PREFAZIONE
Un viaggio in cerca di porti
luminosi; di quietudini esistenziali quello di Claudia Piccinno
Poesia nuova, fresca, proteiforme, questa di Claudia Piccinno.
Versi che con passo cadenzato concretizzano un sentire ampio e generoso. Vita
in versi, versi che narrano la vita, le vicissitudini, le malinconie, i sogni,
le aspettative, tutto ciò che comporta questa avventura che ci vede sul campo,
sempre pronti a dire di noi in una ricerca di quello che di noi ancora non
sappiamo. Ed è dalle nostre confessioni sulla carta che scopriamo gli angoli
più nascosti del nostro sentire: le inquietudini, gli slanci emotivi, la realtà
che ci circonda con tutte le sue aporie. Tornare bambini, giocare con aerei di
carta, innocenti, vergini di vita e di trabucchi, forse è il modo migliore per
tradire la sorte che ci vuole a navigare verso un’isola sconosciuta tra burrasche e scogli aguzzi; verso un’isola
confusa tra la nebbia, di cui difficile è scoprire il porto; l’attracco a cui
tanto ambiamo dopo una navigazione lunga e piena di mistero. Sì, ci affidiamo
ad una barca leggera e fragile come la
vita, a dei remi robusti come il
linguismo della Piccinno, a dei venti non sempre favorevoli come la sorte
vuole, ad una immaginazione creativa e fattiva come quella del poema della
Nostra, per frangere le nebbie e individuare il faro per il nostro arrivo.
Metaforicamente parlando si tratta di un percorso non sempre agevole, e non è
detto che non sbattiamo contro scogli imprevisti: la barca si può frantumare, i
remi spezzare, da lasciarci alla deriva, impotenti, di fronte a forze naturali ben più robuste
del nostro volere. Potremmo riprendere con una tavola scampata, procedere con
le mani, senza bussola, a vista, sperando che cambi la sorte e che un diavolo
qualsiasi ci venga in soccorso. Polimorfica la poetica della Piccinno, plurale
il suo viaggio, adatta la complessità della sua vicenda a nutrire una versificazione che copre tutte le
angolature del nostro soggiorno. Si ama, si gioisce, si spera, si vive, e si
soffre per accadimenti che ci tagliano le gambe. E la poetessa ne fa materia
per il suo poema. Per questo è ricco e polisemico; plurale e complesso. E
quando l’Autrice pensa di essere libera dagli inganni della vita, di avere
vinto i giochi del destino, di poter guardare l’orizzonte con animo più sereno,
il cielo, tutto ad un tratto, si annuvola e si predispone a nuove burrasche: “… Corteccia vuota
rimarrai/dove nessun usignolo farà il nido./Ho recitato la requiem
eterna tra di noi// e più non conta in quale girone precipiterai./ La pena del
contrappasso// in quest’inferno affronterai” (La pena del contrappasso). Una
visione oracolare che farebbe pensare ad una poesia più volta al pessimismo, al
dolore, che ad un carpe diem oraziano, se l’animo della Piccinno non si
scotesse di dosso la tristezza del momento per riprendere il cammino: “Ho letto nei tuoi occhi/ L'alfabeto che
cercavo./ Ho sentito nei tuoi pugni/ La forza dei miei passi/ Per arrivare Lì//
In quel preciso istante/ Dove tu eri arrivato per me./ La relatività del
tutto/Ci ha dato l'assoluto…” (L’alfabeto che cercavo). Ma il dolore è sempre alla porta; a suscitare
meditazioni che tanto ci coinvolgono coi ritmi aggressivi e contaminanti di una
poesia verticale dove le parole si rincorrono le une le altre uscendo con
impeto da un cuore addolorato: “… Addio stellina mia./Che la tua luce/Sia lampada/ ai
miei passi/ Là dove ogni vile/ Satellite
ostruisce/ Il cammino/Nella buia notte/ Di questa perversa umanità.” (Stellina
mia). Ci si può abbandonare anche ad una preghiera
di amore e di vicinanza, quando sentiamo il bisogno di spiritualità, di
metafisico slancio emotivo; quando sentiamo il bisogno di elevarci au dessus du
toit come direbbe il poeta: “… Amami perché io non perda
lo stupore del presente./ Amami perché io faccia pace col passato./Amami Dio/ perché nella
beatitudine del tuo infinito riposerò.” (Amami Dio). Ciò non toglie che la Nostra non viva le debolezze
del fatto di essere umani: “… E fu solo colpa dei
miei passi/ allenati a reiterar fiducia/ nella più sterile delle illusioni,/
quella di
essere amata/ malgrado le mie debolezze.” (Dal monologo di Cassandra), o non
percepisca il senso di fragilità, di inconsistenza, di caducità del vivere: “…
In fondo siamo miseri corpi/del creato,/ per vivere ci basta una scintilla.”
(Le cromie nel reticolo), e lo percepisce ancora di più quando nel mese dei
defunti si avvicina alle tombe dei cari con animo tinto di elegia sepolcrale :
“… A novembre si parla coi defunti/si osserva
il rito del ricordo,/la natura ascolta guardinga/ il mio peregrinare tra
le tombe/e l'upupa ride sommessa./ Lei lo sa che cerco invano/ voci e volti tra
le zolle,/ il suo verso mi dice/ di cercare altrove./ Nella mia memoria,/ nel
mio solito incedere,/ nei pensieri dispersi/ ho rivisto i miei cari.” (A
novembre). D’altronde ricorrere alla memoria, alla sacca del patrimonio che
ognuno si porta dietro sempre più cospicuo, significa voler allungare la vita, rivisitando
le sottrazioni che nella poetessa si fanno presenze irrinunciabili. Quel
memoriale che vivido e sempre più sfumato si traduce in palpiti di canto; in un
lirismo visivamente suadente, ed emotivamente creativo; in immagini sacre che
con il loro ritorno ci danno forza e vitalità da una parte, dall’altra
coscienza di un esistere breve e fuggitivo. Questa è la poetica della Piccinno;
questo il suo dire; questa la sua anima spiattellata su un vassoio d’argento:
immaginazione, creatività, memoriale, realtà cruda e scottante, sogni,
illusioni, delusioni, ambasce, vita; sì vita in tutta la sua complessità
ecfrastico-esistenziale; in tutta la sua splenetica consistenza
vicissitudinale. Leggere le sue poesie significa vivere, amare, soffrire, ma
anche provare “La gioia di essere tristi” come afferma V.
Hugo. E quello che più ci rimane dentro dopo la lettura è un senso di
precarietà che la poetessa si sente addosso e da cui vorrebbe uscire con scarti
ultraterreni; con scosse demandate ad una poesia che libera e affranca; che si fa sempre più amica, vicina,
indispensabile convivente in un mondo in cui non sempre facile è vivere:
Grigio è il mare
Di questa lunga costa
Mentre attraverso l'Italia
Col gelo di febbraio.
Neanche un gabbiano
Si avventura in volo.
Una colomba
Sui fili elettrici
Si scalda.
Quasi invoca la scossa
Per non sentire
Il ghiaccio che incombe.
In lei mi specchio
Stalattite senza sfumature. (Stalattite senza sfumature).
“Stalattite
senza sfumature” consegnate ad una
versificazione in simbiosi col verbo; col diagramma di una musicalità che fa da
sottofondo ad accessori di effetto contrattivo ed estensivo; a corrispondenze
foniche che richiamano la varietà di un canto; di una confessione ora lirica,
ora oracolare, ora dialogica, ora immediata, ora ragionata, ma pur sempre
complessa e articolata come è la vita.
Così raccolgo i cocci e faccio un
vaso,
lì custodisco la forza di proseguire
il cammino.
Un carburante rinnovabile
fuoriesce dal vaso risanato,
nessuna epigrafe ci svela il segreto
di quanto coraggio ci impone la vita.
Nazario Pardini
lì custodisco la forza di proseguire
il cammino.
Un carburante rinnovabile
fuoriesce dal vaso risanato,
nessuna epigrafe ci svela il segreto
di quanto coraggio ci impone la vita.
Nazario Pardini
Grazie infinite Nazario per la tua profonda analisi e per la calda ospitalità
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