mercoledì 6 marzo 2019

SONIA GIOVANNETTI LEGGE: "FRATELLO CATTIVO" DI GROS-PIETRO


Sonia Giovannetti,
collaboratrice di Lèucade


Sonia Giovannetti legge “Fratello cattivo” di Sandro 
Gros-Pietro


Leggendo di Harvey Russel, il personaggio che la penna di Sandro Gros-Pietro pone al centro del suo ultimo, avvincente romanzo “Fratello cattivo”, non si può non rimanere turbati dalle molte sfaccettature della sua forte personalità, inquietante ma anche, apparentemente, irrisolta.
Harvey ci viene fin dall’incipit presentato come un “sacerdote della ricchezza”, nel cui nome, per proteggerla e accrescerla oltre ogni limite, egli si erge al di sopra della morale comune e dell’etica religiosa, fino a sostituire i Dieci Comandamenti (dei quali intende rispettare il solo “non uccidere”) con una precettistica da lui stesso forgiata, i “Dieci Fondamenti della Ricchezza”, cui intende attenersi fedelmente e aderendo ai quali giunge ad autodefinirsi ossimoricamente come un “onesto peccatore”.
Questo moderno Creso, erede di una ricca e potente famiglia britannica di finanzieri da lui detestata, celebra i propri riti profani realizzando affari leciti e illeciti in ogni settore profittevole - la finanza, i media, le armi - coerentemente servendo in ciascuna fattispecie, con lucido cinismo, la sola causa in cui crede: il denaro.
Ha però un punto debole: il fratello minore Gerald, che ama e odia sin dalla nascita e della cui morte violenta è involontariamente responsabile; e un ambiguo alleato, sua moglie Shanti, amministratore delegato del suo impero mediatico, sua consigliera e complice, ma anche, come si rivelerà via via, intransigente inquisitrice della sua tormentata coscienza.
La trama narrativa alterna i fatti – le vicende familiari, gli affari, le relazioni con gli amici – con le riflessioni introspettive del protagonista, diviso tra certezze reali o apparenti, dubbi sui propri sentimenti, perfino rimorsi verso il “fratello cattivo” Gerald.
I contenuti di questo dialogo interiore, che fanno da contraltare alle azioni del protagonista, stimolano nel lettore riflessioni che aprono a linee interpretative non univoche sulla personalità di Harvey e sul contesto in cui egli opera: effetto inequivocabile di intelligenza della complessità che inerisce alla coscienza dell’uomo e alle vicende del mondo, e che l’autore mostra brillantemente di possedere.
Che uomo è Harvey? Quale mondo ci viene descritto in “Fratello cattivo”?
Egli si sente affrancato da “catechismi e perbenismi” che hanno seppellito la “dignità naturale” dell’uomo, e dunque si pone al di sopra dei Comandamenti che ne prescrivono le regole di comportamento. Somiglia allora, per questo, all’”ultrauomo” di nietzschiana memoria? Non si direbbe. Harvey, certo, è un nichilista; professa anch’egli, ignorandone i precetti, la morte di Dio. Ma se Dio è morto, non per questo è morto ogni dio. Harvey è piuttosto l’incarnazione enfatica di un uomo dei nostri tempi, che ha sostituito il dio cristiano col dio denaro, è un sacerdote del potere e della ricchezza, una figura a suo modo tragica, per il quale l’”essere” coincide con l’”avere”. Non, dunque, un “superuomo” in cerca di un “ultramondo” da fondare ex novo, ma il servo di un altro dio da ossequiare fedelmente. Reificare Dio per deificare il denaro. Del resto, ammette anche lui che “Il problema non è riuscire ad essere un oltre-uomo; non è neppure realizzare il cimento omicida di Raskolnikov, in “Delitto e castigo…” . Harvey ha bisogno di questo mondo per potervi primeggiare con ogni mezzo, liberando “i sentimenti ferini che sono il nocciolo duro della natura umana…”, e in cui “il libero arbitrio è totale”. Il mondo di Harvey somiglia piuttosto al mondo descritto da Hobbes, dove la ferinità dell’uomo è la sua cifra naturale, sia pure da limitare con ogni mezzo perché i più possano sopravvivervi. Harvey, in fondo, è un immoralista programmatico, un “cattivista” convinto più che un amorale: combatte contro ciò che ne limita il potere, e combatte per vincere, guidato da un catechismo eretico a cui si attiene rigidamente.
Tuttavia, proprio nel cuore di questa temperie relativistica in cui il protagonista impegna i propri talenti in una cruenta e diuturna lotta per la vittoria, in nome di un fine – il denaro – che giustifica ogni mezzo e dove l’uomo è homini lupus, si presentano alcune crepe che contrastano, ridimensionandola, con l’immagine di immoralista a tutto tondo di Harvey. La più vistosa è il rimorso nei confronti del fratello Gerald, divenuto un terrorista, ucciso incidentalmente da lui in uno scontro a fuoco con la polizia. Un fratello da sempre detestato, e le cui scelte Harvey ha sempre avversato, avvertendone la minaccia per la conquista e l’esercizio del proprio potere assoluto sulla famiglia. Eppure, per il cinico Harvey “quella prematura e tragica perdita del fratello ha rappresentato…un immenso dolore dell’anima, che gli ha oscurato gli ultimi quarant’anni di esistenza”. Certo, di Raskolnikov non c’è il delitto, ma c’è un incontenibile senso di colpa e una sofferenza profonda dell’anima che ha il sapore del pentimento; certo, non c’è la scelta del castigo come unica possibile espiazione, ma c’è il delirio che deforma la realtà e che, per un cultore fanatico della concretezza, rappresenta pur sempre un grave ostacolo alla lucidità necessaria agli affari. Trapela infine man mano, nell’animo del protagonista, un crescente e più generale senso di smarrimento che va oltre la morte violenta del fratello e che si direbbe esistenziale, frutto del sistema di valori adottato e delle scelte di vita conseguenti. Esso ben traspare come nostalgia di una condizione umana preclusa ad un “sacerdote della ricchezza” come Harvey, ma ora acutamente da lui vagheggiata: “Oh, la dolcezza di un innamoramento! Oh, la vertigine incontenibile dei sentimenti!...Cristo: parlami! Io sono così solo nell’universo!” Uno smarrimento che riemerge inequivocabile sul finire del dialogo con Shanti, una sorta di percorso catartico incentrato sul bilancio di una vita regolata rigorosamente dai “Comandamenti del Capitalismo Finanziario”, ma che finisce per indurre in Harvey “un crescente sentimento di stanchezza (che) più che un disgusto, è la noia e la saturazione di essere ciò che egli è ovvero che professa di essere”.
In questa fattispecie di autocoscienza infelice che non cessa di affliggere questo cinico magnate e che chiude provvisoriamente e ambiguamente il racconto – l’autore lascia aperto l’esito del percorso autoassolutorio di Harvey, ormai diviso tra lucidità e follia – si può forse intuire un’implicita apertura di Sandro Gros-Pietro alla speranza. La speranza che il male (così come del resto il bene), possa non averla del tutto vinta a questo mondo, giacché anche nell’esercizio così sistematico che Harvey Russel fa della “cattiveria”,  la perfezione è in fin dei conti, come in tutte le cose umane, una meta assai problematica da raggiungere.
Implicito il grazie a Sandro Gros-Pietro per averci, con questo bel romanzo, condotto e accompagnato su una strada di conoscenza e di riflessione intorno alla natura del mondo attuale, sulla consistenza del male che lo pervade. Ciò che potrà indurre le coscienze più consapevoli a traguardare il bene come un bisogno da coltivare e proteggere con particolare impegno in un’epoca così bisognevole di "fratellanza".

Sonia Giovannetti


2 commenti:

  1. Non ho letto il romanzo di Sandro Gros Pietro di cui parla Sonia Giovannetti, ma questo superbo commento critico mi spinge a colmare al più presto la lacuna. Trovo davvero interessante il sottile "distinguo" svolto dalla scrittrice tra il nichilismo superomistico nietzschiano che, al di là del Bene e del Male, tenta di eludere qualsiasi problema morale, e il nichilismo becero di Harvey, l'"onesto peccatore" protagonista della vicenda, con quel suo immoralismo programmatico che sostituisce il Dio dei Cristiani con il dio Mammona dei moderni Pagani. Il fatto è che non si può sfuggire al problema morale e chiunque tenti di farlo non fa in realtà che svincolarsi da una schiavitù morale per consegnarsi come schiavo ad un'altra. Harvey si costruisce un decalogo alternativo a quello cristiano, ma il problema vero è che non può sfuggire a se stesso, come mostrano i suoi sensi di colpa insuperati e insuperabili. Nessuno in realtà può sfuggire a se stesso, neppure il Superuomo che s'illude di potersi liberare dai problemi morali semplicemente svincolandosi dai decaloghi imposti. I conti con la propria coscienza sono ineludibili, ed è quanto la stessa morale cristiana in fondo evita di fare, preferendo molto spesso a quest'impegno personale con se stessi, una precettistica superficiale e perbenista. Bisogna invece, come suol dirsi, prendere il toro per le corna, e a tal riguardo trovo davvero interessante la conclusione della Giovannetti, laddove sembra indicare in una sorta di incontro e di collaborazione fraterna fra il Bene ed il Male la via di un più fruttuoso ed intimo impegno etico, rispettoso dell'integrità morale.
    Franco Campegiani

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  2. Ringrazio molto Franco Campegiani per l'attenzione che rivolge alla mia ultima lettura e alla sua attenta, colta e mirata riflessione su un argomento che sta a cuore ad entrambi. Grazie del valore che aggiunge il poeta e filosofo e grazie a Nazario Pardini che ospita, con un non comune entusiasmo, le parole che accompagnano il nostro percorso.
    Sonia Giovannetti

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