La regia poetica di Paolo Ruffilli
Carmelo Consoli, collaboratore di Lèucade |
Un felice incontro con la scrittura del poeta
Paolo Ruffilli attraverso i suoi volumi: “La gioia e il lutto”, Le stanze del
cielo”, “Diario di Normandia”, mi ha permesso di soffermarmi ed indagare sulle
modalità, uniche e rare, che egli adotta nel narrare i fatti
rappresentati.
Narrare in versi per una grande moltitudine di
autori, contemporanei e non, è occasione
di una forte, personale partecipazione emozionale, di coinvolgimento profondo
d’anima che trasmette al lettore intenzioni e passioni in modo diretto e
pressante.
Nella poetica di Paolo Ruffilli questo non
accade perché nei suoi versi traspare un apparente distacco dalle vicende
rappresentate, un pressante autocontrollo emozionale, un severo filtro ai propri
sentimenti tipici di un esterno regista e scenografo che filma protagonisti e
sfondi, per poi apporre il proprio personale sigillo con il tocco finale
dell’uomo saggio e navigato con note di stampo esistenziale che danno
compattezza ai volumi e uno alto spessore di valore umano e intellettuale.
Il regista e scenografo Ruffilli trasferisce al
lettore la parola di una parata di attori che evidenziano le loro estreme
fragilità, in una chiara sua non partecipazione alle vicende lasciando che il
filo drammatico delle storie si srotoli
autonomamente e ciò nonostante la sua assidua presenza si avverte
nell’indirizzare azioni, tempi e testimoni verso una sua idea di cosa sia la
vita e soprattutto la ricerca delle verità sui processi esistenziali.
In tale modo egli riesce a tonificare una vena
poetica che diventa alta testimonianza della drammaticità di limiti,
aspirazioni, misteri dell’esistenza.
Una poesia questa di un autore che a dispetto di una apparente leggerezza e sobrietà,
piacevolmente dialogica e narrativa,
emana una forza sorprendente nell’affrontare delicatissime tematiche
vitali esibendo possente lucidità analitica, entrando nei minimi dettagli delle
inquadrature, sviscerando i pro e i contro delle situazioni, protesa sempre e comunque verso una verità super
partes di ogni contenzioso, facendo emergere il suo spirito di uomo
estremamente libero non condizionato da apparenze, falsità e pregiudizi e che
giudica le persone per quello che sono e non certo per quello che hanno
commesso.
Di queste sue opere, soprattutto nel caso della
“Gioia e il lutto” e “Le stanze del cielo” si potrebbero ricavare ottime
rappresentazioni teatrali in virtù di un linguaggio che si presta ottimamente
ai palcoscenici così come si presenta scabro, contratto, istintivo, irrefrenabile
sempre pronto ad affermare, negare, conciliare ogni disputa, evidenziare vizi e
virtù, accompagnato da una accattivante musicalità di tipo sincopato.
In “Diario di Normandia”, originale e suggestiva cronaca di un
procedere quotidiano di nove giorni nella affascinante regione francese, emerge
nello sceneggiatore Ruffilli una particolare voglia di vedutismo sia minimale
di particolari che sconfinato di orizzonti ed in questo contesto la regia si
sofferma, come in certi film di un realismo italiano del novecentesco, su
personaggi dai quali emergono una gamma
di sfumature emozionali che vanno dai desideri, alle amarezze, alle malinconie
e da cui, come sempre, l’autore estrae e rappresenta il concentrato finale della sua filosofia
esistenziale.
Ed il tutto si svolge in una ovattata atmosfera
di marine dalla palpabile leggerezza, dalle cromie e fragranze tipiche del
salmastro che alleggeriscono la complessa trama del narrato.
Nelle opere “La gioia e il lutto” e “Le stanze
del cielo” dove è assente la natura, escludendo le allucinanti visioni dei
protagonisti, la regia si trasferisce in territori di profondissimo dolore, di
eccezionale drammaticità, affrontando scottanti tematiche umane e sociali, di insondabili misteri, in
cui i personaggi descritti sono vittime anche al di là delle proprie colpe.
Emerge prepotentemente la natura del poeta
sempre pronta a guardare la vita e le realtà dall’alto di una nobiltà d’anima.
Opere, a mio avviso, di grandi potenzialità
rappresentative in teatro, paragonabili alle grandi tragedie greche nelle cupe
atmosfere dei grandi eventi, dove bene
si collocherebbe la vicenda del giovane malato di AIDS con tutte quelle
coralità di voci dalle variegate sfumature emozionali: dal giovane morente,
alla madre, al padre, all’amante, ed in cui si evidenziano con abile
disinvoltura vizi, virtù, ipocrisie, sofferenze e preghiere; un dramma dal
quale l’autore non si lascia contaminare
dai fatti e si cela nelle classiche frasi di un dire, fare e pensare tipiche
degli uomini in cerca di disperate verità, resurrezione e perdono, senza
contrastare una dolorosa cronaca.
Allo stesso modo fa recitare il prigioniero
delle “Stanze del cielo” dilaniato tra interrogativi, aspirazioni,
incomprensioni, sogni d’evasione e devastazioni corporali.
Il lettore qui avverte chiaramente la denuncia senza filtri contro una società
che esclude, condanna, emana sentenze provocando nei protagonisti inesorabili
perdite di umana dignità.
Domina nelle pagine del libro lo spirito libero
dell’autore, il suo grande senso civile e umanitario nel mettere a fuoco le
distorsioni dei luoghi carcerari, le tenebrose cadenze dei giorni, delle notti,
il soffocamento degli spazi, le disparità dei trattamenti, insomma tutta la
disumanità di un sistema penitenziario dove inesorabilmente muoiono sogni e
libertà.
Paolo Ruffilli è dunque in grado di esprimere
una poesia di altissima qualità dove si realizza l’ideale abbinamento tra
l’originale e sorprendente tessitura di un linguaggio scattante e fluido,
antilirico per vocazione, ed una avvincente, ritmata musicalità; una simbiotica
unione che la rende unica e preziosa.
Il tutto, ovviamente sorretto, da fondamentali argomentazioni esistenziali sgorga dalla sua pietas, frutto di un profondo senso di civiltà e umanità.
Carmelo Consoli
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