martedì 16 aprile 2019

SANDRO ANGELUCCI LEGGE: "MA NON E' FORSE..." DI M. G. FERRARIS




PRESENTAZIONE MARINA CVETAEVA: Ma non è forse anche l’amore un sogno? di Maria Grazia Ferraris

Sandro Angelucci,
collaboratore di Lèucade

Nel Maggio del 1913, all’età di poco più di venti anni, Marina Cvetaeva scriveva - a mo’di vaticinio ma anche di presentimento - i versi di Cammini, a me somigliante rivolti ad un ipotetico visitatore cimiteriale.
Ritengo opportuno citarli per entrare in medias res sia della superba trattazione saggistica di Maria Grazia Ferraris sia del mondo poetico di una delle più grandi scrittrici e poetesse russe:

Non credere che qui sia - una tomba,
che io ti apparirò minacciando…
A me stessa troppo piaceva
ridere quando non si può!

E il sangue affluiva alla pelle,
e i miei riccioli s’arrotolavano…
Anch’io esistevo, passante!
Passante, fermati!

Strappa uno stelo selvatico per te
e una bacca - subito dopo.
Niente è più grosso e più dolce
d’una fragola di cimitero.

Solo non stare così tetro,
la testa chinata sul petto.
Con leggerezza pensami,
con leggerezza dimenticami.

       Da quanto letto, nulla lascerebbe pensare ad una morte per suicidio, eppure - come saprete - Marina si tolse la vita legandosi un cappio al collo: era l’Agosto del 1941.
       Fin dall’incipit s’avverte, al contrario, una vigoria, una volontà vitale addirittura straripante, sanguigna, radiosa; tutt’altro che umbratile e spenta.
       Ovvio domandarselo: come mai allora? Perché arrivare all’atto estremo?
       La nota saggista, che questa sera abbiamo l’onore di ospitare - oltreché stilare una monografia di rara efficacia per esaustività dei contenuti - non solo ci permette di capire ma ci fornisce gli strumenti adatti per darci noi stessi le risposte.
       Lo studio si divide in sei capitoli: dopo la descrizione del contesto storico dei durissimi anni della rivoluzione russa (1917 -1919), dei quali inevitabilmente patisce anche la vita intellettuale, tanto da indurre la Cvetaeva a scrivere: “[…] Avevo gli stivali ricavati da un tappeto, il vestito fatto con una tovaglia, il cappotto con un mantello della mamma e il cappello con un cuscino ricamato d’oro,…che mi facevano sembrare un’adolescente pallida e appassita di una tribù asiatica nomade…Potevo vivere, ma ero disposta anche a morire: tutto mi era, in un certo senso, indifferente.”, la Ferraris prende in esame i temi salienti che ne caratterizzarono la poetica: anzitutto l’Amore (“Il fuoco gelido” di Marina); quindi le figure mitologiche femminili, verso le quali aveva sempre provato attrazione, per poi “chiudere il cerchio” con la sezione dedicata al Teatro, con il quale si riconcilia grazie ad un incontro amoroso più che per convinto interesse: “Non rispetto il Teatro non mi attrae, non lo tengo in conto. Il teatro mi è sempre sembrato un sostegno per i poveri di spirito…una garanzia per i furboni del tipo San Tommaso, che credono solo in ciò che vedono, di più: in ciò che toccano. Una sorta di alfabeto per i ciechi… mentre l’essenza del poeta è credere sulla parola! Con la sua cecità congenita nei confronti della vita visibile il poeta restituisce la vita invisibile (l’Esistere) […]”.
       Prendo spunto da quest’ultima citazione - tratta naturalmente dall’opera che stiamo presentando - per entrare nel vivo, nella Weltanshauung della poetessa così come - ripeto - la nostra Saggista ci permette di scendere e penetrare presentandocela per quello che è stata, mettendone a nudo l’anima senza interferenze di sorta ma libera, trasparente, nel modo in cui, se fosse in vita, la stessa Marina desidererebbe fosse mostrato il suo mondo interiore.
       La Cvetaeva parla di cecità congenita del poeta riferendosi alla visione del mondo comunemente esperibile ma anche di riconsegna, da parte dello stesso, dell’invisibile, con l’identificazione dell’esistere non nella vita ma in ciò che sotterraneamente scorre sotto la superficie.
       Il Teatro, dunque, è rappresentazione; la poesia, essenza. Il Teatro è necessario a chi deve toccare per credere; la poesia è di chi crede sulla parola e, conseguentemente, nella parola.
       La frase - rimasta celebre - che lasciò scritta prima d’impiccarsi, riassume drammaticamente ma con coerenza la ferma ed incrollabile convinzione sopra esposta: “Io non voglio  morire. Io voglio non esistere”.
       C’è molto da riflettere: l’input ce lo fornisce Maria Grazia stessa che, così si esprime a pag. 16 del suo saggio: “Tutta la sua vita e la poesia furono una sfida lanciata alla consuetudine, al perbenismo, alle forme accettate, un’impresa di rivolta e di coraggio, spesso di oltraggio, anche verso se stessa.”.
La reazione quindi ad uno status quo, ad una condizione imposta, basata sul formalismo ipocrita e falso, simulato; un moto di ribellione che coinvolge non soltanto la società ma, soprattutto, la poetessa (come acutamente fa intendere l’autrice della monografia).
È questo il punto: c’è insofferenza nell’animo della Cvetaeva, il bisogno di trasgredire sia le leggi umane sia le divine (è lei medesima a ribadirlo al critico Aleksander V. Bachrach disquisendo del suo poemetto Molodec, Il Prode). Ed è sempre Marina a parlarne, autoanalizzandosi, al grande amore - agognato ma mai vissuto - della sua vita. Spiega a Pasternak: “ Voi siete entrato nella mia vita dopo una mia grande devastazione: avevo appena finito un lungo poema - non un poema: un’ossessione, e non sono stata io a finirlo ma lui a finire me - il distacco è stato lacerazione! e io, liberata, mi rallegravo.”, e ancora gli confida che Marusja (la protagonista dell’opera) compie una scelta anticonformistica: decide di amare un ragazzo che nasconde dietro incantevoli sembianze la sua natura di vampiro; per passione, per travolgente passione, ella non prende le distanze dalla verità, al contrario, non solo l’accetta ma ne fa motivo di emancipazione, di riscatto. E scrive: “Io stessa sono una Marusja: vivo onestamente, come si deve ( e onerosamente - come si può), mantenendo la parola data, difendendomi, appartandomi dalla felicità, semiviva…senza sapere io stessa perché vivo così, obbediente nella violenza su me stessa, andando perfino a quel Canto dei Cherubini - seguendo una voce, per volontà altrui, non mia […]”.
Il grande tema dell’Amore - quello autentico: perché onnicomprensivo - caratterizza la profondità di questo saggio.
       Già, perché l’Amore è qui trattato nella più ampia accezione del termine: lungi dall’essere considerato un mero fatto sentimentale (è anche questo, ma soltanto perché appartenente alla sfera interiore), lo stesso viene preso in esame - attraverso la travagliata vicenda della Cvetaeva - per essere il più impenetrabile dei misteri che avvolgono la permanenza dell’uomo sulla Terra.
       La bravura della Ferraris è stata proprio quella di avercelo presentato in tutta la sua complessa e contraddittoria sostanzialità. Tanto da titolare il terzo capitolo del suo lavoro: Il tema d’AMORE. Il “fuoco gelido” di Marina, attaccando con un incipit che non lascia spazio ad interpretazioni d’altro genere: “Marina Cvetaeva ha fatto della metafisicità del tema amoroso la cifra della sua scrittura”.
       Nel capitolo, la Saggista si rifà ad un libro, Il racconto di Sonecka in cui la scrittrice russa - cito testualmente - “ci tramanda l'immagine di una donna sempre giovane, sorridente, allegra, pronta allo scherzo e al travestimento, che (l’) ha sedott(a) e incantat(a) con la sua vitalità e il suo entusiasmo […]”.
Scrive ancora Maria Grazia: “... è la storia di un amore che trae la sua bellezza e grandezza nel non essere mai compiuto, mai fisicità.”. Ora, d'accordo che la dimensione ultraterrena amplia lo spettro, ma non dimentichiamo che la corporeità stessa è metafisica.
E non sembra nasconderselo neppure la poetessa, la quale, poco dopo, descrive in questi termini la fisicità del suo personaggio: “Non corpo, ma fuoco. Davanti a me è un incendio vivo. Tutto arde, lei arde tutta. Ardono le guance, ardono le labbra, ardono gli occhi, senza bruciare ardono nel falò della bocca i denti bianchi, ardono - quasi turbinando nella fiamma - le trecce, due trecce nere, una sulla schiena, l’altra sul petto, proprio come volata via da un falò.”.
Indiscutibile l’aspetto etereo ma - chiediamocelo - da cosa nasce? Prende vita dall’ardere delle guance, delle labbra, degli occhi, dei denti, delle trecce: tutti elementi corporali, carnali, che evidenziano il prorompere di un eros che tutto è fuorché relatività o - meglio - è riprova che nulla di più assoluto si palesa come accade con ciò che ricade sotto l’esperienza sensoriale.
Torniamo a quanto precedentemente menzionato, e riportato a pagina 16 della monografia: l’asserzione dell’Autrice e l’ultima testimonianza lasciata dalla Cvetaeva. Ho detto che c’era molto da riflettere: bene, è giunto il momento di farlo.
Rinfreschiamoci la memoria (repetita iuvant): “Tutta la sua vita e la poesia furono una sfida lanciata alla consuetudine, al perbenismo, alle forme accettate, un’impresa di rivolta e di coraggio, spesso di oltraggio, anche verso se stessa.” - scrive la Ferraris -.
Su cosa ritengo necessario fermare l’attenzione? Sull’offesa, sulla denigrazione che Marina rivolge alla sua persona.              Opportunamente la Saggista riporta il pensiero della moscovita: "L' anima non è amata mai quanto il corpo; al massimo, lodata […] Ma non è forse anche l'amore un sogno? E non è lo stesso amore per il corpo un dannarsi per l'anima? […] L' amore vive di parole e muore di atti".
Considerazioni cui fa seguire il proprio pensiero che, pur mantenendosi in sano equilibrio, non può non riscontrare nell’assunto una qualche contraddittorietà: “c' è tutto il rifiuto di un amore-passione, che Marina identifica con la promiscuità dei corpi, e che però lei stessa alimenta nelle lettere, nelle parole, di cui vive, si può dire quotidianamente, il tormento e l' estetica dedizione”.
       Ma perché, ripeto, perché l'amore per il corpo dovrebbe essere una dannazione per l'anima? L'unica risposta plausibile che mi sento di dare interpretando il concetto, alla luce del lavoro della Ferraris,  è che la carnalità è percepita tale in quanto immensamente al di sotto dello spirito. Ma anche questo non mi convince appieno: sono persuaso che la distinzione non abbia motivo di esistere proprio a livello spirituale.     
       Il riferimento al mito di Amore e Psiche - quanto mai pertinente - sul quale Maria Grazia si sofferma; con l’orfica prescrizione per l’amata di non guardare in volto l’amante, mi offre l’opportunità di essere ancora più chiaro: il visibile non deve limitare la conoscenza: intendo dire che il simbolo (la metafora), in poesia come nella vita, è vero che è un mezzo ma allo stesso tempo un fine, altrimenti cede l'impalcatura di un equilibrio delicatissimo. D’altro canto, come si conclude la storia? Amore, mosso a compassione, ottiene da Giove il dono dell’immortalità per Psiche; la sposa, e dalla loro unione nasce Voluttà. Potrebbe apparire un lieto fine ma non è così; tutt’altro. È la conclusione di un dramma: l’appagamento dei sensi che prende corpo non dalla vita bensì dall’elargizione, dall’intercessione di Zeus. È la stessa tragedia che vive la Cvetaeva: quella lacerazione interiore tra il sogno e la realtà che la porterà a dire “le sconvolgenti e definitive parole” (con le quali la Ferraris chiude il quinto capitolo): “Io non voglio morire, io voglio non esistere”.

Sandro Angelucci

2 commenti:

  1. Ringrazio S. Angelucci che mostra tutte le sue qualità di fine lettore sottolineando alcuni capitoli che illustrano l’originalità della poetessa russa: l’Amore (“Il fuoco gelido” di Marina)…: “l’Amore è qui trattato nella più ampia accezione del termine: lungi dall’essere considerato un mero fatto sentimentale (è anche questo, ma soltanto perché appartenente alla sfera interiore), viene preso in esame - attraverso la travagliata vicenda della Cvetaeva - per essere il più impenetrabile dei misteri che avvolgono la permanenza dell’uomo sulla Terra.” Distingue tra l'amore per il corpo, la carnalità percepita come immensamente al di sotto dello spirito, dannazione per l'anima e la convinzione che “ la corporeità stessa è metafisica”. Chiude il cerchio con la sezione dedicata al Teatro… sottolineando la convinzione di M. C. che il Teatro è rappresentazione, la poesia, essenza. “Il Teatro è necessario a chi deve toccare per credere; la poesia è di chi crede sulla parola e, conseguentemente, nella parola.” confermando così la sua raffinata lettura poetica.

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  2. Sandro Angelucci nella magica serata dedicata alla Poetessa russa ha messo in evidenza le sue rare capacità di sondare il femminino in ogni sua sfumatura. Sia lui che Franco, inoltre, hanno saputo spiegare con maestria quanto il suicidio di Marina Civetaeva non sia stato dettato dalla volontà di morire, ma 'di non esistere' in un mondo troppo lontano dal suo carattere, un mondo ipocrita, conformista, sempre lontano e straniero. Maria Grazia ci ha donato l'affresco di una donna di straordinaria modernità e conoscerla mi ha reso profondamente felice. La ringrazio ancora per averci onorati e sono grata ogni giorno agli Amici fraterni del Circolo per i contributi straordinari che riescono a dare alla Cultura.
    Maria Rizzi

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