mercoledì 15 febbraio 2017

SONIA GIOVANNETTI: "CARNEVALE, CHE FOLLIA"

Carnevale, che follia

Sonia Giovannetti,
collaboratrice di Lèucade

L’invito era chiaro. Diceva: “Cara Carla, per martedì grasso ci riuniamo a casa mia, ho organizzato una festa in maschera. Ognuno sarà libero di indossare il costume che desidera e potrà agire in piena libertà. L’anonimato è tassativo: nessuno dovrà farsi riconoscere, qualunque cosa succeda. Sono certa che ci sarà da divertirsi. Ti aspetto. Laura”.
Con Laura siamo amiche dai tempi della scuola; mi è molto cara, anche se non ci vediamo più così spesso come una volta. Il lavoro e la famiglia esigono il loro spazio e, in proposito, siamo entrambe impegnate. Quell’invito mi apparve, lo confesso, alquanto strano. Laura, per come la conoscevo, era sempre stata una donna allegra e vivace, ma non particolarmente stravagante, né originale.
Carnevale  di Viareggio
La sua vita pareva scorrere su un binario dei più tradizionali e prevedibili: dopo il diploma, c’era stato subito il lavoro da bancaria e, molto presto, il matrimonio – che sapevo felice – con Marco, conosciuto sui banchi di scuola e a cui era rimasta sempre saldamente legata. I loro due bambini, arrivati in rapida sequenza, avevano blindato ben presto la coppia in una vita molto regolata e con poche pause di libertà, che tuttavia sembrava essere assai ben accetta a entrambi. Non mi aspettavo, perciò, una proposta così “audace”, se posso usare il termine: la sorpresa come evento, e il mistero come suo condimento, li facevo estranei al carattere della mia amica. Ma chi può dire di conoscere davvero un altro in tutto e per tutto, sia pure a noi particolarmente vicino? Così, più per curiosità che per altro, decisi di accogliere l’invito e lo comunicai subito alla mia amica.
Presa la decisione chiesi allora a me stessa: Cosa sarà bene che indossi?” Sul momento però non seppi rispondermi, non trovai facile decidere nell’immediato, anche considerando l’ampia libertà di scelta favorita dal vincolo dell’anonimato.  Continuavo a chiedermi: “Indosso una maschera tradizionale, una di quelle che siamo abituati a veder sfilare tra musiche e balli per sfogare la voglia di prenderci un po’ in giro? O piuttosto mi faccio ispirare dai grandi carnevali del passato, in cui era concessa licenza (concessa, beninteso, solo per quel breve periodo dal potere in auge) di mettere in discussione con modi scherzosi l’ordine morale, politico e sociale vigente? O meglio ancora mi dissi perché non prendere sul serio il senso del Carnevale come occasione per trasgredire scegliendo di essere, almeno per quel giorno e fino in fondo, me stessa?  Non è in fondo questo” mi ripetevo “il significato vero e ‘scandaloso’ del Carnevale: poterci togliere la maschera che ci imponiamo tutti i giorni, quella dei nostri ruoli – sociali, professionali, familiari –  per indossare una maschera più autentica, quella che ci rappresenta appieno, quella della nostra vera identità? Perché, dunque, non rendere ancora una volta omaggio a Pirandello e uscire da quell’opprimente teatro del quotidiano che ci vuole interpreti di una parte che non ci rappresenta per indossare, finalmente, i nostri abiti?  
Affascinata da quest’ultimo pensiero, decisi di appropriarmi fino in fondo della lezione pirandelliana: sfruttare la finzione, che è l’arte del teatro e, insieme, la forma del Carnevale, per rappresentare l’autenticità. E la festa della mia amica mi sembrò l’occasione propizia per aprire le stanze più riposte dell’anima, quelle nelle quali conserviamo i sogni, le fantasie, i progetti e anche le utopie. Più passavano i giorni e più si delineava, nella mia mente, la maschera che avrei indossato, quella che meglio avrebbe rispecchiato ciò che veramente sento di essere e che quasi mai trapela di me.
Mi piaceva anche l’idea di tener fede, così, alla locuzione latina del “Semel in anno licet insanire”, emblema del Carnevale, perché concederci almeno una volta l’anno una piccola follia serve a tenere accesa la fiammella del ‘fuoco sacro’ della creatività, della curiosità, dell’esplorazione di noi stessi; in una parola, serve a dare senso alla vita. Un po’ come fanno gli artisti, genialmente sovversivi per vocazione, che rimangono, con ciò che rappresentano, aggrappati a ciò che sono.
Arrivai in ritardo il giorno della festa. La porta era aperta e mi trovai immediatamente immersa nell’atmosfera più classica del Carnevale. Cercai di farmi largo in quel clima festoso con la speranza di riconoscere la mia amica. Ma non mi riuscì.
Nel frattempo, le maschere che vedevo erano le più note: Pulcinella, Brighella, la bella Colombina contesa tra Arlecchino e Pantalone; Jolly, il giullare per eccellenza, e poi ancora: Gianduja, Pierrot,  Rugantino, Sandrone, Brighella, Scaramuccia, Tartaglia, Corallina e tante altre, tutte ispirate, al contrario di me, alla tradizione. L’atmosfera era comunque allegra e divertente; il ritmo della musica e il suono delle trombette, insieme alle “lingue di Menelik”, accompagnavano le danze.
Avvicinandomi al tavolo dei dolci, trovai una sedia libera e mi accomodai per poter godere meglio della visuale, con la speranza di scorgere Laura. In fondo, avevo partecipato alla festa per poterla rivedere. Avevo molta voglia di riabbracciarla e sapere di lei. Attesi mezz’ora prima di essere sedotta da una maschera alquanto particolare. Un uomo in abiti del 700, pantaloni fino al ginocchio e un cappello a falde laterali, teneva in mano uno strumento di legno, una sorta di bacchetta biforcuta che andava scuotendo di continuo.  “Chi può mai essere mi domandai.  Fui distolta da quella figura dalla precisa domanda che Shakespeare, apparso all’improvviso, mi rivolse: “Sei Erasmo da Rotterdam, tu? Annuii con il capo e lui continuò: Mi piace il personaggio che rappresenti. E’ in piena sintonia col significato autentico del carnevale. Il suo “Elogio alla follia” fu geniale per quei tempi e anche ora. Ci aiuta a non prenderci troppo sul serio, a non entrare troppo nei ruoli. In fondo un po’ di Follia, quella da lui decantata, ci aiuta a non diventare matti per davvero” sentenziò sorridendo, mentre ripeteva: “ma il vero folle non è forse colui che asseconda la maschera che altri lo inducono ad indossare?
Mi alzai e lo abbracciai, dicendogli: “Solo uno come te, grande Shakespeare, conoscitore acuto e geniale dell’animo umano, poteva riconoscermi e apprezzarmi. Tu che hai parlato della verità, dell’illusione, dell’inganno, dell’amore e soprattutto di quel che dovremmo e vorremmo essere e che forse mai potremo.... Grazie!”
Fui contenta di quell’incontro. Quell’uomo aveva compreso il messaggio di cui la mia maschera era portatrice: celebrare colui che, più di 500 anni fa, aveva elogiato quel pizzico di leggera follia che ci aiuta a vivere meglio, a coltivare leggerezza e ironia quel tanto che serve per sorridere alla vita e perfino, talvolta, per farcela amare.
Fu allora che comparve davanti a me una donna vestita da dea che irradiava luce e calore, così come proprio il mio Erasmo l’aveva descritta nel suo capolavoro. La dea simbolicamente rappresentata come Follia, che ci spinge ad alimentare lo spirito del sorriso e che porta al bene. Mi parve proprio questa la maschera di gran lunga più bella della festa. Era lei, in fondo, che aspettavo da tutta la sera, e quando finalmente la vidi, presi a ripetere a me stessa le parole di Erasmo: «gli elementi emotivi non solo assolvono la funzione di guide per chi si affretta verso il porto della sapienza, ma nell'esercizio della virtù vengono sempre in aiuto spronando e stimolando, come forze che esortano al bene  ….».
Quella figura divina mi apparve ancora più bella nel momento in cui si diresse verso me e, sorridendo, si tolse la rigogliosa parrucca e la maschera di cera. Fu allora che la riconobbi: si trattava proprio della mia amica Laura! Fu per me un’immensa gioia constatare che un comune pensiero ci aveva accomunato. In quel preciso momento udimmo le parole e il ticchettio dei bastoncini di legno agitati dalla maschera che mi aveva poc’anzi incuriosito. Ci guardò con ammirazione e disse “è meraviglioso per me aver trovato ciò che cercavo. Sono il Rabdomante, cerco l’acqua con la tecnica più antica, quella nota fin dai tempi della Cina imperiale e del regno d’Egitto del III millennio a.C. Mi chiamano infatti lo “stregone dell’acqua” e oggi le mie bacchette non mi hanno tradito perché ho trovato, grazie a voi, acqua pura: la vostra volontà di mostrarvi agli altri per ciò che siete e vi piace essere. Ben venga, dunque, questo Carnevale che ci dà la possibilità di riflettere su di noi. Ben venga, mie care, tutto ciò che ci esorta a essere ciò che vogliamo essere.
Ma non esagerate, mi raccomando.
Quel buffo, improvvisato, simposio terminò con una risata collettiva; mentre Shakespeare continuava a ripetere: «The world is a stage».
Ebbene sìmi dissi: “il mondo è un palcoscenico!

Sonia Giovannetti


6 commenti:

  1. Un brano bellissimo, Sonia cara, che mi ha spinto a riflettere sul 'teatro della vita' e sulla follia, intesa nel senso di Erasmo da Rotterdam e di Borges.
    Riguardo a ciò che narri sulle maschere, lessi un documento molto incisivo nel quale si diceva che si finisce per essere veri solo quando si indossano le maschere. Non ricordo il nome dell'autore. Riguardo alla follia e alla tua idea fantastica, profonda, degna di una sensibilità unica, mi hai indotta a ricordare il film "L'attimo fuggente", nel quale il professore asseriva: "Siate folli e fingete di essere normali. Il vero è in voi, non in ciò che gli altri pensano di voi". Hai centrato due verità dell'esistenza che mi stanno particolarmente a cuore e l'hai fatto con linguaggio superbo e con quella grazia che, sempre, ti contraddistingue! Grazie della lezione. Ti stringo forte.
    Maria Rizzi

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    1. Maria carissima, ti ringrazio davvero molto per l'attenzione preziosa che mi dedichi e per le tue parole. Generosissime. Il tuo volto indossa sempre la verità dell'apertura agli altri, al mondo, alla vita. Ti abbraccio. Colgo l'occasione per ringraziare Nazario Pardini, per la stessa straordinaria, festosa e rara accoglienza (...) che riserva a tutti noi.
      Sonia Giovannetti

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  2. Ottimo spunto di meditazione quello del Carnevale e dei travestimenti che ne conseguono in libertà: un desiderio, “una follia” cui desidereremmo essere più fedeli. Uno spunto che ben vale la novella.
    Sono andata a riprendermi il testo di Erasmo da Rotterdam, che a suo tempo ho molto amato: chi poteva dire meglio di lui? Dice la Follia: “Sono come mi vedete, quell’autentica dispensatrice di beni che i Latini chiamano Stulticia e i Greci Morìa”. “A guardar bene, la vita è una commedia dove ciascuno recita una sua parte, e non è bene strappare la maschera agli attori che stanno recitando: tutta la vita non ha alcuna consistenza ma, tant'è, questa commedia non può essere rappresentata altrimenti… e il saggio che volesse mostrare l'autentica realtà delle cose farebbe la figura dell'insensato... Si dirà che questa è follia. Non lo negherò, purché si conceda che tale è la vita, la commedia della vita che stiamo recitando… perché io non dovrei a buon diritto essere ritenuta e proclamata l’alfa degli Dèi, dal momento che io, io sola, sono a tutti prodiga di tutto?”
    Ben scelti gli incontri: Shakespeare e la dea simbolicamente rappresentata come Follia, che ci spinge ad alimentare lo spirito del sorriso e che porta al bene. «The world is a stage». Verità, illusione, inganno, l’amore.... Ebbene sì: “il mondo è un palcoscenico!”

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    1. Maria Grazia carissima, ti ringrazio davvero molto della tua preziosa attenzione e di aver aggiunto il valore che ti contraddistingue, offrendoci, nello specifico, altre parole di Erasmo. Ti abbraccio, grata. A presto.
      Sonia Giovannetti

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  3. Cara Sonia, si dice che due più due fa quattro e solo il folle può pensare che non sia così. Tuttavia accade che il folle sia felice e il cosiddetto "savio" sia tremendamente arido, sconsolato, derubato del bene più prezioso: la sua interiorità. Con questo meraviglioso racconto, tu metti il dito nella piaga. Non sembra possibile - di questi tempi specialmente - essere se stessi e vivere in società. Eppure equilibrio vuole che si stia un po' di qua e un po' di là. Non si può vivere sempre nella verità, ma neppure sempre nella menzogna. Un anziano contadino mi disse un giorno: "La verità dilla una volta l'anno". La saggezza popolana! Lo ricordi anche tu il motto dei Latini: "Semel in anno licet insanire". E tanto meglio se, per dire la verità, si approfitta di una maschera, fingendosi folli. Ridendo e scherzando, Pulcinella dice la verità. Un conto è la finzione, un altro la falsità. La maschera viene accettata, la verità nuda e cruda no. E va bene così, dal momento che dobbiamo barcamenarci tra due esigenze imprescindibili: quella di stare al mondo e quella di non tradire noi stessi. Equilibrio, saggezza, armonia...
    Franco Campegiani

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    1. "La saggezza popolana", carissimo Franco, rende sempre più autentico il vivere e anche più tagliente. Sappiamo bene il valore dell'ironia, la stessa 'ironia socratica' ce lo insegna.
      In fondo quel "Pulcinella che ridendo e scherzando dice la verità" ci aiuta a dare più ascolto a noi stessi e agli altri; sempre nel segno della "finzione" non della "falsità".
      Grazie infinite della preziosa attenzione, un caro saluto.
      Sonia Giovannetti

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