VIVERE IN ORIGINALE
il ruolo salvifico e rivoluzionario della poesia
Poesia (dal greco poiéin) non significa altro che fare, e questo crea un equivoco di cui
difficilmente ci si riesce a liberare, in quanto sembrerebbe che l'arte e la
poesia, essendo lavoro e tecnica, siano esonerate da qualsiasi rapporto con il
pensiero. Nei tempi andati esse venivano infatti relegate a ruolo di ancelle della filosofia, della
religione, eccetera, con fini illustrativi
di cui nei tempi attuali si sono liberate, finendo tuttavia per rivendicare una
totale autonomia dal pensiero,
anziché un'autonomia di pensiero,
riducendosi a un ruolo di puro e semplice virtuosismo tecnico. Il fatto è che
le filosofie, ivi comprese quelle contemporanee, di stampo nichilistico, hanno
sempre elaborato dottrine estetiche nel tentativo di arruolare al proprio
servizio le arti in generale, mentre l'arte è di per se stessa una filosofia, o
meglio una visione del mondo radicalmente alternativa a quella
filosofico-ideologica in generale. Intendo dire che c'è un pensiero di fondo
nell'attività estetica, nel fare dell'arte,
che non ha valenze intellettualistiche (pertanto neppure tecnicistiche), in
quanto non nasce nell'intelletto, ma viene recepito dall'intelletto provenendo
da un fondo misterioso ed abissale (da una Musa,
si diceva un tempo) da cui la pur vigile mano del poeta e dell'artista si
lascia volentieri guidare. Un pensiero non da lui pensato, ma da cui lui stesso
è pensato, che vuole comunicare con lui per dargli notizie di prima mano, al di
fuori degli schemi convenzionali.
Non sto parlando di
Dio, di quell'intelligenza sovrana del cosmo che nominiamo sempre invano, bensì
del pensiero extracorporeo del poeta e dell'artista, dell'essere alare che si
agita in lui, così come in ogni altro essere umano, che vorrebbe dialogare con
lui, ma quasi sempre ne viene respinto in nome di un arrogante razionalismo che
chiude ogni canale. Parlo delle coordinate divine che il Grande Artefice,
eclissandosi dietro l'opera creata, ha lasciato in dote ad ogni creatura per
non abbandonarla al suo destino. Parlo della scintilla di cui siamo stati dotati, dell'angelo custode, se vogliamo, sempre da noi trascurato e addirittura
scavalcato per rapportarci direttamente e presuntuosamente a Dio. Parlo della Musa innata, del tu trascendente dei poeti e degli artisti, legato strettamente all'immanenza
e al corpo fisico, all'identità segreta cui ci si può rivolgere in modo
confidenziale (cosa che non si può fare con Dio). Parlo del daimon, di quel divino di noi stessi che
dona la facoltà di essere creativi, vivendo la nostra vita da protagonisti,
anziché da comparse, a prescindere dal ruolo che socialmente svolgiamo. L'uomo
ha due possibilità: vivere in originale oppure in fotocopia; mantenere fede a
se stesso oppure farsi rubare a se stesso. Essere un uomo di fede, creativo e
problematico, che crede in se stesso dubitando di se stesso, in eterna
macerazione interiore; oppure un fideista plagiato dall'ipse dixit, un nichilista, in fondo, privo di qualunque luce
prorpia, interiore.
Vorrei dire a
Heidegger, a Holderlin, a Nietzsche, che il dio morto o sparito dal mondo è
quello esteriore di tutte le metafisiche, il dio ossia inventato dall'uomo, non
il Dio interiore che vive e dialoga dentro ciascuno di noi, il Dio innominabile
ed ineffabile, ma niente affatto nascosto, anche se noi lo rifiutiamo,
terrorizzati dall'incontrarlo per un connubio alla pari. Quel Dio parla a
dirotto nella mente e nel cuore dell'uomo, giacché non è altro che l'uomo
stesso, la sua coscienza profonda, la sua stessa essenza, la sua arcana fonte
battesimale. Tanto più generosa, quanto più l'uomo riesce a comprimere il
proprio ego, facendo spazio all'alterego, al doppio ultrafisico di se
stesso, alla propria sorgente creativa, alla propria vera natura spirituale. Il
Nichilismo, intendiamoci, ha svolto un grande ruolo. E' riuscito a disintegrare
la corazza dell'"ego" e le schegge esplose fanno finalmente apparire
lo sfondo: quel vero e profondo volto di noi stessi di cui parla Borges nei
versi finali dell'Elogio dell'ombra: "Dovrebbe impaurirmi tutto questo / e
invece è una dolcezza, un ritornare. / Posso infine scordare. Giungo al centro,
/ alla mia chiave, all'algebra, / al mio specchio. / Presto saprò chi
sono". Il senso più compiuto della propria identità giunge nel momento
altamente creativo del fallimento dell'Io, perché più si abbassano le difese
dell'ego, più si fa spazio all'Altro che vive in noi, all'essere che
costituisce la nostra più vera e profonda identità, la nostra dimenticata
essenza universale.
"Conosci te stesso" diceva Socrate. Gli fa eco Rimbaud (lettera a Paul Demeny del 15 maggio 1871) scrivendo:
“Je est un autre”, “Io è un altro”.
Non "Io sono un altro", ma "Io è un altro". Identità come alterità, il Sé come Altro da Sé. E viceversa. Tuffandosi in
questo insondabile mistero, l'uomo non smarrisce se stesso, ma ritrova se
stesso, o meglio l'allineamento con se stesso e dunque la concordanza
universale. Ed è esattamente ciò che accade, sul finire del XXXIII canto del
Paradiso, all'autore del viaggio ultramondano, laddove riceve la visione
divina: "Dentro di sé, del suo colore stesso / mi parve pinta de la nostra
effigie / perché 'l mio viso in lei tutto era messo". Se l'uomo potesse
essere sempre se stesso, verrebbe a trovarsi in un perenne stato divino e
creativo, ma va da sé che nell'azione quotidiana egli debba necessariamente
attenersi a comportamenti omologati e comuni. Ciò non può che ribaltare il
pregiudizio aristotelico, secondo cui l'uomo sarebbe se stesso nella praxis, mentre nella poiesis sarebbe condizionato. Secondo lo
Stagirita, la praxis è un tipo di
azione che ha il suo fine in se stessa, nel libero agire dell'agente, mentre la
poiesis, proiettata verso la
produzione di oggetti materiali (di qualunque tipo), non avrebbe in se stessa
il proprio fine e sarebbe condizionata da esigenze improprie, esteriori.
Con tutto il
rispetto per Aristotele, a me sembra che questo sia un lapalissiano
travisamento della realtà. Come si può pensare che l'azione politica, la
conversazione amichevole, la partecipazione civica, la convivialità ed il
comportamento sociale (tutti esempi di praxis)
possano essere immuni dal condizionamento collettivo, dalle mode, dai costumi,
dall'educazione, dalle ideologie dominanti, dal tornaconto personale soprattutto,
e da un'infinità di altri fattori cogenti? E come si può supporre, al
contrario, che l'attività creativa, tesa alla produzione di oggetti materiali,
possa prescindere da quell'elaborazione personale, inventiva, che in qualche
modo la pone al riparo del plagio, pur contribuendo alla costruzione di un
gusto comune mai definitivo e statico, ma sempre in divenire? Dove la praxis, l'azione pubblica, tende
all'omologazione e al livellamento, la poiesis
tende alla rottura degli schemi e, come tale, è assoluta garanzia di
libertà. L'uomo non è soltanto, come dice Aristotele, un animale politico. E'
anche un animale creativo, dotato di progetti autonomi, destinati a misurarsi
con la vita inautentica ed anonima: quella (come dice Heidegger) del "si
dice, si pensa, si fa", quella di tutti e di nessuno, dove "ognuno è
l'altro e nessuno è lui stesso". Nella praxis,
inevitabilmente, l'uomo è indotto a
pensare in fotocopia, mentre nella poiesis
al contrario è libero e pensa in originale (beninteso i due modi di pensare
sono entrambi indispensabili e si giovano l'uno dell'altro).
La vita odierna è
immersa nel marasma che ben conosciamo, trafitta da un materialismo che non si
era mai visto così invadente e soffocante nel corso della storia. Una realtà
che tende a fagocitare gli individui, ad asfissiarli, a rubarli a se stessi, a
incatenarli ad una visione superficiale che non può soddisfarli perché non li
rende padroni di se stessi, ma al contrario li rende automi, puri e semplici
ingranaggi produttivi. Dare risalto alla poesia, adoperarsi affinché abbia
visibilità e diffusione, è davvero eroico e controcorrente nei tempi attuali,
perché essa possiede la facoltà di invertire la rotta, riportando l'attenzione
dalla periferia verso il centro dell'essere umano. L'uomo dovrebbe pensare e
vivere in originale, non in fotocopia come purtroppo accade, lasciandosi
plagiare dai modelli imperanti e rinunciando a se stesso, non riuscendo neppure
a vivere una piena e sana vita sociale. Reagire all’aridità del quotidiano è
possibile solo scavando dentro se stessi, nei territori dove risiede la propria
identità. E' questa la rigenerazione, la scossa che occorre per uscire dalla
palude in cui ci siamo impantanati. Solo così può riaffiorare la segreta humanitas che ci vive dentro,
quell'universalità che non equivale all'omologazione e al pubblico consenso, ma
che è la nostra verità più profonda, la singolare essenza che ci consente anche
di essere animali sociali, ma socialmente autentici, incapaci di consegnare il
cervello all'ammasso.
Ciò capovolge
l’antico pregiudizio greco, di cui è permeato l’intero tessuto della cultura
occidentale, secondo cui la poìesis,
il mythos, sarebbe il campo per
eccellenza del soggettivismo umano, mentre l’epistéme, la verità, si manifesterebbe nel logos, peraltro confuso con l’intelletto razionale. Il mio punto di
vista si trova agli antipodi di questo assioma, le cui formule non credo
fossero nelle corde del substrato più arcaico della grecità, che fu
profondamente misterico prima dell’insorgere del pensiero razionalistico. Io
ritengo che le cose si diano così come realmente sono al nostro intelletto,
senza manipolazione alcuna, solo ed esclusivamente nell’attività mitopoietica, ovvero nel mito allo stato
sorgivo, non nella mitologia dove il
mito decade a favola ripetitiva. Allo stato sorgivo, il mito non manipola un bel nulla, in
quanto è totalmente nelle mani del logos,
ovvero dello spirito universale, che è ben diverso dall'intelletto razionale,
teso a distinguere, a dividere, a separare, costituzionalmente impermeabile
all'universalità. La ragione è e sarà sempre schematica, pretestuosa,
partigiana, destinata per sempre ad essere doxa
(opinione). E’ giunta l’ora di dire che non c’è nulla di universale nella
ragione umana, per sua natura settaria, mentre l’universalità può apparire
soltanto nel mythos non ancora
decaduto a mitologia. Sta qui
il compito salvifico e rivoluzionario della poesia.
Franco Campegiani
Ti sembrerà strano, Franco, che io commenti brevemente il tuo scritto (che conoscevo e di cui abbiamo interminabilmente parlato al telefono) dopo aver visto un documentario naturalistico. Dico 'ti sembrerà strano' ma so perfettamente che, presto, oltre ad averlo intuito, capirai il perché.
RispondiEliminaBene, il documentario in questione trattava (come molti altri del genere d'altronde) dell'equilibrio esistente tra le varie specie in natura; un equilibrio basato su un unico fine, quello che davvero conta: mantenere l'habitat perché tutti indistintamente vi possano vivere. In altre parole salvaguardare la Madre Terra.
Bene (e torno alla riflessione da te sollevata e suggerita):
VIVERE IN ORIGINALE, certo, è questo - senza dubbio alcuno - il ruolo rivoluzionario e salvifico della poesia.
Chiediamoci perché, allora, questa rivoluzione, nell'uomo, non prende corpo. E qui si potrebbero trovare centinaia e centinaia di concause (dalla vera consapevolezza del poeta per finire alla poca volontà e alacrità di chi è preposto a divulgarne l'opera). Ma non è questo che m'interessa, in questo momento, evidenziare.
Rispondendoti - senza scendere nei particolari sia per motivi di spazio sia per aver sviscerato il problema in molteplici occasioni - voglio, qui, aggiungere solo una cosa a ciò che già mi trova in piena sintonia (propiziatami - come detto - dal documentario).
Le suddette specie riescono a cooperare proprio perché non si chiedono per quale motivo lo fanno: lo fanno e basta.
Ecco, dunque, la poiesi nel suo autentico e primigenio significato. Quelle specie sono formate da tanti individui che sono, ciascuno, un poeta (senza saperlo ovviamente) ma lo sono.
Chi, invece, si preoccupa di sbandierarlo ai quattro venti; non soltanto non fa poesia ma neppure fa niente per esercitarne il potere salvifico e rivoluzionario. Non può, per il semplice motivo che pensa solo a se stesso.
E si rivela per quello che realmente è: un reazionario.
Sandro Angelucci
Carissimo Sandro, ti sono molto grato per questa tua puntualizzazione, giacché mi offre il destro per chiarire meglio un passaggio su cui avevo forse sorvolato. Converrai certamente con me che c'è una differenza costituzionale evidente fra l'uomo e le altre creature. Mi riferisco alla ragione, di cui loro sono sprovviste e che costituisce invece la nostra più grande pena. Stante questa differenza, l'equilibrio che noi possiamo raggiungere è molto diverso dall'equilibrio che per loro è scontato. Loro vivono nel Paradiso terrestre, mentre noi quel paradiso, pur avendolo in dono, ce lo dobbiamo meritare. Non è una differenza da poco. Quando io dico che "non c'è nulla di universale nella ragione umana", non intendo dire che essa va soffocata o eliminata (sarebbe una follia), ma intendo solo invitarla (la mia ragione in primis) ad una salutare autocritica per rendersi consapevole di dover rientrare nell'ordine delle leggi naturali e universali. L'uomo, purtroppo, non potrà mai cantare al modo degli animali, per il semplice motivo che per lui il canto è un evento coscienziale, un evento appunto rivoluzionario. Per gli animali non è così. Come tu dici, "loro lo fanno e basta". Quindi non fanno rivoluzione, e se non fanno rivoluzione, non fanno neppure poesia, come facciamo invece noi, esseri umani. Potresti dirmi che gli uomini si dedicano molto raramente a queste cose, ma che non lo facciano punto, non direi, se già noi due lo stiamo facendo (e chissà quanti altri lo fanno senza che neppure noi lo sappiamo). Grazie comunque per l'approfondimento che, non da oggi, mi aiuti a fare.
EliminaFranco Campegiani
Caro Franco, ho sempre timore di affrontare dibattiti filosofici vista la mia olimpica ignoranza, ma il tema mi sta molto a cuore e non posso esimermi da partecipare. L’articolo è molto interessante e mi permette di trovare molti punti in comune con le mie antiche ricerche meta-simboliche. Condivido in toto il discorso sulla morte di Dio e sul Dio che è in noi, o che siamo noi pur senza avvedercene. Grande responsabilità. E la poesia, che più che un insieme di parole scritte diventa, a parer mio, un modo di percepire la vita, un dialogo continuo con quell’essere alato che portiamo in noi, è un cammino verso il sé. Solo, mi sento di aggiungere al tuo ragionamento, un piccolo contributo. Quando dici “Come si può pensare che l'azione politica, la conversazione amichevole, la partecipazione civica, la convivialità ed il comportamento sociale (tutti esempi di praxis) possano essere immuni dal condizionamento collettivo, dalle mode, dai costumi, dall'educazione, dalle ideologie dominanti, dal tornaconto personale soprattutto, e da un'infinità di altri fattori cogenti?” direi che anche quei piccoli, effimeri e insignificanti momenti sono interazioni che non ci liberano da responsabilità e, così come gli esempi di praxis non sono esenti da condizionamenti, cosí quei momenti generano nuove condizioni. Il nostro farne parte, il nostro personalizzare questi condizionamenti, contribuisce a creare il nuovo equilibrio che risulterà da quell’esempio di praxis. Noi non siamo esenti da responsabilità e partecipare alla vita del mondo è opera da titani. Nulla di quello che si fa o si pensa va perduto. Credo, quindi, che sia necessario arrivare alla consapevolezza del nostro “esserci”, del nostro “farne parte”. Non è forse questo il ruolo delle arti e della filosofia?
RispondiEliminaClaudio Fiorentini
Carissimo Claudio, sono molto felice di poter rinnovare i fasti delle nostre antiche (passami il termine, per te improprio) riflessioni. Per avere una visione del mondo non c'è bisogno di essere filosofi (cosa che neppure io sono). Non ti sarà sfuggito, immagino, che, nel distinguere la praxis dalla poiesis, peraltro sulla scia di Aristotele (pur non condividendone l'impostazione), ho voluto precisare: "beninteso i due modi di pensare sono entrambi indispensabili e si giovano l'uno dell'altro". Possiamo infatti trovare la praxis nella poiesis, e viceversa, ma è molto importante - a parer mio - tenerle concettualmente distinte per non confonderle tra di loro. Ben venga la commistione e la collaborazione tra i due piani, ma non ritengo giusto confonderli tra di loro. Ovvio che bisogna - come tu dici - "esserci", che bisogna stare al mondo. Dobbiamo abitare il nostro tempo, stando tuttavia attenti che la dimora non si trasformi in tomba. Questo intendo dire affermando che si può vivere in originale o in fotocopia. Perché un conto è vivere, un altro è lasciarsi vivere. Un forte abbraccio.
EliminaFranco
Si, caro Franco, siamo d'accordo... ma il battito d'ali di una farfalla che vola via, condizionata da un escursionista rumoroso, puo' scatenare chissa' cosa. Per questo dico che la responsabilita' e' piu' nostra che dei condizionamenti: nella praxis non siamo solo agiti o condizionati, ma agiamo e, pur se condizionati, i nostri atti sono nostri. Occorre esserne consapevoli perché ogni atto e' frutto di un pensiero e scatena altri pensieri.
EliminaUn abbraccio
Claudio
La consapevolezza dei nostri atti è esattamente quello che intendo sponsorizzare. Affinché i nostri "battiti d'ali" non scatenino uragani, terremoti, guerre e chissà quanti e quali altri eventi distruttivi, è necessario essere presenti a noi stessi e prendere in mano la nostra esistenza. La responsabilità dei condizionamenti è solo nostra, anche se essi esistono autonomamente, a prescindere da noi.
EliminaFranco
Conosco da molti anni questo meraviglioso 'manifesto' dell'amico Franco Campegiani e lo definisco così, in quanto, a mio umile avviso, dovrebbe diventare un vero e proprio programma di vita - peraltro il Nostro non è nuovo a esperienze del genere, visto che nel 2005 diede vita al Manifesto dell'irrazionalismo sistematico, ispirato all'opera del Filosofo Bruno Fabi -, in una società globalizzata come la nostra dove impera la massificazione alienante del singolo. Nel mio piccolo molti anni orsono esordii in poesia con la Silloge "Il coraggio di scegliere le ali", che non poteva certo definirsi un'autentica opera lirica, ma prendeva il titolo da una poesia in prosa dedicata ai miei figli, nella quale li esortavo a scegliere la libertà del volo e a non procedere in gregge... Mi scuso per il riferimento personale, non sono solita farne, ma è funzionale a spiegare quanto la lettura del testo di Franco mi coinvolse ed entusiasmò. Lo trovo sempre più moderno, attuale e unico. 'Vivere in originale' sarebbe la soluzione alla libertà di pensiero, di comunicazione, di scelta. Sarebbe la personale rivolta del singolo al controllo quotidiano che l'avvento tecnologico, i media e la nuova struttura della società rendono inevitabile.
RispondiEliminaI poeti, gli scrittori, i Filosofi come il nostro illustre e instancabile Pensatore, e anche tutti gli operatori culturali potrebbero essere nuclei attivi di questo movimento. Franco sa quanto m'innamorai di questo
'manifesto', ma ripetere giova e urlare giova ancora di più. Lo ringrazio per averlo riproposto e spero lo leggano in tanti e lo adottino come programma di vita. Io ci proverò. Un grande abbraccio a Franco, a Nazario e agli ospiti dell'Isola.
Due in particolare ( ma ci si può soffermare su altri interessanti passaggi, come dimostrano i commenti) sono gli aspetti che colpiscono chi si accinge a leggere il lungo interessante intervento di F. Campegiani: il primo, il più evidente, l’impostazione filosofica, non certo nuova a chi è abituato a seguire i suoi numerosi interventi, il secondo la riflessione sul tema specifico della poesia ed il suo potere. I due aspetti si innestano l’un l’altro e sono straordinariamente fusi. Infatti l’autore ci ricorda che l’arte è di per sé una filosofia che proviene da radici insondabili che si manifestano attraverso la Musa, il daimon, l’ispirazione,..( ogni periodo storico l’ha diversamente definita), insomma è la scintilla del divino che è in noi, di cui parlano autori vari nella letteratura e nell’estetica, alla ricerca di se stessi e della propria autenticità. Ed è proprio questo il compito del poeta, non cero quello del ricamo dolciastro e compiaciuto delle proprie soggettive epidermiche emozioni, lo stesso che lo ricongiunge all’antichità, al mito, alla nostra sorgente umana. In fondo la poesia nomina per la prima volta il mondo e senza bisogno di sostrati razionalfilosofici, sa evocare il mondo, non dice, risveglia, non spiega… è: comunicazione autentica che nasce dal dialogo interiore. Sia la benvenuta.
RispondiEliminaStraordinaria analisi, la tua. Carissima Maria Grazia, hai sintetizzato splendidamente il mio pensiero, sottolineandone l'intento di individuare le comuni radici della poesia e della filosofia. Conoscere se stessi (o meglio, "contattare se stessi", per evitare l'interpretazione moderna del verbo "conoscere" in senso esaustivo): questo è, a mio (e a tuo) parere, il compito dell'arte e della poesia, in quella "comunicazione autentica che nasce dal dialogo interiore", come tu giustamente dici. Dialogo interiore che non ha alcunché di intimistico, essendo i territori dell'interiorità immensamente più vasti di quelli dell'Io. Ti sono molto grato per questa importante riflessione.
EliminaFranco Campegiani
Carissima Maria, non è da oggi che ho il grande onore di ricevere le tue attenzioni, tanto che credo tu conosca oramai meglio di me il mio pensiero. "Vivere in originale" vuole essere il manifesto dell'uomo creativo, e la creatività - sinonimo di spiritualità (una spiritualità incarnata, fatta di colori, suoni, immagini e profumi) - non è che la caratteristica saliente dell'essere umano. Inclinazione purtroppo vilipesa - faccio mio questo tuo pensiero - dal "controllo quotidiano che l'avvento tecnologico, i media e la nuova struttura della società rendono inevitabile". Un manifesto che ha la pretesa di essere molto di più di una dottrina estetica, giacché è, come tu stessa dici, "un programma di vita", un tentativo di riscatto per quell'essere (l'uomo) sempre più robotizzato e spinto fuori da se stesso (ma calpestato in fondo proprio da se stesso), in omaggio ad una vita sempre più anonima e priva di fedi, di ardimenti, di spessori morali. Un caro saluto.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Franco Campegiani merita un particolare plauso per avere, nella sua riflessione, ricondotto la Poesia al suo autentico originario valore di guida "mitopoietica" e "umanistica" per l'essere umano.
RispondiEliminaCon un'approfondita e lineare analisi delle più varie tendenze-opinioni filosofiche (da Socrate ad Aristotele; da Borges a Heidegger), Franco definisce il rivoluzionario concetto di "Humanitas" ricreato divinamente nell'alterego dell'essere umano.
Humanitas costituisce una componente essenziale della libertà creativa concessa dall'Essere superiore per comprendere il dettaglio derivato dall'esistere di uomini e cose.
Nel contempo si dimensiona la valenza posizionata del "logos" (unico spirito universale) notevolmente distanziato dalla "ragione" che si manifesta solo nella parcellità frazionata dell'opinione.
Dunque: Poesia, Humanitas, Logos, Libertà, Ragione, Mitopoiesi, Praxis, Daimon, Musa... sono l'intreccio dialettico-esistenziale che consente al filosofo la difesa dei valori "assoluti" incardinati nella Poesia.
L'eccellente profonda interpretazione di Franco ne testimonia il profilo al di la delle massificazioni temporanee.
Ringrazio sentitamente Marco per l'attenta lettura della mia dissertazione. Il noto studioso coglie ed effonde a sua volta "il rivoluzionario concetto di Humanitas" promosso in questo scritto, volto a individuare nella profonda coscienza dell'uomo, nel suo spirito universale e divino, le sorgenti più autentiche della propria sfera creativa. Dopo aver letto la proposta rivoluzionaria di Marco comparsa qualche giorno fa in questo stesso blog, tesa ad interrompere il perverso gioco dell'economia e della società di massa attuali, credo di poter dire che "vivere in originale" faccia parte del suo stesso bagaglio di ricerche e speranze culturali. Grazie per la condivisione.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Nel selezionare la tematica sulla quale esprimere il mio punto di vista all’interno di una vastissima classe di informazioni o riflessioni contenuta nel brano di Franco Campegiani e nell’ampio dibattito da esso promosso, non vorrei correre il rischio di operare una sorta di falso riconoscimento di priorità. Sempre contando, dunque, sulla gentilezza dell’autore e dei lettori, sceglierò di approfondire un quid in prima analisi più che mai stimolante. Alludo al confronto tra il μύθος ("miùthos"), il pensiero filosofico, la nascita della filosofia nella cultura orale degli albori, dove era quasi impossibile separare il discorso poetico da quello mitico-religioso.
RispondiEliminaQui emerge l’atto rivoluzionario d’esordio - pur archetipo - della poesia, giustamente e in assoluto sollecitato da Campegiani poiché, essendo la ποίησις ("poièsis", da ποιέω, "poièo") un meccanismo della produzione umana, genera un accadere sottratto all’allora muto, altresì implacabile, succedersi degli eventi naturali, solo nei secoli seguenti distinti dalla storia dei fenomeni collegati all’homo sapiens. Lo mette in luce Sandro Angelucci nel suo commento: una specie costituita «da tanti individui che sono, ciascuno, un poeta (senza saperlo ovviamente) ma lo sono».
Citando lo studioso Francesco Filia, ricordo che il lessema θεωρία, all’altezza di indicare l’approccio peculiare del sapere greco all’arco del reale rispetto alle culture antiche, coinciderebbe con il termine «solenne ambasciata», ossia «festa, da cui si origina quindi la religione, il mito, la poesia, il teatro e il pensiero di una comunità, cioè il luogo in cui i mortali entrano in rapporto con il sacro, con ciò che è separato dalla realtà sensibile, ma che la anima e quindi è ciò che è essenziale per la vita stessa». Lo spazio utopico successivo è stato incentrato sul tentativo di evidenziare quanto simili forme di produzione di senso, di “sapere”, abbiano origine come risposta necessaria all’inquietudine dell’uomo, il quale – sottolinea Franco Campegiani – in epoca contemporanea soffre a causa di numerosissime fonti vincolanti, inibitorie, deleterie.
Nel momento attuale, poesia e teoria, con i propri mezzi, si debbono scontrare sul terreno angosciante del “nulla” di un’umanità che, se rifiuta condizionamenti di comodo, non riuscendo a reagire in maniera, in misura, alternativa (pensiamo alla terrificante confusione manipolata nei tempi del Coronavirus), soggiace a un “tutto” onnivoro, spietato.
Concludo evocando, sulla scia del nostro amico Filia, la traccia sofoclea dell’“Antigone”: dove noi viviamo la tipicità – grandiosa, nonché tragica – dell’unico “essente” in grado di scaturire da enigma di se stesso, sopportando anche, nell’immediato, la negazione della presunta beatitudine degli dèi dell’Olimpo o del verbo liberatorio, risolutivo, di ogni Dio onnisciente. A donne e uomini è vietata, infatti, la certezza consolatoria degli altri esseri viventi, in quanto sanno bene di dover morire. Sembra indispensabile pertanto - ed è uno dei messaggi di Franco Campegiani - che, attraverso la poësis, il soggetto creativo produca un significato non allineato alla sfera metafisica. Ad esempio, in Giacomo Leopardi si può cogliere un input complesso, alternativo, radicale, non conciliante della realtà, ma propositivo della conoscenza umana, altamente poetico e indipendente. Hai ragione, Franco: un’autentica rivoluzione di poesia.
Sono molto grato a Cinzia Baldazzi per le squisite e profonde attenzioni. Lei, commentandomi, ripercorre in sintesi le tappe della cultura umana, focalizzando il proprio discorso sul mito, sulla poiesis, dove inizialmente era fuso, in maniera armonica e inscindibile, l'intero scibile umano: arte, poesia, religione, scienza, filosofia. In pratica, un nuovo, se vogliamo rivoluzionario, modo di stare al mondo, rispetto a tutto il vivente, che era in realtà il modo tipico dell'uomo di stare al mondo, in sintonia con le leggi e con l'ordine del creato. Interessante il riferimento fatto da Cinzia a Francesco Filia, che parla dell'aurorale approccio al reale come di una "festa da cui si origina la religione, il mito, la poesia, il teatro e il pensiero di una comunità, cioè il luogo in cui i mortali entrano in rapporto con il sacro". Si tratta di forme di produzione di senso - dice giustamente la studiosa - soffocate dalla contemporaneità che è giunta pian piano ad andare contro libertà e contro natura, soffrendo "a causa di numerosissime fonti vincolanti, inibitorie, deleterie". Ed è qui che interviene il ruolo salvifico e rivoluzionario della poesia, tornando a produrre nuove forme di senso nel seno della cultura del Nulla in cui siamo approdati. Bene ha colto, Cinzia, l'intento antimetafisico da me affidato all'atto creativo, essendo in realtà la Metafisica nient'altro che l'anticamera del Nichilismo, come Heidegger ha bene evidenziato. La creatività è una visione del mondo radicalmente antitetica al razionalismo e all'intellettualismo che ci hanno condotto alla situazione di stallo in cui ora ci troviamo. Un' insubordinazione tesa ad affermare - come era ai primordi, ma come in fondo è sempre stato - le ragioni del sacro.
RispondiEliminaFranco Campegiani