Cinzia Baldazzi, collaboratrice di Lèucade |
Cinzia Baldazzi legge “I
dintorni dell’amore ricordando Catullo” di Nazario Pardini
«È
proprio vero, il fiume scorre portandosi dietro ciottoli, acque chiare,
torbide, detriti, piene e bonacce, e tutto va a finire in un mare immenso,
infinito».
L’incipit della Lettera ad una amica mai conosciuta inaugura la silloge I dintorni dell’amore. Ricordando Catullo
di Nazario Pardini, preceduta da una esauriente e dettagliata prefazione di
Rossella Cerniglia. Il misterioso fiume «avrà funzione catartica?», si chiede
il poeta, «potrà purificare tutto?», sarà «pesante quanto la nostra memoria?».
A chi affideremo, dunque, «quel grande patrimonio che tutti ci portiamo dietro
e a cui ci aggrappiamo con il passare degli anni?».
Sulla
scia del complesso pensiero filosofico occidentale, la poetica del volume
prende le mosse con l’“Amore” e l’“Arte”, il “Bene” e il “Bello”: la
καλοκαγαθία (kalolagathìa),
espressione perfetta dell’essenza dello spirito greco. E si rivolge a coloro
che non hanno accettato di escludere ogni rapporto tra essere e non-essere,
ammettendo la durata di uno stato intermedio adeguato a partecipare in certi
limiti del nucleo di entrambi: un simile stadio è utopicamente il divenire. A iniziare, fra il VI e il V secolo
a.C., dal pànta rèi (πάντα ῥεῖ) di Eraclito (o
dell’allievo Cratilo, poi del latino Simplicio), ovvero il «tutto scorre», la
realtà come un fiume destinato a sfociare nella marea cosmica e delle vicende
umane. I componimenti di Pardini sono profondamente permeati da un simile
pensiero. Nei versi di In una immensità
che ti rapina leggiamo:
«Il
mare si avvicina e si allontana,
clessidra
della vita.
[…]
Mi
prende il largo spazio:
sono
nulla e il nulla si dilegua
nel
vento salmastro dell’immenso.
[…]
Son
fuscello
che
si annulla nell’aria mattutina
portato
sull’onda dall’ala leggera
del
novembre.
[…]
riprenderà
i suoi occhi per mirare
l’immensità
del mare,
per
pensare di nuovo che la vita
è
quel fuscello breve che dimena
in
un’immensità che ti rapina».
La
congiunzione dell’unità dell’essere scaturisce dal molteplice medesimo: una coesione
del genere si ottiene grazie all’andamento reciproco degli opposti, al loro
fondersi. Lo suggeriva proprio Eraclito:
«È
la stessa cosa in noi il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e
il vecchio; poiché queste cose mutandosi sono quelle, e quelle a loro volta
mutandosi sono queste».
Il
tutto nel logos di una parola che
presiede contemporaneamente il divenire trascendentale e il fluire delle storie
fattuali, terrene, inerenti il mondo degli uomini. Così, in Chissà per quali mète:
«Un
paesano,
tra
ombre trafitte da spade,
sbircia,
un po’ poeta, l’orizzonte.
Forse
ha in mente le semine,
i
raccolti, le vendemmie;
forse
ha in mente primavera;
o
forse affida la vita
a
delle piume inquiete
che
volano chissà per quali mète».
Ne
emerge un concetto di realtà pertinente alla sfera dell’essere vivente, svincolando
ogni tipo di sviluppo razionale da inconfutabili e pericolose staticità.
Pardini affronta la matrice ciclica del reale in un logos in grado di diventare “concreto”, non “astratto” (ad esempio,
il «paesano, / tra ombre trafitte da spade»), permettendo che il principio
regolatore sia articolato tanto dal cosmo quanto dalle azioni terrestri, immanenti;
promuovendo, quindi, un proficuo, affascinante avvicendamento tra il contesto della
natura e quello dello spirito.
In
primis, per il nostro poeta, troviamo
l’Amore. In alcuni frammenti di Eraclito si presume fosse il Fuoco: il πῦρ (piùr) infonde vita, calore agli esseri umani e, come la passione erotica,
è insieme la legge modale del divenire, del verbo greco γίγνομαι (ghìgnomai), ma anche probabilmente una
componente materiale delle cose. In misura analoga, l’anima, tradotta in chiave
poetica da Nazario Pardini, può considerarsi connessa al λόγος, all’ordine
universale della natura (φύσις, fiùsis),
in virtù dell’essere essa stessa impeto (πνεύμα, pnèuma), energia, principio vitale di movimento, con il Nuovo e
l’Antico a scambiarsi senza tregua, sull’hic
et nunc quotidiano o artistico, «dove l’antico», puntualizza la Cerniglia, «possa
intendersi come il terreno, l’humus,
il sostrato, la base feconda e intatta (eterna)
della poesia che verrà dopo».
L’opera
di Pardini, intitolata I dintorni
dell’amore. Ricordando Catullo, è divisa in tre sezioni: la prima omonima
al titolo, la seconda denominata Di vita,
di mare, di amore, la terza Canzoniere
pagano, ricalcando in quest’ultima, sostiene Antonio Spagnuolo, «figure e
immagini di trascorsi vissuti, dal vecchio mulino che alla sera riflette i
colori del fuoco al tempo tardo delle cene familiari, dalle ombre che affollano
la fiaba al sogno di ninfe e antichi dèi».
Nel
capitolo iniziale si coglie una sorta di rivisitazione del gruppo di poesie Nugae, inserite nel celeberrimo Liber di 216 componimenti di Caio
Valerio Catullo, dedicato alle vicende amorose dell’ammaliante donna cantata
con il nome di Lesbia (per Nazario è Delia), in memoria del mitico fascino di Saffo
che la leggenda vuole morisse proprio a Lèucade. Ecco una riscrittura
pardiniana:
«O
passerotto della mia fanciulla
con
cui giocare o tenere in seno,
al
quale il dito suole la mia Lesbia
da
pizzicare offrire e morsicare.
Non
so giocare come lei, letizia,
vogliosa
di mossucce e rumorini,
lo
fa di certo per placare ardore».
Il
desiderio espresso dall’autore è di giocare con la bestiola per tentare di
sanare l’angoscia del cuore. I versi rievocano in piena libertà la struttura in
endecasillabi faleci adottata dal poeta latino ne Il passero di Lesbia: apparteneva al cliché poetico degli Alessandrini esprimere in epigrammi, brevi
poesie, tenera simpatia per docili animaletti, compagni di letizia, di tristezza
e a volte, purtroppo, piangerne con accorati accenti la scomparsa. Ma l’usanza
in voga di regalare un passero all’amata (osservato, oltre a Catullo, da
Properzio e da Ovidio) acquista immediatamente anche in Pardini un’aura
sfuggente, in quanto il piccolo volatile con cui Lesbia-Delia si diletta diventa
il simbolo di quella pace domestica negata al poeta dalla passione, il gentile
rifugio al quale persino lui, se non afflitto da sentimenti controversi,
vorrebbe ricorrere.
In
più, la figura femminile, emblema per antonomasia di serenità e mancanza di
affanni, viene proiettata in una sottile, indefinita ombra di intima ansia: forse
pure la fanciulla è sfiorata dalla delicata pena, dolce-amara sensazione («lo
fa di certo per pagare ardore»), presenza fedele al sorgere di affectus nelle anime degli innamorati? Oppure
è il poeta che, a livello inconscio, trasferisce un tormento che è solo
personale?
Una
simile rete di segni-segnali sfumati, indeterminati, sparsi nella trama della poesia,
costituisce un piano referenziale rimasto volutamente in sospeso da Pardini, in
bilico tra ieri e oggi, fra l’essere e il non-essere, mentre, in continuo movimento,
tali elementi convergono, si scontrano nella realtà vissuta o desiderata. Del
resto, nella lettera già citata, Nazario Pardini dichiara che il dolore - il
tormento - può purificare, però l’appello non coincide con il sopportare o gestire
un’assorta, inerte contemplazione. Al contrario, nella guerra perpetua, nell’ostinato
conflitto dei contrari al cui interno viviamo, il ruolo a noi destinato è comunque
di combattere:
«È
come una mandata di acqua sporca che dopo la piena lascia il posto a un
rigagnolo che scivola sereno. Io credo che la vita sia un grande dono nel bene
e nel male. Non si deve certamente accettare tutto passivamente come voluto da
Dio. Bisogna lottare, lottare, lottare. Con tutte le forze che la Natura ci ha
fornite. Ma anche saperci confondere, serenamente, a quelle acque che il mare
attende, implacabile e paziente, nei suoi pelaghi».
Poi
si precisa:
«Sì,
là dove il vecchio e il nuovo si integrano nella sintesi di una dualità che si
fa non/tempo».
Allora, in conclusione, riponendo il libro
in attesa di un’ulteriore lettura, richiamiamo l’opinione di Aristotele sulla ψυχή
(psiukè) - allietata da gioie, turbata da dispiaceri, allargata dalla
conoscenza, confusa da inutili vaghezze - anche in virtù dell’amore sempre
dimostrato da Pardini per gli “utensili” della vita quotidiana. Scrive il
pensatore di Stagira:
«Si è detto in generale che cos’è l’anima:
essa è sostanza nel senso di forma e cioè essenza di un corpo d’una determinata
qualità. Supponiamo che uno strumento, per esempio la scure, sia un corpo
naturale: l’essenza della scure sarebbe la sua sostanza e questa sarebbe
l’anima; se questa fosse separata, non ci sarebbe più scure se non per
omonimia. Qui si tratta di una scure: non di un corpo siffatto è essenza e
forma l’anima, bensì di un corpo naturale di tale qualità, e cioè avente in se
stesso il principio del movimento e della quiete».
Dove tutto ciò? Magari in un’isola, come
quella di Lèucade:
«L’isola del bello, della poesia,
dell’amore, della pace. L’isola in cui tutto è buono, forse perché tutto è in
mano dei grandi poeti».
Cinzia Baldazzi
E' un piacere leggere le tue recensioni! Catullo è uno dei poeti che a amo e mi colpisce che ne sia stata fatta una rivisitazione di alcune poesie da parte di un grande poeta contemporaneo come Nazario Pardini
RispondiEliminaGrazie di cuore, Rosanna!
EliminaHo molto apprezzato la tua recensione, Cinzia. Molto profonda.
RispondiEliminaHo molto apprezzato la tua recensione, Cinzia. Molto profonda, filo che lega l'Antico al Nuovo. Grazie.
RispondiEliminaGrazie, Carlo. Sono certa di quanto una lettura di poetica esauriente sia, in ogni caso, avvantaggiata da un'indagine, come dire, nel tempo passato che, com'è noto, spalanca sempre l'orizzonte a quello presente e futuro.
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