venerdì 12 aprile 2019

GIOVANNA DE LUCA: "RACCONTI INEDITI"


INCONTRI

VACANZA

Con riluttanza, pigramente, in un pomeriggio di vacanza marina in cui non so cosa fare, decido di andare a messa, alle diciotto.
La chiesa piccola, curata da poche zelantissime suore, è praticamente deserta. Nelle prime panche stanno le fedeli signore che so partecipare tutte le sere al rito.
Io mi metto, seminascosta , in fondo, in un angolo , su una panca che mi dovrebbe garantire un po' di frescura.  Accanto a me una piccola suora si volta,  sorride.
Non mi sento molto a posto, nella nullafacenza venata di qualche amarezza che mi porto dietro, mare o non mare.
Seguo distrattamente, osservo la luce che piove da un finestrone, la calvizie del celebrante, la sciarpa di una signora...Bel modo di stare a messa, vergogna!
Una breve omelia, seduta a godere la frescura.
In quel momento una figura scura, un fagotto ambulante più che una persona, si materializza dall'ingresso e viene a sistemarsi davanti a me, quasi alla mia sinistra.
Noto subito i tre enormi borsoni che porta con sé, apparentemente assai pesanti e che fa cadere dalle spalle sul pavimento. Poi mi colpisce il suo abbigliamento: stivali, pantaloni neri pesanti, un giaccone di pelle chiuso fino al collo: con il caldo che fa, è sconvolgente. Infine realizzo che è una donna, una giovane donna, con una lunga coda di capelli scuri, scomposta, sulle spalle.
Allora la mia fantasia, sorretta dalla curiosità, si scatena. Chi sarà? Da dove verrà? Cosa farà abitualmente? Non emana un buon odore, si capisce. E cosa conterranno quei borsoni  pesanti e scuri, come tutto è scuro in lei, che ha buttato in terra?
Cerco risposte, non le tolgo gli occhi di dosso: non si è seduta, ed è rimasta, come me del resto,
in  fondo alla chiesa, in un angolo. Non può essere una zingara, non ne ha l'abbigliamento. Forse viene da una giostra , da qualcosa simile a un circo, che si esibisce per strada? Forse è una demente, che vuole vivere così? E mi fermo su questo pensiero: probabilmente è una randagia, una barbona girovaga. Così giovane.
La suora accanto non pare colpita, forse la conosce. Continuo a domandarmi come faccia quella  ragazza a vivere così, se abbia una casa, se abbia parenti, un affetto, se si lavi ogni tanto...
Ma ecco, è il momento dell'Elevazione, e allora accade ciò che mi ammutolisce i pensieri, e mi spiazza : la ragazza si inginocchia in terra, meglio, quasi si sdraia sul pavimento. Da tutta la sua persona emerge un'arrendevolezza totale, un completo abbandono e insieme un'intensa, indescrivibile  forza di preghiera.
Non riesco a staccare gli occhi da lei.
Finita la messa, la piccola suora si volta verso di me e , senza conoscermi, mi tende la mano e dice con  un sorriso: ”Ci vediamo domani”.
Torno due giorni dopo. La suora mi sorride di nuovo. Di nuovo la ragazza arriva, e tutto si ripete. Capisco che va a messa tutte le sere.
Passato il tempo stabilito, nel primo pomeriggio di una giornata umida e caldissima, percorro con le persone amiche la strada infuocata verso il pullman che ci riporterà a casa. Verso la fine, la strada è costeggiata da un muretto. Su di esso, con tutti i suoi borsoni accanto, siede la ragazza.
Ha piegato un foglio di carta in modo che sia una conca e lo ha messo bene in vista, come un piattino. Sta seduta raccolta in sé, in quello scafandro di giaccone, sotto quel sole. Non chiede, sembra non vederci. Sistemate le valigie io devo, devo assolutamente scendere, devo guardarla in faccia. Ne sento la necessità.
Si volta alla mia voce, ringrazia e risponde a una forse maldestra ed enfatica frase di augurio, ma lo fa con distacco. Mi dice, al plurale: “Anche a voi.”


CORE  'NGRATO

Sabato mattina.
È  una giornata finalmente serena, la gente percorre le vie del centro tra commissioni e gusto del passeggio, i tavolini all'aperto cominciano ad essere occupati. C'è un'aria tranquilla, si respira abbandono alla desiderata primavera.
Anch'io cammino nella stradetta parallela al Corso, la mente concentrata sulle spese che voglio fare. Ed ecco, avvicinandosi il punto in cui tale strada sfocia sulla piazza della Basilica, ecco improvvisa mi travolge una ventata di suono: “Catari', Catari', / pecché mme'' ddice sti pparole amare?! Pecché... “. Mi fermo perplessa, la voce è potente, da tenore, bellissima. Lo sguardo si volge istintivamente alla Basilica. C'è un funerale, il carro funebre aspetta .
Guardo a destra: accovacciato, seminascosto nell'angolo  dell'arco, un artista di strada canta e suona. “Nun  te scurdà ca t'aggio dato 'o core, Catari'”.
L'istinto primo è di ribellione, un funerale e una canzone napoletana come si accordano?
Ma la voce pervade ogni angolo dell'arco, ne esce , si spande nell'aria. E il testo è poesia, è rimprovero, rimpianto, angoscia, una canzone classica delle più belle napoletane, cantata da grandi tenori. Canta a occhi chiusi l'artista, è magrissimo, avvolto in panni scuri indefinibili, quasi incollato all'angolo del muro. Nessuno si ferma, pochi euro brillano nel raccoglitore, e la sua voce si alza , si alza, tocca il soffitto dell'arco, ne esce  e va, va , fino al  carro funebre.  “Core, core 'ngrato...”. E intanto la bara esce dalla chiesa  e nella luce del mattino i due eventi non mi sembrano più contraddittori, né irrispettoso il canto. Mi abbandono alla melodia, e morte e vita si  avvincono in essa: “T'hê pigliato 'a vita mia / Tutto' è passato / E nun ce  pienze  cchiù”.
Ora si è fermato qualcuno, un attimo.  La canzone finisce, mi avvicino, mi complimento con lui, gli chiedo se ha mai tentato la via della lirica. Non mi capisce, non è italiano, forse slavo. Mi domando se comprenda quello che canta . Noto il suo largo, mite sorriso. Per un momento ci guardiamo, in silenzio. Gli dico: “Ancora “. Lui annuisce, chiude gli occhi ed ecco si rialza, potente, la sua voce: “Catari', Catari', che vène a dicere...”
                    
© GdL

                                                                                               

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