martedì 12 marzo 2019

GIANCARLO PETRELLA: "L'ULTIMO CANTO DI UN MONDO MORENTE"



Sono Giancarlo Petrella, amante della grande letteratura – in particolar modo della poesia. Amo con tutto me stesso il Tasso, il Foscolo e l’Alfieri. Si può dubitare delle leggi naturali, ma non che la vita degli uomini abbia avuto un valore proprio col nascere delle arti, né che la poesia non abbia custodito e tramandato lo spirito dei popoli. È possibile, secondo la mia opinione, ammirare il mondo dei Greci o degli Indiani o di qualsiasi altra civiltà grazie ai monumenti; ma qualche verso poetico dei loro poemi, dei loro testi sacri, dei loro canti popolari svela molto di più sulla loro essenza, sul come concepivano il mondo – mondo che rivive in quegli scritti – rispetto a un complesso di rovine in rovina. 
Credo profondamente che le capacità e le abilità individuino l'io; spesso sono i nostri esercizi e miglioramenti a porci in contatto con i nostri "vecchi" io o a evocarci quello "nuovo". Noi stessi individuiamo gli altri per mezzo delle loro abitudini, capacità e facoltà; e di chi non conosciamo nulla, sosteniamo: è un estraneo! E io mi ritrovo, io “sono”, quando “vedo” la maestria d’un sonetto, la ricercatezza di una rima inaspettata, l’immagine ridefinita, nei contorni, da un verso, il fraseggio spontaneo in una ricerca assidua. Come non trovare questa bellezza nel Tasso, che mai è caduto – pur nella narrazione – nella facilità di rima, rifiutandosi di porre rime su avverbi, ad esempio. 
“Anch'io. Pingo e spiro a' fantasmi”… EccoLe dei miei versi, dedicati a Orfeo; essi sono concepiti avendo come modello le Grazie del Foscolo. Questo Carme consiste essenzialmente in una variazione sull’etimologia del nome Ορϕεύς; il termine ορφνη indica le  tenebre, mentre ρφανός  colui che vive solo. Questi due concetti sorreggono tutta la composizione, non soltanto in quanto le tenebre divengono simbolo manifesto dell’angoscia, del dolore del cantore, viepiù perché dalle tenebre, dal nulla, proviene qualsiasi composizione. Orfeo è «nato dall'oscurità come 'l canto», il canto trae la propria origine dall’oscurità. L’oscurità è circondata dal Nulla, nulla che viene governato dal cantore («eppur a lui siedesi accanto il Nulla,/ma lo addestra, lo governa, lo impèra/perché vera ne conosce ‘l valore.») capace – proprio a causa del suo immenso dolore – di dominarlo; sicché si stabilisce un nesso fondamentale: Orfeo conoscendo il Nulla, conoscendo realmente il non essere, lo governa. Viene riportata in auge un’antichissima dicotomia fra il conoscere e il governare. Orfeo domina il Nulla anche in quanto incapace di morire, dunque non cadrà mai nell’obblio (nel testo vien detto che il suo ricordo rimarrà in eterno: «gloria eterna de le solenni angosce/mortali e dei canti vari otterrai»). È incapace di morire perché persino la morte ne ha pietà: 
[…]il venerato uffizio al silenzio la morte cede: 
di mirarlo non ha ‘l coraggio, sente 
che ‘l canto la strazierebbe: il suo pianto 
che non s’inebri del suolo desidera. 
Così Orfeo è immortale: tale 'l dolore 
che ne ‘mpedisce la morte, non più 
la bella Euridice condurrà e brama 
un’adamantina lapide; 
Di contro all’oscurità v’è la luce, il Sole, solo che diviene immedesimazione di Orfeo, dacché l’altra etimologia – come si è detto – di questo nome è colui che è solo, che si ripresenta nel lemma latino ( sōl, solis) e nell’aggettivo solitario ( solus, sola, solum). L’immedesimazione di Orfeo col Sole è evidente in questo passaggio: 
Sole solitario, nato nell’ombra; 
e quando l'ultimo dorato canto 
concederai da li occhi consumati, 
dolce compagna la morte per attimo; 
sfiancato e lento, senza speme e vecchio, 
non è al chiaror de la disperazione 
forse più lume la dimenticanza ? 
in cui viene anche evocata la concezione della dimenticanza come luce, sicché il ricordare, il ricordare il dolore è un abisso di sofferenze, di oscurità, diversamente il dimenticare, l’oblio, è una luce. Questo passaggio viene decantato da Orfeo a Euridice, in un tempo in cui lei era viva, in cui egli ancor non conosceva il suo destino. 
Il memorare consiste in un orrore: «pur se immortale, l'arte non ha appreso/del sentenziare addio; e nell'orror memora»; Orfeo è incapace di dimenticare, pur se immortale. Proprio a proposito dell’oblio, del divenire, si puòconsiderare come Orfeo trattenga un rapporto speciale con il tempo e l’obblio stesso, con il succedersi delle ere (in cui egli rimarrà sempre) e con il termine delle cose che, non morendo, non conosce la dimenticanza. 
Giancarlo Petrella 

VII ULTIMO CANTO DI UN MONDO MORENTE

È forse d’Orfeo l’animo nutrito
di lagrime? Di tenebre lo sguardo
l’infrenato desio terminò il tempo,
dal solitario cantore commosso,
nato dall’oscurità come ‘l canto;
che per sette corsi col pianto l’arpa
di pie rugiade infuse per ovunque.
Le guance d’Orfeo sono forse paghe
di lacrime? L’infrenabile Tempo
pur lo mira e nel canto si consola;
pel pianto oblïa il verde l’erba alquanto,
l’etra apprende il sangue e accompagna ‘l canto
e li occhi tristi sostiene imitando,
così i tempi sfiorando qual fiore unico.
Narrasi che le foreste al perpetuo
metro del solitario vagar tacite
piangan; perpetuamente rintronando
tra mirti e querce e salici le lacrime
a consolare i mortali che pongono
in chi amano la fonte di speranza,
la ragione d’eterna giovinezza.
Gli animali attenti, non più son prede,
cacciatori, ma in un coro di sguardi
odono, il tutto obliando; il venerato
uffizio al silenzio la morte cede,
ché non di mirar Orfeo ha l’ardore,
ben sente che il canto la strazierebbe:
brama del suolo non s’inebri il pianto.
Così Orfeo è immortale: tale ‘l dolore
che ne ‘mpedisce la morte, la bella
Euridice non condurrà alle danze,
bramando per sé un’adamantina urna;
gli inferni cani, alla stessa ragione
lontani, s’avvian a render immondo
principio ogni forma, eppur di lui piangono.
Libero è colui che la morte tende
a beffeggiare; ed Orfeo mesce ‘l canto
con l’eterno, qual libertà mostrando
serba de la sua cetra un solo spasimo;
eppur a lui siedesi accanto il Nulla,
ma lo educa, lo governa, lo impèra:
la virtù ne conosce veramente.
La Luna or fulge per il solitario
cantore e quando una luce soffusa
emana ‘l canto di riudire brama;
ne’ sentieri silenti dei vaganti
augelli stellari vano il disperso
andar; e il grido loro al canto tacito,
zinzilulare de le vaghe stelle.
“In guisa di delfin le trombe squillino
e de’ cigni i dardi dei canti gridino
che, in corteo fauni, giungesti Euridice;
ridenti margherite, di lontano
olmarie appassite co’ vagolanti
spine; e de’ papaveri l’orizzonte
in morte ‘l funereo coro traduce.
Io questa ninfa bramo perpetuare;
ceruleo giacinto pensoso e glicine
violureo sterminato canta e ride
odori; e quando mirerai a ghirlande
di astri la diversa prole dispersa,
memorati dei fiori; speme donagli
e giovinezza, il Sole fuggirà.
Sole solitario, nell’ombra nato;
e quando l’ultimo dorato canto
concederai da li occhi consumati,
dolce compagna la morte per attimo;
sfiancato e lento, senza speme e vecchio,
non è al chiaror de la disperazione
forse più lume la dimenticanza?
Ma adriade creatura, il qual nome sciogliesi
fra le ‘nnevate nevi de’ tuoi denti,
pria di saziarmi in eterno il perire
non ti prema il destino; traducendo
vecchiezza tra le pallide tue braccia,
fedel rimanendo a la veste candida,
e il viso si sazieranno e le labbra.
Su la tua beltate arenasi un cigno,
mira, è pallido men delle tue forme;
non una funerea valle ha tante urne
quante viole ‘l suolo ove il sacro piè
tuo volava; ronzano a te dintorno
gli Dei, ben sentono che un sol tuo sguardo
sul lor infinito tedio sentenzia.
Quando il Sole lacrima, mai vedrà
le tenebre, e al punto più alto dell’etra
di giungere non si consola, miralo;
il venerato sciame degli Dei
il mistero in te ben sente dell’essere;
nei tuoi lumi si siede il cielo, il tutto
da altro punto, dovuto sdegno, mira.
E quando nel cimitero de li astri
sarai, dove da sé l’etra si tempra,
madre dell’ombra, ancella a’ sogni, volgiti;
osserva l’errante negletta terra,
dal suo usato pianto solleva il Sole,
il solitario conforta e concedi
un dolce sogno a le placate stelle.”
In un col Sole soleva cantare,
or neppur il mal sonno lo distrae;
col pianto la realtà tutta sfamando;
più lontana della giòia la morte;
pur se immortale, l’arte non ha appreso
del sentenziare addio; e nell’orror memora;
muore in eterno chi sfiora le stelle.
Più triste in ogni tramonto il solare
diviene; tempra greve cecità
il dolore de la sua solitudine;
in una notte, per malinconia,
luci diffuse la Luna per tenera
compagnia; brama ‘l solitario Sole
d’esser una di quelle fioche stelle.
Più addolorato in ogni istante ‘l Tempo
diviene; ben conosce il suo destino,
muto sarà e tacito quando l’ultima
indivisibil parte perirà;
così quando un uomo la volontà
ha consumato, lì giunge ‘l declino;
per placarlo lo mireran le stelle.
Più disperato in ogni tempo Amore
diviene; chi dolci detti a l’oreglio
giovine può soffiare? a sé rimane
un’ombra di resti d’una metëora;
temprano le lacrime la sua essenza,
l’arcana origine per cui ne li occhi
dei mortali di più ardono le stelle.
Nel tramonto il Sole tardo diffonde
le ultime lacrime a la triste gleba
pregna del pianto; giace ne li antichi
occhi la disperazione del mondo,
armonia all’eterea sanguigna veste;
negli occulti sentieri s’appropinquano
a percuotere il tempo le pie stelle.
Sordo è ‘l grido de la crudele morte
e il romore de la vittrice sorte
se da deserte terre arcane il carme
asperge sovra l’eterna memoria;
nasce dalla Notte ‘l canto e da sé
splende, come ogni mia lagrima, invidia
de li Dei, luce maggior delle stelle.
Padre mio, Orfeo, lacrima nella storia,
disperazione che ‘l tempo consola,
de le gravi angosce mortali gloria
eterna e dei canti vari otterrai,
fin quando ‘l Sole, desiando la Luna,
nel tentare di celare le lacrime
che lei diffonde, spegnerà le stelle.



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