domenica 16 marzo 2014

ROBERTO MESTRONE SU "CANTAVAMO", DI N. PARDINI




Cantavamo


 
Cantavamo, paese, 
se affogavi nel giallo dei granturchi.                           
Cantavamo sui pavimenti
dove sorrideva la luce dei camini.
Cantavamo sopra gli alari
arroventati dalle pire delle potature
(la loro colpa era quella di avere chiuso la stagione).
Cantavamo romanze,
i cui eroi vincevano battaglie
che noi perdevamo ogni giorno, ogni ora
(cavalli bianchi, cavalieri e palafrenieri incorruttibili dal tempo).
Anche le madri cantavano già vecchie trentenni
e muovevano le mani gesticolando sui ritmi.
Mani tumide per le umide terre delle prode.
Eppure ogni anno la natura si sacrificava paganamente
sui roghi, nei forni e sulle corti,
per consegnarci i suoi profumi
(profumi che io conobbi sempre eguali
e che sembravano non soggetti a mutamenti).
Cantavamo stornelli
coi vinelli freschi del novembre.
Quando le botti ci accompagnavano
coi loro vocalizzi profumati,
rossi e iterati come gli strappi delle roncole.
I padri coi riti tramandati dagli aruspici etruschi
roteavano il primo liquido nel vetro predicente                           
per misurarne il corpo. Era la festa delle cantine,
la stessa festa che più volte presso gli antichi
avrà veduto Bacco e Cupido aggirarsi divertiti
al suono di zufoli e litofoni.
Cantavamo preghiere che Pan ci ispirava di ringraziamento
pei fulvi grani, pei pampini rossicci o pei vermigli frutti;
preghiere che i pagani
consegnarono pietosi nelle mani
dei cristiani facendosi santi.
Cantavamo senza perché la madre eterna
potesse anche essere ingiusta.
La pregavamo sulle strisce d’oro dei tramonti;
se esplodeva nei protervi affollamenti estivi;
se cadeva stanca meritandosi la morte;
o se riposava sotto i diluvi e le gelate.
E sembrava persino ringraziarci
o chiederci perdono
per le siccità, per le carestie o le morti precoci;
lo faceva turgida coi crisantemi e gli asfodeli
sui  suoi cimiteri
aperti al cielo colle loro croci.

Nazario Pardini 



In riferimento al post sul blog "L'ombra delle parole" di cui il link:

http://lombradelleparole.wordpress.com/2014/03/11/una-poesia-di-nazario-pardini-commentata-da-giorgio-linguaglossa/


 CANTAVAMO 
insieme

Varco timidamente l'uscio di questo blog assistendo, con misurato interesse, al dibattito che una singola voce riesce a suscitare nei   commenti di attenti e illuminati lettori.
A questo coro mi unisco anch'io – minuscolo frammento nell'universo letterario – con parole semplici e spoglie di congetture accademiche, affinché anche a chi non è avvezzo ad artificiose elucubrazioni giunga chiara l'eco del mio pensiero.
Premesso che qualsiasi opera letteraria (al pari di tutte le altre espressioni artistiche) deve essere necessariamente posta al vaglio del Critico, è pur vero che chiunque (e per chiunque intendo ogni creatura pensante) può prendere posizione rispetto ad essa.
Non può quindi esistere un parere censorio dominante o super partes.
La Poesia – come tangibile sublimazione del pensiero umano – esprime la volontà e la necessità dell'artista di porsi in relazione con l'alterità, e quindi deve essere alla portata di tutti; ed ognuno fruisce dei messaggi da essa dispensati.
Messaggi d'amore e di odio, di speranza  e di rassegnazione, di gioia e di amarezza... e di ogni altro sentimento sparso nel nostro sentiero di vita.
La penna del cantore, immergendosi nel calamaio di vivide nostalgie o dei colori della natura, indirizza garbate missive all'anima – voce critica, amorevole quanto severa, delle nostre debolezze – e ci sprona a scavare nelle macerie che giorno dopo giorno accumuliamo davanti a noi: ci suggerisce di ritrovare, tra i cumuli di rovine della nostra folle corsa, la fede che abbiamo perduto, i valori che abbiamo calpestato, lo spirito del Bello (imbrattato di mercimonio) che i nostri avi ci hanno tramandato.
E – qualora se ne riscontrasse l'opportunità – ben venga sedersi all'ombra di Pascoli o di D'Annunzio ascoltandone i palpiti dei cuori, senza peraltro plagiare neanche un battito. Nessun poeta talentuoso vorrebbe (né potrebbe) imprimere un'orma uguale a quella lasciata da altri vati. La penna virtuosa, come l'abile strumento dell'artigiano, non creerà mai un'opera uguale (e forse neanche simile) ad un'altra. Gli accenti che serbiamo in petto sono unici nel lirismo che racchiudono e nei variegati colori delle loro vesti.
Mi si obietterà: questo excursus indossa un abito meramente critichese e adduce motivazioni semplicistiche, non ponendo obiettive basi di indagine sull' usus scribendi dell'autore.
Sarà forse vero, ma è altrettanto tangibile una certezza: la lirica di Pardini NON proviene da un mondo scomparso e naufragato.
E non siamo i soli a preferire un lessico ingiustamente accusato di anacronismo.
D'altro canto gli stilemi che coniugano strofe pregne di neologismi roboanti o che permettono a certe congiunzioni monosillabiche di ultimare un verso, appartengono ad autori che della loro libertà di espressione hanno fatto un'accozzaglia di pensieri in libertà, privi di pathos e genuinità, macchinosi  e  incomprensibili per gran parte dei lettori.
Nel mio umilissimo percorso d'Arte io prediligo passeggiare in compagnia di sonetti, canzoni, madrigali ed altre forme poetiche;
dovrei forse abbandonarle poiché provenienti da un lontano passato?
Alcune strutture liriche classiche nostrane sono state adottate (ed amate – basti pensare al sonetto) da culture di mezzo mondo.
Montale, il poeta che accoglieva nei suoi versi le fragilità umane assegnando alla Poesia il compito di spalancare agli uomini la porta del comunicare tra loro per riscattare la Dignità, nel suo discorso a Stoccolma, in occasione del conferimento del Nobel (12 Dicembre 1975) asseriva (cito testualmente):
“ … Esistono in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e muore appena espressa, e l'altra può dormire i suoi sogni tranquilla. Un giorno si risveglierà, se avrà la forza di farlo...”.
Bene! E allora evviva al mondo anacronistico (?) di Pardini, abitato da zufoli e litofoni, da pampini rossici o vermigli frutti!
Rimanga desto il suo canto che non si è mai addormentato!
Gliene sarò riconoscente.
E citando ancora testualmente Montale nel finale della sua Nobel Lecture:
“ … non solo la poesia, ma tutto il mondo dell'espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di essere umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun altra creatura vivente può vantare
Chi non vuole andare alla deriva deve ancorarsi con tenacia alle sponde di un passato più presente che mai: ne abbiamo bisogno per sconfiggere il malcelato nichilismo intellettuale del Nuovo e della Dittatura del pacchiano.

 Roberto Mestrone


1 commento:

  1. Poter apprezzare così, contemporaneamente, due Maestri come Nazario Pardini e Roberto Mestrone, è davvero gratificante. Ho letto la poesia " Cantavamo" e subito, mi ha rapita in un canto. Ha detto tutto, Roberto Mestrone, nella sua chiarissima critica letteraria. L'uso dei termini ha poco di anacronistico e ben si sposano al tempo verbale utilizzato. Io, che appena sfioro la poesia, quella vera, non posso fare altro che restare con la meraviglia dei versi..."aperti al cielo colle loro croci."

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