi? Legumi o
verdura?
Quando ci riesco, cerco di sfuggire alle sue
scelte per dissociarmi da pietanze troppo condite, con troppo sale per i miei
gusti, ma se colgo sul suo viso la delusione per piatti separati, allora cedo e
mi dichiaro felice della sua scelta. Anche perché tanto cucina lui.
Eh, sì, dopo quaranta anni di onorata carriera
come multitasking, ho ceduto le armi, felice di un suo ritrovato interesse, una
volta deposti quelli legati alla sua professione.
Gli è bastato poco per appassionarsi alla
cucina, anche se mi chiama mille volte per chiedere consigli sui particolari che
meglio arricchiscono le varie ricette, per poi disattenderli e fare di testa
sua.
Dunque, tra la colazione e il pranzo, c’è un
lasso di tempo che la quarantena ha preteso di colmare, pena il senso di
frustrazione e di vuoto.
Cosa fare di meglio se non leggere e scrivere?
Per la verità la lettura, almeno nei primi tempi è stata lettura di bollettini,
articoli di giornali, riviste, pubblicazioni sui social di tutto ciò che fosse
attinente all’epidemia prima, alla pandemia dopo, e ogni volta un ricevere lumi
da questo o quello scienziato per poi rimanere delusa dalle lotte fratricide
comminateci dalla tv tra gli stessi, un offendersi a vicenda, un accusarsi
reciproco, chiamare in causa le Miss Italia alla cui anticamente comprovata
incompetenza su qualsiasi argomento assimilare questo o quel luminare.
E va bene che ci sono i lavori domestici da svolgere.
Ma di questo ci siamo occupati abbondantemente nei primi giorni della
quarantena, pulendo, riordinando fin negli angoli più riposti. Abbiamo smontato
cristalliere, tirato fuori i bicchieri notoriamente fragili e mai usati,
svuotato cassetti, passato in rassegna gli abiti nell’armadio, occasione buona
per smaltire quelli che “forse se dimagrisco, mi vanno bene”, conservandoli di
anno in anno, di decennio in decennio ma mai più indossati.
Eh, sì perché la qualità di una volta non si
trova più…per la verità neppure i modelli sono gli stessi.
Spalle strettissime o rialzate con le spalline
doppissime, pantaloni senza garbo alcuno, magliette da scolarette in colori
improbabili, benché marcate Fontana o Luisa Spagnoli, dichiaravano tutta l’età
di chi le aveva indossate un tempo. Risultato: un enorme sacco di plastica
nascosto dietro la porta, in attesa di depositarlo nei cassonetti gialli della
raccolta quando sarà permesso. Ora non si può.
Dunque, la casa è stata sottoposta alle pulizie
primaverili, poi a quelle pasquali e forse, anticipatamente, anche a quelle di
piena estate.
Confesso che non sono stata attratta dalle foto
poste sui social di pizze variopinte, di casatielli vari, di pastiere pasquali,
di primi piatti tutti rigorosamente preparati con acqua e farina impastate né
tanto meno ho preparato pane, panini, ciambelle e taralli. Un rifiuto totale di
impasticciare. E dire che sono anche golosa ed estimatrice dell’handemade, ma
sono troppo pigra per cimentarmi in tali prove. Però provo orgoglio legittimo
per interposta persona, e cioè mia nipote di 10 anni, che, con caparbietà che
ricorda la mia quando sono caparbia, ha prodotto baguette, cornetti e biscotti
gocciole da sola, senza l’aiuta della mamma, e per di più alle dieci di sera
mentre i suoi seguivano i programmi alla tv. Bravissima davvero. Ne hanno
mangiato con soddisfazione.
Dunque, rientrata nella routine quotidiana la
pulizia ordinaria della casa e della persona, presa la decisione circa il
pranzo da preparare, mi aspetta la sedia nello studio di mio marito, dove mi
sono rifugiata, non sostenendo più il senso di vuoto e di solitudine che
avvertivo lavorando al pc nel mio studiolo. Vero, ho dovuto abbandonare le
orchidee sistemate sul davanzale interno della finestra che accarezzavano il
mio sguardo. Non si sono offese, visto che l’altro giorno una di esse ha
prodotto una bellissima orchidea viola, il mio colore preferito.
Il pranzo è un rito, che poi proprio pranzo non
lo si può chiamare, dato che consumiamo solo una pietanza. Il coprifuoco è tra
le 12 e 12:30.
In ogni caso è un momento rilassante. Lui si
bea delle sue paste e legumi o delle sue verdure variamente preparate, io della
mia pasta, a giorni alterni, al pesto, al sugo, al burro oppure del mio riso in
bianco con evo crudo e parmigiano.
Ciò che mi gusta di più, a conclusione del
pasto, è una grossa arancia tagliata a pezzetti condita con olio che rimanda
forse ai gusti mediterranei di cui condivido l’amore per l’agrodolce e per il
miele.
Il pomeriggio è un lago, anzi un oceano in cui
mi piace navigare con relax e con tanta voglia di creatività. Sarà per
questioni bioritmiche ma il pomeriggio mi è parso sempre più rilassante che non
le fervide ore mattutine.
Godo di più la casa, le mie attività di
predilezione, le chiacchierate a telefono con mia sorella Tetta soprattutto.
Ogni giorno, dopo la siesta post prandiale, i
nostri cellulari s’infervorano per gli aggiornamenti circa il covid 19, sui
nostri figli e nipoti, ci soffermiamo sul “si stava meglio quando si stava
peggio”, sui progetti che non potranno avere proiezioni superiori alle h.24,
sui rischi e le possibilità per noi over di raggiungere la casa dei figli,
sulle distanze da rispettare e sulla necessità forse di avere sempre un metro a
portata di mano per effettuare le misure. Ovviamente è uno scherzo, perché
anche l’occhio si abituerà a misurare. Rimane la delusione di non poter
abbracciare figli e nipoti. Ma se farlo comporta il rischio per la salute, va
bene, ce ne faremo una ragione.
Dunque i
pomeriggi di questa quarantena ha visto sorgere, su mio input, un gruppo di “scrivane”,
tutte amiche e tutte appartenenti all’associazione di cui mi onoro di essere
presidente, l’Università della terza età di Benevento.
L’invito, accolto con entusiasmo da tutte, è
stato essenzialmente un invito a tener impegnata la mente, soprattutto per noi
abituate al lavoro scolastico e quindi a essere concentrate nell’attività del
leggere, scrivere, pensare, correggere, meditare, rettificare, ricostruire,
valutare.
Insomma un’attività che, in questa quarantena,
mirasse al migliorare i nostri giorni di clausura con quello che ci riesce
meglio.
Chiaramente ci siamo inventate una storia che,
a partire da un primo scritto, si è sviluppata con l’apporto indipendente di
ciascuno di noi, salvo poi, come succede per ogni scrittura, tagliare,
spostare, collegare, rifinire e soprattutto amalgamare dal punto di vista dello
stile tutto il materiale prodotto. Operazione non semplice, per le
caratteristiche stilistiche di ognuna di noi, che mi sono accollata con senso
del dovere e con massimo scrupolo. Si è aggiunto poi al gruppo, per un fortuito
caso, anche un giovane liceale che di buon grado ha accettato di ritagliarsi
una sua porzione di scrittura.
A circa dieci giorni dal termine della
quarantena, secondo le ultime dichiarazioni governative, il romanzo è
terminato; si tratta ora di completare l’operazione di rifinitura e di
amalgama. Ma ce la faremo.
Sicché l’angoscia, più che la noia, è stata
fugata in modo creativo. Che poi il nostro romanzo non valga una cippa, non fa
niente. Il fine giustifica i mezzi, o meglio la meta è nel viaggio.
A quest’ora del giorno, sono quasi le 14,
aspetto che il sole arrivi sul balcone dello studio a illuminare i fiori che
sono davvero splendidi, colorati delle tonalità che amo, il viola, l’arancione,
il rosso, il giallo con le primule resistentissime, la camelia, le robuste rose
e roselline, la dipladenia con la cascata di fiori, l’ibisco, il giacinto che
da solo spande il profumo degno di quel che si dice che emani Padre Pio ai suoi
protetti. L’animo si ricrea a guardare questo piccolo ma meraviglioso
spettacolo della natura, e il mio corpo si crogiola ai caldi raggi del sole beneficiandosene
la vitamina D, che alla mia età ogni tanto va giù. E il sole non è un bene solo
per le ossa, ma, dicono, anche per l’umore. E sarà vero, perché alla luce io mi
ricreo, sono un’altra, mi viene un entusiasmo incredibile.
A dir la verità, godo di un altro spicchio di
natura incontaminata. Però mi arriva in foto, quella che il mio adorato figlio
Nicola mi invia un giorno sì e uno no della Dormiente del Sannio, un gruppo
montuoso che si staglia lontano nel cielo, in direzione del suo balcone di
casa. Sa che io amo questi monti perché, nel paesino che si stende alle pendici
come una roccaforte con caseggiati a terrazza, come appaiono da lontano, e
l’immancabile campanile maiolicato della Chiesa madre, su imitazione dei tetti della
chiesa amalfitane, è inscritta la mia nascita, lì sono coloro che mi hanno dato
la vita e ora dormono il sonno eterno.
Non vedo l’ora che arrivi la fine del lockdown,
la prima cosa che farò è recarmi, dopo la visita ai miei, in montagna, non a
piedi certo, e inebriarmi del verde, dell’odore di mentuccia, di maggiorana, e,
perché no, degli effluvi che da lontano si spandono delle deiezioni delle
vacche. Tutte cose che sanno di vita, di buono, di umano.
Ora, invece, sono le 16. Nel torpore gradevole
del pomeriggio, la tazzina del caffè ci fa compagnia nell’attesa del bollettino
delle 18, appuntamento ormai fisso con i responsabili della protezione civile.
Ancora un paio d’ore di rilassatezza prima di
immergersi nella complessità dei numeri dei contagiati, dei ricoverati, dei
deceduti. Attendiamo con ansia che ci dicano che i morti sono scesi dal tetto
incredibile di più di mille al giorno…Mille al giorno…e la maggior parte in
Lombardia. Addirittura si vocifera che i morti abbiano già superato di 5 volte
i caduti civili della seconda guerra mondiale. Assurdo!
Per risollevarmi, prendo il cellulare e cerco i
video con il governatore della Campania, De Luca, grande imitatore di se
stesso. Le sue colorite minacce a base di lanciafiamme, le sue similitudini a
suon di cinghialoni desiderosi di fare jogging, fanno morire dal ridere. Al di
là di ogni simpatia o antipatia politica, mi sembra il caso di concordare che i
suoi interventi, un po’ troppo paternalistici per alcuni, hanno ottenuto
l’effetto desiderato. Che poi è quello che conta. Sì, va bene, i cittadini sono
stati responsabili per lo più, ma l’esortazione a comportamenti corretti andava
fatta. Altrove sono stati assunti atteggiamenti diversi, stranamente
disinvolti, consentiti aperitivi nelle strade principali delle città, in piena
emergenza, e le conseguenze si sono viste.
Giunge il momento dell’informazione. Come
coloro che si avvicinano con animo sospeso al giudice per ascoltare la
sentenza, mio marito ed io avanziamo nel soggiorno. Io sdraiata sulla poltrona
a dondolo, almeno lei mi distende, mio marito mezzo seduto su una sedia in
stato di sicura compressione. Ancora le stesse cifre alte, ancora più alte,
però si dice che il trend è cambiato, sta scendendo, ma ci vuole ancora tempo;
in effetti si è fermi sul plateau, un po’ più del tempo previsto anzi, molto di
più.
Mi ha fatto sempre sclerare questo fatto dei
diagrammi, delle statistiche, delle previsioni fondate sugli andamenti
algebrici. Sarà che sono un’umanista, e umanisti sono coloro che non capiscono
un’acca di matematica, mi riesce assurdo pensare di poter entrare nel cervello
di un virus, nella potenza di un’infiammazione, nelle capacità di resistenza di
un corpo e trarre conclusioni apparentemente così certe. Preferisco non capire
e credere che non sia vero nulla, altrimenti ci sarebbe da disperarsi.
Per fortuna talvolta anche le previsioni
sballano, sicché la tanto attesa e temutissima epidemia al sud non si è
verificata, e se non fosse stato per un focolaio d’infezione dovuto più alle
scellerate decisioni o omissioni di un centro di riabilitazione, non avremmo
avuto forse, nella mia città, nessun caso o pochissimi dei complessivi scarsi
duecento contagi dichiarati finora. Concordo sul fatto che abbiamo evitato un
disastro completo, un’ecatombe, date le scarse e inadeguate strutture
ospedaliere, inadeguate anche nella routine sanitaria. Unica eccezione, a
Napoli, il Cotugno, che ha riempito di livore gli sciocchi antagonisti,
impegnati in una lurida e biasimevole denigrazione del sud, la parte d’Italia
che, invece, in questa tragica vicenda, ha dato dei punti ai nordici. Lungi da
me voler rinfocolare una squallida diatriba, che pure c’è stata, dappertutto
nei programmi televisivi di varie reti, ma è una realtà che anche il New York
Time e molti altre testate abbiano parlato del nosocomio napoletano, specializzato
in malattie infettive, come il migliore al mondo.
Ancora una volta, sconfitti dalle notizie,
ritorniamo nello studio, uno di fronte all’altro, io a continuare, per la mia
parte, il romanzo a più mani, lui a leggere sul pc o a fare giochi di strategia.
Per riposarmi di tanto in tanto ritorno al mio puzzle di 600 pezzi, dato che i
programmi del caso sul pc non ne forniscono di più grandi.
Ci accompagna la musica classica di sottofondo
che mio marito gusta attraverso le cuffie, non sapendo che, non so per quale
marchingegno rotto, ascolto anch’io, mentre lui pensa di essere isolato. Non
gli dico nulla, altrimenti mi priva dell’ascolto in contemporanea. Poi la
musica classica mi piace, anche se talvolta riesce difficile alle mie orecchie,
parendomi bella quella più nota o più orecchiabile.
“Per forza, sei ignorante in materia” mi ha
sempre detto lui. Ma, dato che sono testarda, mi sono fatta piacere anche le
musiche di Mahler, del resto è tutta una questione di abitudine. Certo, non
vado oltre. Lui invece sa distinguere le partiture, gli strumenti, i suoni, le
variazioni, la differenza di stile tra un maestro d’orchestra e un altro.
Insomma un cultore, anche se è stonato come una campana.
Ironia della sorte questo pomeriggio stiamo
ascoltando Il canto della terra di Mahler sottotitolato Symphonie fur eine
tenor- und eine alt- (oder bariton-) Stimme und Orchester, su testi di poeti
cinesi.
Cinesi? Di questi tempi parlare di cinesi è
come gettare benzina sul fuoco. Eh, sì, la stupidaggine umana è grande, e, pur
in mancanza di prove, tutti si esibiscono in elucubrazioni e scaricano i
prodotti della loro mente sulle tastiere per riempirne i social. Tutti esperti
di strategie politico-militari, di virologia, di laboratori, di contagi trasportati
dai sedili di un areo o sulle onde del vento. Fatto sta che nella mia città, a
parte qualche cinese canterino frequentante il locale Conservatorio, tutti gli
altri sono scomparsi. Tanti negozi, dalle colorate lampade di carta colorata
dai tipici disegni orientali, ondeggianti al vento, sono chiusi, mentre le
lampade continuano ad ondeggiare solitarie. La caccia all’untore non è roba
solo di manzoniana memoria, o, se vogliamo, delle narrazioni storiche di
Tucidide. Un tentativo è stato fatto anche ora. Si è raccontato che le acque
dei fiumi siano contagiate dal coronavirus, come si credeva che i pozzi di
Atene fossero stati appositamente inquinati.
Che pena ascoltare in tv notizie controverse
che ora avallano, ora contrastano le più incredibili invenzioni, di cui, addirittura,
sembra siano artefici, consapevoli o no, persino gli scienziati, evidentemente
di poca scienza, che fanno le veline in tv spesso e volentieri.
Però è diventata una vera e propria dipendenza
fare zapping sui vari programmi la sera per cogliere l’ultimo dispaccio,
l’ultima invenzione, l’ultimo collegamento dall’estero pe sapere cosa dica
Trump o il rossiccio Johnson, gorgogliante come un donchisciotte, salvo poi ricredersi
e proprio sulla sua pelle.
Il sole sta calando dietro i palazzi di fronte,
il grigio tenue delle prime ombre s’insinua nell’animo, credo non solo a me.
Lui si alza di scatto: “Che vogliamo cenare stasera?”.
“Io gradirei una pizza, non per la bontà, visto
che sono quasi sempre poco digeribili e dichiaratamente frutto di impasti artificiali,
ma per il senso di allegria che mi danno i colori mediterranei che poi sono
quelli della bandiera italiana: bianco, rosso e verde, della mozzarella, del
pomodoro e del basilico”.
Eh, no, non è possibile. Le pizzerie sono chiuse
e di prepararla io non ho voglia, assolutamente. Potrei, forse, dare l’incarico
a mia nipote di 10 anni, novella Cannavacciuolo. Meglio evitare lo sfruttamento
minorile!
A proposito, mi ha inviato tramite suo padre,
cioè mio figlio, i cornetti preparati ieri sera verso mezzanotte. Buonissimi,
il sapore mi ha rimandato ai miei anni giovanili, quando non esisteva ancora il
Mulino Bianco, ma avevamo a disposizione le brioche tonde o la treccia di pasta
lievitata con lo zucchero sopra. Una delizia proustianamente gradita.
Per la seconda volta mio marito mi chiede cosa
vogliamo mangiare a cena.
“Stasera mi va di andare in paninoteca”, gli
rispondo sorridendo
Lui strabuzza gli occhi: “Ma ti senti bene?” mi
fa
“Eh direi proprio di no. Mi sembra di
soffocare. Concedimi almeno un po’ di felicità. Facciamo finta che accompagni
Giovanni, Giorgia e Arianna in paninoteca a mangiare un hamburger con ketchup e
patatine. Non sarà possibile nella realtà, e mi addolora non poterli vedere e
abbracciare, ma almeno un po’ mi illudo di essere con loro mentre addento la
polpetta di carne schiacciata”.
E difatti essere con loro, con i miei nipotini,
anche mangiando, come usava dire una volta, solo pane e cipolla, darei in
cambio un giorno della mia vita.
Non è bello vivere di illusioni, ma di sogni
sì. E questo, stasera per me è l’unico sogno possibile.
Da ora in poi, quando ritorneremo alla vita di
prima, li abituerò a stare in casa, magari con i nonni, a gustare insieme una
cena frugale fatta di amore. Meglio di una cena artificiale ai fast food. Ma
anch’essi, i locali della ristorazione, devono vivere. Chissà che non si
riciclino e propongano alimenti mediterranei, dei nostri territori o come si
dice a km zero, quelli delle nostre nonne. Sarebbe davvero un bel cambiamento,
in nome della qualità e della salubrità degli alimenti.
Mi affaccio al balcone. È già sera inoltrata.
Mi trattengo un bel po’, abbracciata da una coltre scura trapuntata di stelle.
Mi piace ascoltare il silenzio. Quello notturno suggerisce tante cose. Una
musica dolce soprattutto. Basta porgere orecchio.
Poi, vestita i panni di Rossella O’Hara, rientro, non prima di aver recitato con lei, come un mantra:
domani è un altro giorno!
Adriana mia, amica antica e bella, ti ritrovo con questa lunga pagina di 'diario' di una pandemia, che immagino un pò reale e un pò romanzata, ma che senza ombra di dubbio rappresenta lo specchio dell'esistenza di milioni di italiani nel corso di quello che sono solita definire 'il fermo - vita'. Il tratto che appassiona è la levità, che stendi come balsamo sulla triste vicenda, pur mettendo in evidenza il dolore profondo per i lutti. Descrivi una vita casalinga che ruota intorno al cibo, allo zapping televisivo, ai rituali, che aiutano tutte le persone costrette alla clausura ad andare avanti. E aggiungi la scoperta di un nuovo fuoco creativo, che non tutti sono riusciti ad alimentare in quel tragico periodo. Si evince l'aspetto autobiografico del testo, Adriana mia, anche se da artista dotata di autentico nerbo narrativo, hai saputo dare connotati letterari al 'diario'. Nel tuo caso la coppia costretta a vivere insieme ventiquattro ore su ventiquattro si rafforza e sviluppa nuove forme di complicità. Purtroppo non per tutti è stato così... Leggerti è stato, come sempre, un'avventura coinvolgente; se il romanzo collettivo fosse stato realmente concepito, - come credo -, mi farebbe molto piacere gustarlo. Ti ringrazio e ti abbraccio con l'affetto che sai...
RispondiEliminaCarissima Maria, anima nobile e bella, che della letteratura fa pane quotidiano, scusami se solo oggi ho letto le tue dolcissime parole come sempre intrise di affetto e generoso giudizio. Certo, la narrazione è frutto anche di fantasia, non avendo per fortuna problemi tali che mi distogliessero dallo scrivere. Anche la creatura partorita da ben 6 persone é nata ed è in mano all'editore che ha definito il romanzo coinvolgente scritto molto bene e colto. Bontà sua. È stata un'avventura faticosa, un po' di più per me che ho dovuto amalgamare il tutto, però siamo siddisfatte. Appena sarà prono ti avviserò. Ci sarà nella versione ebook e cartacea. Ti abbraccio forte e grazie ancora. Adriana
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