Annamaria
Ferramosca. Per segni accesi.
Giuliano Ladolfi Editore. Febbraio 2021
Una palingenetica corsa
verso il tutto per elevare l’umano al sorriso del sole.
Le
origini l’andare
Eppure sento il sibilare della prima neve,
la delicata melodia della luce del giorno
e il cupo brontolio della metropoli.
Bevo da una piccola fonte,
la mia sete più grande dell’oceano.
Adam Zagajewski
Iniziare dalla pericope in
esergo significa entrare da subito nella poesia di Annamaria Ferramosca, nei
suoi brividi lirici, nel suo immenso bagaglio sentimentale, nella sua
aspirazione all’eterno, al tutto, alla
grande emozione a cui ci chiamano i suoi versi. Ibi omnia sunt: memoria, onirico, vita, volo en haut, direbbe Verlaine
par-dessus le toit, al di là degli
orizzonti che ci invitano a confessare le nostre fughe, i nostri incantamenti per
superare le aporie del momento. PER SEGNI
ACCESI, il titolo di questa plaquette a significare che in certi momenti si
accendono dei segni talmente
forti, che ci chiamano a dire tutto di noi, a
liberare l’animo da quei grovigli che dentro hanno covato da tempo per
mutarsi poi in poesia. Perché questa è la poesia, il suo dilatarsi in fonemi,
monemi, verbi che si fanno volumi del nostro essere. E poesia significa amore,
sentimento, immagine, radici, tutto ciò che dentro sgomita per uscire a nuova
vita. Tanti stati d’animo che hanno sedimentato nell’intimo di questa poetessa;
che si sono ingranditi, impreziositi, irrobustiti da occupare l'esserc-ci, l'esistere, e che si traducono poi in fotogrammi, in tappe
della nostra storia. I versi di questa plaquette scorrono limpidi, chiari,
armonici, incisivi da entrare con
virulenza dentro noi per dirci che esistono e che pretendono di essere messi in
luce per la loro forza verbale: una ricerca attenta e competente del verbo che
reifica ogni vertigine ontologica, ogni epigrammatica vicenda di una vicissitudine che
corre veloce come una rondine nel cielo. Scomodando Orazio si potrebbe
affermare: “Dum loquimur fugerit invita
aetas”. Sì, il tempo corre senza darci la possibilità di leggere il presente.
Questo è il dramma dell’uomo: sentirsi spaesato di fronte al tutto e al niente,
dacché egli ha sempre sofferto, da quando è nato, nel misurarsi col quando e il
dove, nel confrontarsi coi ruggiti delle nuvole, coi piani alti del cielo, con
le vertigini che Per segni accesi si
inchiodano in noi facendoci provare il senso del niente di fronte all’universo:
“si fermano i vortici della notte si compie il tempo/ l’humus prende forma
imita materia d’alba/ la morbida piega dei petali/ sul petto approda l’arca il
bosco oscilla/ e uno stormire basso quasi un silenzio/ permette all’utero
l’ultima spinta/ dev’essere pace intorno per il primo grido…”. Poesia nuova,
moderna, frutto di una ricerca verbale di estrema forza comunicativa. I nessi
copulativi si uniscono in iuncturae senza apporti connettivi, per dare risalto immediato ai significanti. Le parole
si ammassano per l’urgenza di svuotare il cumulo emotivo che dentro si è
formato. Tutto è oggetto di una elasticità espressiva che lascia di stucco:
“piega verso settentrione il cammino/ un capriccio obliquo della luce/ segue la
pelle bruna la scolora/ azzurrisce occhi fa chiari i capelli/larga bellezza
sulla terra/ e ci fa ibridi lungo i meridiani…”. Cammino, luce, pelle, occhi,
bellezza, terra, meridiani; tanti segni indicatori, ossessione per particolari che affollano un animo volto alla
meditazione, alla concretizzazione di se steso.
Tutto è energia, azzardo, ricerca; tutto è nuovo e penetrante; di certo
non si può definire questa versificazione di positura endecasillabo-sinestetica
legata ad una tradizione di foscoliana memoria; ma neppure di prosastica positura
sperimentale dove, secondo gli indirizzi moderni, si tende ad eliminare la
differenza tra prosa e poesia. Piuttosto mi soffermerei su un discorso
autonomo, su un logos personale, su una poetica strettamente innovativa ma che mantiene un timbro di
ispirazione soggettiva che la fa unica. Basti citare gli ultimi versi della
silloge per darci contezza di tale stile dove aggettivazioni e verbalizzazioni
si assembrano in cumuli di suoni ed effetti poetici di rara fattura comunicativa:
“sentire feroce il sole ridere/ di noi umani confusi reclusi/ a schivare corpuscoli
armati/ ad attendere lentissima/ chiarezza”, e dove non manca un pizzico di
ironico sguardo sugli umani “confusi reclusi”.
Nazario Pardini
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