LA PAROLA AZZURRO DEFINISCE LO STUPORE
“Se e quando / solo le stelle lo sanno”
Sandro Angelucci,
Titiwai. Giuliano Ladolfi Editore. Borgomanero (NO), 2019.
Sandro Angelucci,
collaboratore di Lèucade
Titiwai.
Il termine maori che titola la raccolta poetica è nome di natura e meraviglia,
metafora del vivere e del vivente, incantevole poesia.
Come
quelle larve che dalle
grotte del distretto di Waitomo “emettono dei bagliori sulle scale degli
azzurri”, trasfigurando la pietra nuda in volta astrale, nero arco
puntellato di luminose gemme incastonate, le poesie di Sandro Angelucci sono
azzurra luce emersa dal silenzio – “voce braccata / di un silenzio / che si
rivela mentre si nasconde” –, balenio stellare che supera il buio e la
parola per sprofondare nella gioia e farsi mondo, colorando in viaggio arcobaleni.
Ed è nella rifrazione sommessa e grandiosa della luce che il suono, il senso
definisce il luogo, riordina il vero, lo spazio della quiete piccola, si carica
di stupore, illumina speranza, trasmette sovrabbondanza. Da larva-cosa, minimo
infinitesimo nel senza confini – “il poco (tanto) che abbiamo” –, il
senso monta identità, consapevolezza il lampo, ampiezza lo sfavillio: l’uomo,
il poeta, lungi dal rumore e dal commercio, giunge a sé nello scavo del proprio
cuore, comunica da lì la lingua naturale, il senso il bene universale.
“Fare il vuoto,
poeta / questo ti chiede / quando – senza saperlo –
/ ne avverti la presenza. / Ti chiede di eclissarti / di toglierti di torno /
di non essere invadente / con il tuo io / che si vergogna ad essere se stesso.
/ E fa il gradasso. / E non perde occasione / di reputare vero / ciò che al
contrario è falso. / Ti chiede libertà. / Lo spazio del silenzio / dove tutto
parla, / tutto si ascolta. / E non si vive a vanvera”.
Titiwai.
Letteralmente, in lingua polinesiana “proiettato sull’acqua”.
Le cavità calcaree abitate
da creature-lucciole, portano in me, isolana – “Da un mare ad altri mari, /
da porti ad altri porti” – il ricordo vivido delle grotte azzurre del mio
mare siciliano, caverne limate dalle onde che nelle estati della vita si illuminano
magiche di luce fresca e chiara, luminosità d’ombra cullata, cangiante stella
inabissata, scintilla ultraterrena nello sciabordio turchino e speziato dell’acqua
musicale – “Come le pupille / dilatandosi e contraendosi / si adattano al
variare della luce / così il mio cuore…”. In una parola: Poesia.
Il mare. Simbolo e
fine del nostro scrivere trasversale – “in attesa che ci peschi il retino di
un bambino. / Ci metta in un secchiello / e poi lo vuoti / in tutti gli
universi” –, simbolo e fine del nostro comune peregrinare.
“Arriverò al mare
/ e allora capirò / che per vivere bisogna morire, / annegare / dimenticando di
saper nuotare”.
We shall not cease from exploration
And the end of all our exploring
Will be to arrive where we started
And know the place for the first time.
Thomas Stearns Eliot
La parola poetica di
Sandro Angelucci è limpida, piana e sommessa, è forza marina che trascina in sé
la pacatezza dell’autentica bellezza, l’ardore del sincero desiderio. È semplice
ed incisiva – “La poesia non deborda, occupa / lo spazio appena sufficiente”
–, mite voce che squarcia il silenzio e del silenzio si struttura, in una
visione che esalta il vivere pacifico e naturale – “lasciatemi un abete /
che parla con il canto degli uccelli” – e travalica “la folle corsa per
eludere il rumore”, il rumore e l’inutilità del “nostro dissennato
chiacchiericcio”.
In
apparenza univoca e chiara, quella voce è tuttavia polisemica, carica di segni
e significati, è Pan flûte, semplice canna che, ammaliante e sincera, nasconde
in sé differenti, simultanee e mai contraddittorie chiavi di lettura. Nel
medesimo istante è invito al viaggio nel profondo di noi stessi – “Ed è qui,
dentro di noi, / il coraggio delle nostre paure. / Soltanto al ritorno /
scopriamo il perché del nostro viaggiare” –, abbandono alla natura tutta e
suo filiale riconoscimento – “Di ogni bocciolo che s’apre / dammi i silenzi”
–, fede personale e civile nel dire e fare poetico in sé – “Voglio parlarvi
/ di un luogo dove il tempo / non ha luogo” –, incessante ricerca del
Divino e del sublime – “Ogni dieci metri / un Dio o ciò che resta / trema sotto le
stelle / sotto la volta della sua promessa” –, d’un filo d’erba il soffio e la vibrazione.
Il
messaggio racchiuso in Titiwai è un monito di consapevolezza e verità,
un’esortazione ad abbandonare una concezione e pratica di vita tese alla
ricerca dei beni e dei piaceri materiali e al culto del transeunte, l’imperante
nichilismo volto alla distruzione di qualsivoglia sistema di valori; è un
invito alla scoperta della bellezza e dell’eternità racchiuse e protette persino
nelle/dalle più umili e ingenue opere del creato, magnificenza insita nella
Natura cui tutti apparteniamo, gli uomini come i peschi i meli gli uccelli,
finitudine divenuta immensità, relazione tra Terra e Cielo, umano e Divino.
Solo
nella profondità del proprio essere l’uomo moderno, l’uomo che sovente si
snatura nel troppo
commercio con la gente, che attraversa in corsa le città del mondo in un viavai inutile
e frenetico, mentre desertifica il mondo, l’uomo (perenne Ulisse) in
fuga persino da se stesso può ritrovare la propria vera essenza e l’identità (Itaca),
la carica vitale per affrontare il viaggio sempre nuovo e imprevedibile della
vita.
E se la trovi povera, non per questo Itaca
ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua
esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole
significare.
Constantino Kavafis
“Ci
attende un’isola / che, senza saperlo, già conosciamo. / Dove siamo nati”.
Solo nella
tutela del reale che circonda, nel rispetto della Natura, anziana madre
bisognosa di attenzioni e tenere carezze, l’umanità può trovare risposta ai
quesiti fondamentali dell’essere e dell’esistere, scoprire sostanza ed assaporare
stupore, vivere in armonia con il vero sé e la varietà multiforme del creato, sperimentare
nobili ed alti obiettivi e finalmente giungere alla sapienza dell’anima, al
Big-Bang originario e perennemente rinnovato, accostarsi infine all’eterno, al
divino – “È
così bello essere mortali, / sapere di far parte del mistero” – al
paradisiaco, all’universale imperituro e pertanto alla Poesia.
Il
fine dell’uomo (e della poesia) è il non-luogo dell’anima, della gioia,
l’equilibrio delle verità e l’accettazione del mistero, la corrispondenza al di
là d’ogni mera e sterile apparenza; pienezza in cui i contrari convergono e riuniscono
in armonica unità, fuori dal tempo, fuori dallo spazio, raggiungimento di
un’umiltà che sia dell’altro amore e riconoscimento.
“So
soltanto / che ora è qui quel luogo, / in questi pochi versi. / Feroce come un
pugno / dolce come una carezza.”
Angelucci
conosce e nello scrivere comunica la gioia sempiterna che illumina e permea la
vita, la bellezza che dal vero a tutti è riservata, con la consapevolezza della
necessità del preservare e del perseverare – “Ogni uovo è fatto per aprirsi”
–, nel conforto/invito del vivere naturale, con passione e fiducia nell’umano,
reinventa per noi la speranza, luce larvale di bellezza e progettualità.
“Nello spazio segreto del nostro avvicinarci all’essere,
io credo non vi sia oggigiorno poesia vera che non cerchi e non
intenda cercare,
fino all’ultimo respiro, di fondare una nuova speranza”.
Yves Bonnefoy
“Siamo
lampi / nella notte infinita / di miliardi e miliardi di stelle”.
Lampi
non fugaci di un amore imperituro e già divino.
Possa sempre l’uomo, il poeta, attraversando
la vita, la perdita, l’incertezza insita nel viaggio – “Io non sapevo / che
credere significa soffrire / con il sorriso / che ti squarcia il cuore” – non
dubitare del bene e della possibilità dell’equilibrio, della grazia insita nell’uomo
e nell’universo e, giunto al momento dei bilanci, contare e dire “Ho vinto
tanto. / Tanto quanto ho perso. / Bene così. / Guai mi fossi trovato in deficit
/ o in sopravanzo” se consapevolmente, lucidamente ha vissuto in fiduciosa onestà
– “Io preferisco pungermi / passando in mezzo ai
rovi, tra le spine. / E uscire, alfine, con le ferite / rimarginate al Sole”. Splendere al sole.
Un sole vivo nel
sereno e al di là le nuvole, un sole caldo per tutte le creature.
Un Sole maiuscolo,
sempre.
Titiwai. “Una,
soltanto una / è la strada tracciata dalla vita”. Stupirsi, amare,
brillare.
2021.03
E' una bella recensione. Lettura molto interessante e piacevole.
RispondiEliminaComplimenti al Critico e complimenti al Poeta.
Edda Conte.
Mi complimento con Valeria Spallino per la splendida recensione alla Silloge cara al mio cuore di Sandro Angelucci. Il lavoro svolto sull'Opera rivela competenza, talento e grande anima. Ha colto aspetti pregnanti di questo libro di simbiosi con i miracoli poetici di madre - natura, di impegno civile,di stupore, degno del 'fanciullino' pascoliano, che Sandro incarna da sempre e di amore verso il creato. L'esegesi è soave, palpita al ritmo dei versi, s'illumina e ci illumina come stella cometa, ci guida sulla rotta di un Poeta che, per dirla con le parole della Spallino, considera "Il fine dell’uomo (e della poesia) è il non-luogo dell’anima, della gioia, l’equilibrio delle verità e l’accettazione del mistero, la corrispondenza al di là d’ogni mera e sterile apparenza; pienezza in cui i contrari convergono e riuniscono in armonica unità, fuori dal tempo, fuori dallo spazio, raggiungimento di un’umiltà che sia dell’altro amore e riconoscimento".Un tributo commovente, degno della Silloge Titiwai, che porto incastonata nel cuore. Ringrazio la cara Valeria Spallino, che spero di poter conoscere, ringrazio Sandro fino alla fine del tempo e li stringo forte entrambi!
RispondiEliminaCongratulazioni a Valeria Spallino per la bellissima esegesi di un' Opera notevole del carissimo Sandro Angelucci.
RispondiEliminaSilloge che avemmo l' onore di presentare a Roma, in presenza, lo scorso ottobre.
Un caro saluto a entrambi!
Loredana D'Alfonso