CONTEMPLAZIONI, DI SILVIA VENUTI
un umano percorso nel divino
Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade
Questa nuova silloge
di Silvia Venuti (Contemplazioni,
Moretti & Vitali 2020) si apre con un esergo di Kahlil Gibran che vale una
prefazione: "Bellezza è eternità che si contempla in uno specchio. Ma voi
siete l'eternità e siete lo specchio". Tutto ciò collima e fa pendant con la citazione di Mastro
Eckart riportata da Carmelo Mezzasalma in postfazione: "Lo sguardo con cui
vedo Dio è lo stesso sguardo con cui Dio mi vede: il mio sguardo e quello di
Dio sono un unico sguardo, un'unica visione, una stessa conoscenza
d'amore". Gli fa eco la nota terzina dantesca, dove, sul finire del XXXIII
canto del Paradiso, l'autore del viaggio ultraterreno riceve la visione divina:
"Dentro da sé, del suo colore stesso / mi parve pinta de la nostra effige
/ perché 'l mio viso in lei tutto era messo". Dio non è l'uomo, ma vive
nell'uomo, nella sua coscienza profonda.
Essere o conoscere
se stessi equivale pertanto a sintonizzarsi con Lui. E ha ragione Mezzasalma nel
dire che "la nostra vita resta incompleta se dopo aver creato case o anche
templi, non ci costruiamo quel giardino dell'anima il cui sentiero nascosto ci
porta verso il divino". L'autrice conferma: "Arrivare alla radice del
cuore / è incontrare Dio, l'Infinito, / la Legge universale / e l'Unità di ogni
cosa". E ancora: "Se cerchi te stesso, lo trovi qui, / sulla riva del
Tempo, / quando la Natura si rivela immortale". E' camminando dentro noi stessi, come pure nella
circostante Natura, che possiamo incamminarci concretamente verso l'ineffabile
Dio, senza tante e perigliose elucubrazioni mentali. Ed è forse più utile
cercarlo qui che nei grandi Magisteri: "Sono morti tutti. / Si, i Maestri,
i grandi Illuminati, gli Eroi, / tutti coloro che onorarono Dio, / ma la
Natura, entro e fuori di noi, / ancora insegna, è guida perenne / al sacro, al
divino".
Pensare a Dio astrattamente
è snaturarlo. Si è infatti portati, per farlo, a separarsene, a costruirsene
un'immagine distorta, come fossimo noi a creare Dio a nostra immagine e
somiglianza, anziché il contrario. E' un errore molto diffuso, e tutto sommato
ha fatto bene Nietzsche a dichiarare la morte di questo Dio antropomorfico, che
non è l'inconoscibile e vero Artefice universale. In fondo, non è blasfemo l'ateo
che rifiuta questo Dio costruito a tavolino. Blasfemo è piuttosto il cosiddetto
credente che fa una bandiera
ideologica del suo Dio, nominandolo sempre e comunque invano. Il vero credente non
sente il bisogno di parlare di Dio, per il semplice motivo che preferisce
metterlo umilmente in pratica nelle azioni quotidiane.
Ciò che conta è avvertire
il palpito divino dentro se stessi e nelle creature che ci respirano intorno,
come splendidamente fa Silvia Venuti in quest'opera davvero ispirata. Sono meditazioni,
tra l'altro, che non sgorgano nei templi costruiti dall'uomo, bensì nella
Natura, nel Tempio direttamente da Lui creato: "C'era come una festa
nell'aria / per quello straripare di luce / sulle foglie e sull'acqua".
Una pienezza di doni che spinge necessariamente l'uomo ad esserne degno: "Per
dare senso alla giornata / a sera ho pregato / perché nulla andasse perduto /
ma tutto donato, / come sacra essenza di sé, / all'infinito". E se alla
gloria del giorno dovesse invece seguire la delusione della sera, l'occasione è
propizia per un'autoanalisi impietosa che porti a giudicare l'operato del giorno:
"avrei voluto fosse profondo / fino a toccare le radici / degli alberi più
antichi".
Una macerazione, un
esame di coscienza che induce a rinnovarsi in continuazione. Un navigare nella "lama
di luce" dell'acqua scossa dalla bufera, certi che "il fidente
battello porta / ancora con sé verso la meta / tutta la speranza del mondo".
E' questa la fede: un subbuglio interiore e non un'immobilità dell'anima. Non
un condiscendere a dogmi che non sono farina del proprio sacco, ma un tumulto infinito
dove "si scopre d'essere / in continua metamorfosi / in attesa ancora / di
nuove, altre rivelazioni". Uno stato di crisi costante, una continua morte/rinascita nelle armonie del
Creato, dove "chi guarda si rinnova ad ogni istante". Al bando le
trite convenzioni. "Quante volte ho ricominciato / con nuova sapienza
interiore / con nuovo coraggio. / Quante volte, quante volte! / Da un gradino
sempre più alto".
E rinnovata nel profondo,
la poetessa viene a trovarsi inconsciamente nell'Eden, immersa nel primo giorno che la
terra fu: "io e tutte le creature / impariamo / l'autunno per la prima
volta / in questo assoluto". E ancora: "Oh eterna gioventù della
natura / che sempre nel senso dell'essenza accogli / l'anima intera!". E
infine: "non ho più età o memorie / sono bianca come la neve". La
neve, metafora di un rinverginamento perenne che presuppone un incanutimento, un tramonto, una perenne fine.
Se il sole non muore, potrà mai albeggiare? Un orizzonte spirituale e poetico
che non direi nirvanico, anche se alcuni passi possono ingannare: "è
l'orlo dell'onda / a ricordare il fragile confine / tra il non desiderare / e
la rivelazione / di una superiore / misura spirituale".
Quella misura, per
Silvia, si conquista attraversando il dolore e non estirpandolo, come postulato
nel Nirvana. La luce esplode nelle tenebre e ciò è molto più consono al
travaglio cristiano della Croce. L'ego ha
questo ruolo sacrificale da svolgere. Deve riconoscere i propri errori e inchinarsi
di fronte al mistero. Non per rassegnazione, ma per soddisfazione delle proprie
aspettative, perché il mistero svanisce nel momento in cui noi lo accettiamo: "Né
domande né risposte / in questo assoluto mare"; "L'adesione totale al
creato / annulla domande e risposte". La sana ragione non si sente
frustrata per questo, perché sa di svolgere in tal modo il proprio
insostituibile ruolo. Una coincidentia
oppositorum, un orizzonte d'amore rifiutato
dall'arida, presuntuosa ed insana ragione che non vuole farsi confidente aguzza
e segreta del mistero.
Il vero amore è sudato e pianto. Non è amore melenso, ma amore che pretende coraggio di vivere, di credere, lottare: "Contemplare / la trasparenza / di una foglia / o la luce della pioggia / che cade / è ritrovare il coraggio / di vivere / e ancora d'amare". Una poesia indubbiamente fatta di incanti, ma dotata del realismo proprio di ogni incanto che sappia portare sulle proprie spalle il peso del disincanto, della ferita, del dolore: “Hanno ancora coraggio di fiorire gli alberi! / Bellezza è coraggio, amore è coraggio. / Hanno ancora coraggio di fiorire gli alberi! / Arte è coraggio, fedeltà a natura è coraggio. / Sogno, vita, mistero sono coraggio!". Un'iniezione di fiducia nella vita ed un sanguigno canto dove nulla è dato per scontato e tutto è problematico, riportando la fede, al di là di ogni confessionalismo, nel suo originario e fecondo stato di crisi.
Franco Campegiani
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RispondiEliminaCaro Franco,
viaggiamo sicuramente nel medesimo vento e per questo risulta chiaro ad entrambi il pensiero che ci abita. Volentieri posterei la mia email nel blog di Nazario ma non sono pratica della procedura ......Puoi pensarci tu per cortesia?
Aspetto le tue poesie e ti ringrazio in anticipo per l’invio della raccolta.
Un grande abbraccio.
Silvia
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RispondiEliminaCarissima Silvia, sono a mia volta stupito e commosso nel profondo dalle tue parole. Evidentemente viaggiamo nel medesimo vento e ci lasciamo trasportare da un'onda di pensiero comune. Ne sono anch'io molto confortato. Vorrei chiederti, se possibile, di postare questa tua mail a commento del mio articolo nello stesso blog, nella sezione riservata ai commenti. Ci terrei moltissimo e, se vuoi, posso occuparmene personalmente girando il tuo scritto al gestore, Prof Nazario Pardini. Le mie poesie sono molto diverse dalle tue, ma puntano decisamente verso la stessa direzione. Te ne invierò copia non appena possibile, ma i ritardi oramai sono all'ordine del giorno per i motivi che sai e che purtroppo tutti sappiamo. Ti saluto caramente. Franco
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RispondiEliminaCarissimo Franco,
la lettura del tuo saggio sulla mia raccolta mi ha donato una grandissima emozione. Hai saputo indagare con grande acutezza psicologica l’attitudine che muove la mia poesia e ne hai saputo dedurre una struttura filosofica così aderente al mio pensiero e al mio sentire che mi ha riempito di stupore.
Avevo scritto una poesia alcuni anni fa: Scusatemi / se sono poco informata / sul resto:/ correvo negli anni a capire la vita / senza stacchi o paga, / assolvendo l’umiltà dei doveri. / Volevo stare in trincea, / dare notizie di prima mano.
Ebbene nel cogliere questo mio stato perenne di ricerca, al di fuori dalla cultura imperante, attraverso consapevolezze conquistate con l’esperienza, in unità di spirito e materia, hai posto in evidenza l’essenza del mio vivere in quella verità che trova espressione nell’arte.
Non mi aspettavo un tale lavoro di comparazione di testi e sintesi sul mio stare nel ‘sacro’ dell’esistenza e di vedere riconosciuta la mia sofferta ‘crisi’ per il convincimento che le consapevolezze raggiunte e raggiungibili sono niente a fronte della complessità e vastità esistenziale in cui ci troviamo immersi.
La grande emozione che mi hai donato mi illumina la via in questo difficile periodo.
Mi conforta moltissimo sapere che c’è sempre un ‘lettore’ che sa giungere alla radice del mio scrivere e svelarne le motivazioni profonde.
E’ un enorme incoraggiamento che dà senso alla mia scrittura di testimonianza.
Grazie di questo grandissimo dono che sento ispirato da una sostanziale affinità di sentire e interpretare la realtà come un’unità in continuo movimento trasformante.
Un grato abbraccio con gli auguri più sentiti per il completamento della tua nuova impresa poetica “Dentro l’uragano” sicuramente espressa con parole non conformi a schemi omologanti.
Silvia