Luciano Postogna
ULTIMI PENSIERI
Recensione di Ada Prisco
Il
filo dei mesi raccoglie questi Ultimi pensieri
di Luciano
Postogna, editi da Miano Editore (Milano 2020). I mesi fungono da
contenitore ideale: è questo un modo per scandire il tempo o tradisce il
desiderio inconfessato di congedarlo il prima possibile, accompagnandolo alla
porta, paltò al braccio? È un
tempo dal respiro corto, si snoda da marzo a luglio del 2020, anno fatidico, di
fatto trascorso, in parte ancora in agguato.
Luce
e buio portano il passo della raccolta, attraggono in un’atmosfera, non
disponibile a concedersi del tutto. La loro alternanza che si palesa a tratti
come commistione proietta in una dimensione primordiale, quella in cui nulla
esisteva e tutto ha avuto inizio. E ci fa riflettere sul fatto che in alcune
stagioni questo processo può riprodursi nel cosmo che è dentro di noi. Si
manifesta attraverso il dubbio, il desiderio embrionale, l’ardore gemellato al
timore. Sa di inizio, ma anche di fine. È
paradossale: la raccolta si presenta come dedicata al tempo, cadenzata dalle
stagioni, ma in sostanza ne palesa l’insufficienza. Si è portati legittimamente
a ipotizzare che l’organizzazione umana del tempo, la smania a strutturarlo in
giorni, settimane, mesi anni, corrisponda all’esigenza di chiarezza, di
sicurezza, persino di controllo. Le epoche più difficili, però, smascherano
questa ambizione e la umiliano, ricacciandola nell’angolo. La durata del tempo
si misura nella sua qualità, che talvolta risulta veramente ardua da valutare,
talaltra appare assente. E l’essere umano continua a cercarla, nei modi più
svariati.
E
così si mette più nitidamente a fuoco quanto è più lontano, mentre nel
perimetro spazio-temporale più immediato la vista si offusca, cala il buio, si
procede a tentoni. Bella e ben descritta la scena del componimento di apertura.
“Nitide
vedo … nelle stelle
la
mia malinconia, la mia ansietà,
la
mia tristezza e tutte le mie paure.
Madido
aspetto il sorgere del Sole” (p. 14).
La
realtà si presenta a livelli intrecciati fra loro, con livelli diversi
d’intensità. I sentimenti personali occupano il fluire di una sorta di eterno
presente, ma il loro ricordo si acuisce di notte, “una buia notte senza fine” (p. 14).
È suggestiva questa lettura che
trasfigura sensazioni ed esperienza, restituendole, nella metafora delle
stelle, come un complesso di luce e orientamento, da un lato, di influenza
duratura che grava sulla notte dell’essere senziente.
L’io
narrante indugia nella meditazione, si dispone all’ispirazione, che cerca in
compagnia della natura. Quante ispirazioni potremmo raccogliere addentrandoci
in un analogo esercizio di approfondimento della quotidianità collegato al contatto
con la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco. È una
poesia dello spazio aperto, che cerca l’interiorità per riflettere in maniera
compiuta il proprio fascino.
Lungo
la lettura si odono tante altre voci, quelle armonizzate con maestria lieve dai
grandi poeti del passato. Quanto deve essersene nutrito l’autore! Il
componimento non si affida esclusivamente alle parole e ai loro suoni, si tuffa
oltre, si dimostra abile di una particolare arte pittorica, che ritrae la
scena, fino ad alleviare alla fantasia del lettore ogni fatica. Il poeta è
capace di aprire la scena, come levando un sipario e conducendo immediatamente in
un quadretto perlopiù agreste, devoto del raccoglimento della campagna di una
volta, forse espressione di quella pace interiore sola in grado di placare
l’ansia che coglie rispetto al domani, avvolgendo in una coperta intessuta sì
di luci, ma nel cielo scuro della notte.
L’orizzonte
appartiene a un’alterità completamente diversa che interviene a ridimensionare
il ritmo del giorno, le stagioni dell’anno e anche l’alternanza di giorno e
notte dell’animo, smarrito sempre per via di qualche affanno. Quanto gelo
nell’anima! La pelle, però, non manca di esporsi alla carezza del sole. Le
stagioni sono realmente dentro di noi, anche se questa poesia non si chiude mai
in un solipsismo. Al contrario trae nutrimento da interlocutori esterni in un
continuo gioco di specchi, di riflessi, ma anche di scambi docili, nella
disponibilità a lasciarsi modificare, persino nell’attesa fiduciosa che
qualcosa di buono giunga in virtù di questo scambio naturale tra vasi
comunicanti.
È pur vero che questi versi
attecchiscono più spontaneamente nel clima incerto, nella malinconia della
pioggia autunnale. La luce non deve essere troppa. Scemerebbe altrimenti
l’esigenza della sua ricerca e non s’aprirebbe quella ferita da cui trapela la
luce della musa, come se questa provvidente accorresse a sostegno di chi è
prostrato dall’affanno dei giorni uguali a se stessi. La letteratura compie e
fa compiere un salto di qualità che trasforma la routine quotidiana in qualcosa
degno di essere vissuto. E non c’è tristezza che vince questo slancio
appassionato che raggiunto la vita, approda alle sue braccia con la confidenza
ottimistica con cui il bambino si sente protetto fra le braccia dei propri
genitori.
Colori,
sapori, movimenti ciclici narrano una storia che scorre ineluttabile, infonde
l’impressione di sapere da che cosa è preceduta e che cosa la seguirà. Non le
somiglia la famiglia di ricordi, la percezione di quanto aveva promesso di
rimanere per sempre, ma non si è più visto. Tutto è placido. Nel mondo del
Nostro nessuno alza la voce, anzi regna il silenzio. La voce è diventata fatto,
proprio come in principio. Questi versi appartengono alla fase che non cerca né
potrebbe accontentarsi delle definizioni. Si esprime liberamente, per quello
che è.
È una realtà che è legata alla
terra, ma che non se ne lascia appagare del tutto, perché discretamente volge
lo sguardo al cielo e sa anche superarlo per raggiungere il paradiso (p. 56) e
ivi rinvenire finalmente la radice della speranza e la cornice unificante del
tempo e degli affetti. Malgrado le apparenze, gli elementi vari in cui natura e
cultura magistralmente si articolano non sono slegati né isolati. Ragione e
fine non mancano. Il mondo naturale è come intrecciato in una speciale
affezione, che ci fa udire e assaporare il mondo raccolto delle miniature, il
tepore delle dimore essenziali ma accoglienti di una volta.
La
tenerezza diventa espressione della poesia e ci si sente tutti un po’ parte di
questo mondo, che, d’un tratto, da maestoso, diventa bambino e trova scudo e
valore nei versi, che ricordano tanto le nenie sussurrate ai piccoli per non
far sentire loro il trauma della notte, per accompagnarlo con dolcezza nel
mondo del sonno, fra le braccia del sogno:
“Or
fa notte,
dormi
Natura
sotto
un manto di stelle
e
di una Luna piena
che
nel lago si specchia” (p. 62).
Ada Prisco
Luciano Postogna è nato nel 1942 a
Trieste, dove a tutt’oggi risiede. I suoi primi versi risalgono alla fine degli
anni ‘50 quando, ancora studente, componeva per i giornaletti studenteschi. Le
prime raccolte di poesie sono datate anni ‘70 e rimaste nel cassetto per quasi
trent’anni: alla stregua di un diario intimo che memorizza i sentimenti e i
ricordi del poeta. Solo nel 2000, infatti, Postogna comincia a divulgare e
pubblicare le sue poesie, sia giovanili sia quelle scritte fino ai giorni
nostri. Nel 2000 esce la sua prima silloge, intitolata Pensieri nudi, seguita da Ali
d’Arcangelo (2000), Raggi rossi al
tramonto (2001), Anatomia del vento
(2002), Oltre ogni orizzonte (2003), L’ombra dell’anima (2006), Antologia (2020), Ultimi pensieri (2020).
Luciano Postogna, ULTIMI PENSIERI,
prefazione di Nazario Pardini, Guido Miano Editore, Milano 2020, pp.88, isbn.
978-88-31497-37-4.
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