lunedì 10 giugno 2019

MILVIA PAGLIARINI LEGGE: "VERSO LA LUCE" ANTOLOGIA POETICA


ALMA POESIA, VERSO LA LUCE

IMPRESSIONI DI MILVIA PAGLIARINI



Ha ancora un senso la poesia in un mondo così disincantato e tecnologico? O forse ha  ancora più senso proprio per questo?
Montale diceva che, quando gli veniva richiesta ufficialmente l'attività svolta, scriveva “giornalista”; non gli sembrava serio scrivere “poeta”.
Poesia è l'umanità che riflette su se stessa attingendo a sentimenti universali nell'esprimere la felicità di un attimo o la paura, il dolore più profondo. Si dirà: tutti lo sanno fare, quando lo provano; ma non è vero. Ecco quindi la qualità del poeta: trovare la parola che esprima quel sentimento, quella emozione, inserendoli in uno spazio più grande dove tutti ci possiamo riconoscere. I quattro protagonisti di questo piccolo volume mi sembrano possedere questa qualità essenziale.
C'è anche ad accomunarli un motivo di fondo ricorrente nella poesia: il senso  della vita che fugge, declinato secondo le diverse sensibilità ed esperienze.
Quelli che io esprimerò qui in relazione a ognuno di loro non sono – né potrebbero esserlo – giudizi ma semplicemente emozioni.
Il primo autore di questa  raccolta è Pasquale Balestriere che nelle dieci liriche qui incluse dispiega tutta una visione della vita con  espressioni estremamente suggestive che, a volte,  ci fanno cogliere solo in un secondo momento il senso più profondo delle parole.
C'è nei suoi versi spesso il sole della sua terra (“sapevamo / però di soli appesi nell'azzurro / a nutrire la voce della luce”)
C'è l'impeto selvaggio proprio della sete di esperienze che accompagna la giovinezza (“avidi attraversammo / esplose primavere”; “un fuoco divorava a riga a riga / le parole sul foglio della vita”).
Vi è descritta, quasi con rabbia, l'ansia di cogliere l'attimo (“sapias, vina liques, carpe diem”) allentando con ciò inevitabilmente le corde degli affetti.
Ma a questa musica forte si affianca, come un accompagnamento in minore, un tono disincantato, perché tutto è visto in un momento successivo, quando arriva la consapevolezza  che il viaggio non è interminabile e sopraggiungono “grappoli fitti d'accese memorie” a svelare il passo corto del tempo. Quando si arriva a chiedersi , con Neruda e Montale, quanto si è vissuto.
È il tempo del ripiegamento, espresso nelle liriche “Memorie di Ulisse”  e soprattutto “Sorte in cui ritornano anche l'infanzia e la nostalgia degli affetti. C'è poi, vicina a questo mondo degli affetti e resa con uno stile appena più sommesso e colloquiale, l'intensità di liriche  come “È morto ieri”, “Ultimo canto per il padre”, “Se a me in forma di soffio” dove prendono vita nelle parole la compassione, il rimpianto, l'amore oltre la vita.
A chiusura di queste brevi considerazioni vorrei riportare, di Balestriere, alcuni versi della poesia “Tramonto a Paestum”:
“ ………………...E sono i templi,
                         arpe d'oro, che forniscono suoni
                         alle dita del vento:
                          de te narratur, soffiano leziosi
 perché davvero questa storia antica
 ci appartiene da sempre…”
La forza evocativa di questi suoni riesce ad allontanare l'opacità del quotidiano. Certo il peso della vita ritorna sempre, ma una scheggia di bellezza rimane in qualche parte di noi a renderci più umani.
Seconda nell'ordine di questa raccolta è Carla Baroni.
È un'acqua fonda Carla Baroni.
Nell'accostarmi quindi alle liriche di questa raccolta non posso non ricordare quello che lei stessa, in altra sede, ha detto di sé:
                           Io sono l'acqua, amico, sono l'acqua
                             che non conosci, anche se è sincera.”
Suona un po' come un guanto di sfida, nella consapevolezza della propria complessità.
Se ne dovrà tener conto nell'analizzare i temi della sua poesia che troviamo in queste dieci liriche.
Bisogna dire che nessun aspetto della vita e della storia  le è estraneo (“Il pendolare”, “Lascia i terreni affanni”, “La terra trema”) ma qui ricorre anche il mistero dell'Universo e, dentro questo, il miracolo dell'uomo, capace di percepire se stesso, di amare, di soffrire, di distinguere il bene dal male, “minimo cosmo” ma “ misterioso più dell'universo” e destinatario, forse , di un progetto d'amore (“Ancora splende / la chimera lontana di un approdo”; “Dammi un segno dall'ombra del tuo vuoto / dammi quel segno che mi renda certa / che polvere non siamo ma qualcosa / che sopravvive in un disegno eterno”).
Ritroviamo anche, ricorrente nella sua poesia, il motivo del rimpianto per aver troppo rinunciato e insieme la consapevolezza che  comunque  l'attesa dell'amore non finisce mai (“ma io attendo sempre il fiore rosso / che mi schiuda le labbra nella sera”),
ma qui non dobbiamo indulgere nella tentazione di un giudizio sentimentale.
Dobbiamo ricordare che accanto alla nostalgia per quanto nella vita è mancato, ricorre  sempre,  nella Baroni, la consapevolezza, allo stesso tempo dolente e autoironica, che nessun amore sarà mai all'altezza del sogno cui si accompagna.
Dietro la sua poesia c'è sempre un'intelligenza disincantata che misura ogni slancio  con il metro della realtà, capace di passare per vari gradi di ironia, fino all'aperta  canzonatura (“La ballata della strega”, “La pozione”).
In questa raccolta questo suo tocco da strega gentile lo troviamo esercitato niente meno che nei confronti di T. S. Eliot.
È irresistibile la garbata ironia fra il tempo - non tempo di Eliot, apostrofato come “astuto ladro di altrui rime”- e la grazia di Filomela, piccolo usignolo, che ancora canta “il suo liquido canto alla natura / immemore che il tempo non sia tempo / ma lieta del chiarore della luna”.
La poesia è anche questo e nemmeno Eliot si sarebbe adontato, lui capace di scherzare con i suoi “gatti tuttofare”.
Si giocano soprattutto sul tema del ricordo le dieci liriche di Nazario Pardini e si connotano in una particolare nostalgia.
C'è  un'intensità quasi lacerante nel ricordo più remoto: lo stradone della scuola ( si indovina tutto un mondo durissimo dietro quello stradone); la scuola a cui si giungeva infreddoliti ma sognando prati verdeggianti anche a dicembre. Poi il ricordo dei sassi lanciati con le fionde e l'impeto che accompagnava il gesto (“riuscivo a silurare il cielo con le pietre / convinto di bucare anche le nubi”).
I falò dell'autunno caratterizzano la nostalgia dell'adolescenza e risvegliano la sensazione quasi fisica del “tiepido muretto adolescente”in cui si concentrano memorie di altre stagioni.
Non può mancare l'amore in questa “rêverie” ed ecco Delia, le mani che si sfiorano, un bacio rubato tra le foglie amarognole delle viti, durante la vendemmia.
C'è anche evocato con levità, come per non destare un dolore sopito, il ricordo di Lidia, dagli occhi lucenti, che non cedette “la luce dei vent'anni / in cambio di vecchiezza”.
Ma quello che soprattutto rimane, come l'immagine di un quadro, è la piazzetta in mezzo ai tigli, la piazzetta degli incontri con il barettino che offriva cioccolato caldo; la piazzetta dove rimane la sensazione di “un'aria che sapeva di speranza”: a ogni ricordo comunque, in ogni fase della vita, si accompagna la percezione costante della bellezza della natura nella successione delle stagioni; il biondo dei covoni, i pampini invecchiati, il rosso dei gerani e, su tutto , il senso di pace della campagna, lasciando i rumori della città (“Tornavo ch'era sera”, “L'erbale silenzio”).
Dal passato non ritornano comunque solo ricordi personali ma anche, come evocate dal paesaggio del sud, memorie del mondo classico (Cilento, Meridione).
Ecco quindi i fantasmi di Mori guerrieri, di Normanni e Angioini e soprattutto di lui, il “laico imperatore”, Federico, stupor mundi, straordinaria figura di sovrano, spregiudicato politico, guerriero, statista, poeta fra i suoi poeti di scuola siciliana e grande esperto di falconeria.
Non a caso forse alcuni dei versi più belli  della lirica “Meridione” vedono un falcone librarsi su mura di severi castelli e su “rami imbionditi di ginestre” tra spine di fichi d'india, profumi di zagare e limoni; e questa è soprattutto l'immagine che resta, dove la memoria storica e il paesaggio si fondono in un'unica suggestione.
Che dire infine di Umberto Vicaretti e dello sguardo lucido e desolato con il quale contempla il dolore della vita fino a sentirsi “uccello migratore perso al vento / straniero ai cieli ed alle rotte amiche”?
L'Eden sognato è svanito ed ora siamo tutti  come viaggiatori senza una meta in un mondo dove “bruciano le città” e “alti crepitano fuochi e ampolle d'odio”.
Il suo sguardo sul mondo coglie il dolore, l'orrore , la disumanità (“Via delle cento stelle”, “Dicotomia del fuoco”, “Stabat mater”, “I fiori di Bodrùm”). Ne esce un tragico elenco in cui il Male ha raggiunto un punto di non ritorno con Hiroshima e Nagasaki da Bergen-Belsen al deserto Srebrenica,  fino ad Aisha che ignara attraversa il fiume con passo leggero ed Aylan che “dorme” sulla spiaggia di Bodrùm.
Eppure nella musicalità del verso e nella straziata dolcezza  con cui sono descritte le piccole vittime sembra di cogliere - ineliminabile- il desiderio di ritrovare uno smarrito sentiero di luce, come se la cetra della poesia potesse “mitigare le ferite”. Forse le vittime  Aisha e Aylan troveranno “passaggi e mappe per un altro approdo”, anche se in questo mondo, al di là di ogni immeritata redenzione, la terra ancora brucia.
Ma c'è una corda più intimistica nella poesia di Vicaretti che trova voce in liriche quali “Notturno”, dedicata alla figlia, “Canzone di Orfeo”, “Scrivimi che stai bene”, rivolta alla madre, “Dicotomia del fuoco, II”.
In questo ambito  collocherei anche l'affetto-amicizia espresso nei versi rivolti a Mario Luzi (“Il prezzo da pagare”) e soprattutto nell'immaginario contraddittorio con l'amico Pasquale Balestriere (in “Montaliana II”). Qui, riferendosi ad una poesia dell'amico (“Sorte”) e riprendendone alcuni versi – di montaliana suggestione – ne trae una conclusione che si traduce in “pegno d'amore a disarmare il male”.
Mi piace  comunque chiudere, sul tema dell'amore, con gli ultimi versi della lirica rivolta alla madre, di particolare musicalità:

                   “Ma intanto che io scrosto palmo a palmo
                     rubini e stelle al cielo dell'infanzia,
                     nel tempo chiaro e indenne in cui tu vivi
                     prendi una rosa e scrivi,
                                                           scrivimi che stai bene.”

A conclusione di queste mie personali considerazioni (ribadisco: non giudizi) mi verrebbe spontaneo ringraziare questi quattro poeti per le emozioni che mi hanno procurato. Ma poi mi dico? Perché ringraziare? Come disse Mario il postino nella sua isola a Pablo Neruda: una poesia non è di chi la scrive ma “di chi gli serve”. E così sia sempre.
                                                                                                  Milvia Pagliarini

3 commenti:

  1. Carissima Milvia, infinite grazie per aver commentato con tanto acume e generosità le poesie di ciascuno di noi, mettendone sempre in evidenza i pregi e le peculiarità. Un giudizio - sebbene tu non lo chiami tale - molto positivo che ci rallegra e che speriamo venga condiviso anche da molti altri. Ancora grazie da parte di tutti noi.

    Carla Baroni

    RispondiElimina
  2. Mi unisco a Carla nel ringraziamento a Milvia Pagliarini per questa nota di lettura densa e mossa, che rivela spiccata sensibilità interpretativa, acutezza d'intelletto, ricchezza verbale e apertura mentale. Doti, queste, che non mi capita di riscontrare in note critiche, letture o considerazioni tanto pretenziose quanto inadeguate, talvolta pubblicate sui blog letterari e (purtroppo)anche su questo.
    Pasquale Balestriere

    RispondiElimina
  3. "Poesia è l'umanità che riflette su se stessa": perfetto questo "abito" su misura con cui Milvia Pagliarini "veste" la Poesia; e in tale dimensione, io aggiungo, la Poesia non è che la sublimazione dell'umanità. L'assunto di Milvia Pagliarini richiama l'apostrofe "Vola alta Parola" con cui Mario Luzi evoca il magistero del Poeta e sottolinea la sacralità della Parola, in quanto "essa è il segno e la testimonianza del divino che è nell'uomo; perché la Parola" (e la Poesia è la Parola per eccellenza) "ha il potere di richiamare l'uomo a se stesso, alla sua coscienza".
    Un apprezzamento convinto e sentito a Milvia
    Pagliarini per la sua articolata , pertinente e profonda nota critica, in cui ha saputo individuare perfettamente non solo elementi, stilemi, visioni che caratterizzano i nostri mondi poetici, ma ha anche saputo "leggerne", in filigrana, la valenza e la tensione etico-filosofica che li attraversano.
    Di ciò le siamo davvero grati.
    Umberto Vicaretti.

    RispondiElimina