lunedì 11 giugno 2018

N. PARDINI: PREFAZIONE A "TRACIMAR DI VERSI" DI M. CELESTINO


Margherita Celestino: Tracimar di versi. Pubblisfera Edizioni. San Giovanni in Fiore. 2018



Poesia morbida, gentile, fluente, in versi di lapidaria fattura, segmentati in un percorso apodittico e vòlto alla concretizzazione di un’anima disposta a confessare i suoi frammenti emotivi. Se la poesia deve essere semplice, spontanea, e diretta effusione di un cuore; se la poesia deve essere tatuaggio di un sentire cotto a puntino; se deve essere verbo concretizzante slanci verso cime di difficile ancoraggio; se deve essere complessità di ricami interiori che dettano inquietudini; se deve essere tutto questo, le composizioni della Celestino sono poesia. Naturalmente la semplicità ne è un presupposto valido, ma ne è anche un valido supporto la parola pensata, inventata, rielaborata, riposata, e disponibile per iuncturae di metaforici allunghi. Qui tutto scaturisce da un sentire fresco e impulsivo dove non ha avuto spazio una meditazione lessicale più ampia (…).
Una poetessa che, oltre ad affidarsi ad una liricità di estetica intrusione, a sinfonie di memoria wagneriana, vive anche l’illusione di cambiare il mondo con l’influenza etico-sociale dei suoi versi, è sicuramente carica di un humus  che la rende apprezzabile:


Il tempio dei ricordi

Scavo dentro  ogni ruga che passa
per ritrovare un sorriso lontano,
un verso, un cenno o forse solo un ghigno.
Se infilo gli occhi  tra gli squarci bui
più non vi trovo  quello che cercavo
solo i rottami  del mio tempio sacro.
Fermate il passo, non osate entrare!
non profanate i cocci  moribondi,
altro non chiedono  che tornare in vita.
Quando la polvere si sarà dissolta
io vestirò la tunica di Giobbe
e i cocci torneranno a palpitare.

Iniziare, ora, il tragitto esegetico da questa poesia testuale significa andare a fondo fin da subito nelle pluralità ontologiche della ricerca verbale e spirituale di Margherita Celestino. Un  mondo polisemico e polivalente quello della Poetessa, che tocca punte di alta liricità, dove l’umano vivere, con tutta la sua irrequietezza esistenziale, si affaccia alla pagina con la voglia di rinascere e farsi poièin; precarietà della vita, illusioni, delusioni, speranze, amore, saudade, memoriale sono i tanti ingredienti di un canto di estrema fluidità narrativa; di acchiappante energia sonora; di eufonica incursione ritmica. Sì, la memoria si fa alcova personale e privata; si fa tesoro da custodire nei cassetti più sacri dell’esistere. E memoria per Ella significa momento di raccoglimento, momento di rigenerazione; significa rivivere attimi di sperdimento in un’isola  dove riposare la mente e l’anima ma anche ripescare il serbatoio a cui attingere per la freschezza della poesia. Ma memoria significa anche tempo che fugge e che dà la dimensione di quanto la vita passi improrogabilmente senza tenere di conto dei nostri sacri altari; di quanto la morte ci corra addosso giorno per giorno: “Corre, sospeso, tra l’immenso e il mondo/l’uomo, avvilito, come canna al vento,/ rincorre mete che lo fan brillare/sopra sentieri d’insulso domani./Ramingo e immenso senza una speranza/ superbo l’io oscura ogni cammino/un vuoto immane spazia nella mente,/ detta il decalogo della sua esistenza:…”. Nonostante che la Poetessa sia cosciente della futilità del tempo e della brevità dell’esserci affida i suoi cocci ai versi perché la vita torni a palpitare. C’è questa intenzione umana e sovrumana nella silloge:  affidare una storia al canto quasi per perpetrarne la sacralità; per tramandare ai posteri un patema esistenziale che non può essere legato al dove e al quando ma che, sbrigliato dal tempo, abbia la consistenza di vincerlo col patrimonio dell’arte in cerca della luce. Ella sa che la vita è un’esperienza unica e inconfondibile, e per questo unire il presente  al passato per donarlo al futuro resta un leitmotiv che s’insinua nel processo musicale di uno spartito che fa dell’endecasillabo la voce preminente del verseggiare. Ma sa anche che la vita è fatta di privazioni e sottrazioni, di esperienze non sempre positive, di ingiustizie sociali, che si mutano in ricordi dolorosi: “Scavo dentro  ogni ruga che passa/ per ritrovare un sorriso lontano,/ un verso, un cenno o forse solo un ghigno./ Se infilo gli occhi  tra gli squarci bui/ più non vi trovo  quello che cercavo/ solo i rottami  del mio tempio sacro./ Fermate il passo, non osate entrare!...”. Questo è il parenetico input “non osate entrare”. Ci sono storie di delusioni e smarcamenti, di sogni irrealizzati, di promesse non mantenute, di gioie mancate, di vicende anche dolorose, che l’Autrice tiene per sé nella cella inviolabile di un tempio sacro dove  nessuno deve entrare. E. A. Poe (1809-1840), pubblicate le sue Poesie nel 1831, nel saggio postumo Il principio poetico definisce la poesia “creazione ritmica della bellezza”, convinto che “il sentimento poetico si ottiene nell’unione tra poesia e musica, giacché nella musica, forse, l’anima raggiunge quasi interamente il grande fine per il quale, se ispirata da un sentimento poetico, essa lotta… per raggiungere la creazione della Bellezza Suprema…”. E tutto ciò possiamo riscontrare nella plaquette: una sinestetica armonia che dà il meglio di sé in una semplicità comunicativa di urgente impatto emotivo; quella semplicità verbale e formale che un artista raggiunge dopo anni di sperimentazioni e di rielaborazioni dacché si accorge che la poesia è lavoro, lavoro, lavoro, unito ad una forza creativa da trasmettere agli altri; a chi può intendere un messaggio arrivante e conturbante nella sua totalità. Fenollosa Ernest Francisco afferma che “La poesia è l’arte del tempo”; e Alfredo Panzini  definsce i poeti “simili al faro del mare”. Perché queste citazioni? Perché è umano, fortemente umano cercare di sbrigliarsi da questa terrenità, da tutte le aporie del quotidiano per allungare lo sguardo verso territori da scoprire; verso orizzonti che segnano i limiti del nostro essere ed esistere. Da qui il mare con la sua vastità e un faro che ne illumina una esigua parte. Quale simbolo più idoneo a rappresentare la miseria della nostra esistenza tra rien e tout come afferma Pascal? Forse è la speranza a dare forza all’uomo; a dare quell’energia idonea ad attraversare le colonne del sapere e dell’amore: “… una brezza leggera, fischiettando,/monta la scena  con un mulinello,/ sfratta le nubi e, con un sole amico,/ ridipinge l’universo di speranza…”.  Le nubi se ne vanno e il sole della vita torna a risplendere con raggi di luce. Una simbologia accattivante, una metaforicità panica in cui gli ambiti naturali si fanno corpo di un’anima tutta volta a ritrovare i suoi abbrivi. Una ricerca attenta e spontanea in cui la Celestino assegna al verso il compito di concretizzare un mondo di fughe e ritorni, di giochi sentimentali e meditativi di valenza lirica, dove, spesso, ci invita a non disperare “…Non  disperare,  anima raminga,/strappata al mondo  da uno scellerato,/ scuoti i calzari alla dipartita/ o porterai il fango  oltre la vita./ Dimentica la scena del  massacro/ non ti voltare   verso l’empietà,/ fra poco il Sole caldo arriverà,/ e ti ripagherà dal tristo inverno”, a volgere lo sguardo verso una luce che non mancherà di ripagarci dei rigori invernali: ricorrere alle stagioni per dare concretezza al senso della  vita è uno stratagemma stilistico di cui si avvale spesso.  D’altronde la vita si gioca tutta su un equilibrio precario e provvisorio ma quello che conta è avere la coscienza di esser-ci per amare il mondo:  “… Un soffio  lieve/vela   diafano cristallo,/ nello stesso riflesso/  nasce e  muore./ In bilico precario/ tra il mio ieri e l’oggi/ capire non mi è dato,/ ma questo non m’importa/ perché io ancora sono,/ e  ancora vivo/ per amare il mondo”. Qui il verso si fa più stretto, più raccolto, più breve, forse perché si sente il bisogno di dare più valenza apodittica ad un pensiero di vita e di morte; di etica filosofica e cognitiva, cosciente la Nostra del dubbio e dei perché irrisolti e irrisolvibili: non sappiamo quello che siamo, non conosciamo il nostro destino e non abbiamo il potere di risolvere i tanti quesiti che ci assillano. L’opera si chiude con una bella lirica in dialetto calabrese dove la Poetessa scopre una verità che da tempo va cercando; d’altronde l’uomo è sempre alla ricerca di un  perché che lo inquieta; di un porto a cui attraccare con la speranza che sia l’accesso all’isola felice; ma il fatto sta che si accorge che l’unica verità è proprio il luogo che ha lasciato alla sua partenza; ed è fra questa gente che l’Autrice ritrova la sua serenità; al suo paese; ma anche la gioia di essere triste, come afferma Hugo; la  solitudine tra tanta gente:  Ora che non stai più in un fazzoletto/ ormai sei sordo pure  se ti canto/ e pur tra tanta  gente sono sola.”:

(…)
La mamma mia, non me la toccare
ora che sta come Cristo in croce!
parla e non sa quello che dice
ma con la bocca sta sempre a lodare.
 I tempi  di una volta stan passando                       
le famiglie  si  son   sparpagliate.
gli amici  si son fatti  tutti grandi
chi è partito e chi è sotterrato.
Il cuore piange lacrime angosciate
io ti ho innaffiato con sospiri e pianto,
perché mio fiore ora sei seccato?
Ora che non stai più in un fazzoletto
ormai sei sordo pure  se ti canto
e pur tra tanta  gente sono sola. (Il mio paese)

Nazario Pardini



 DAL TESTO 


A te lo offro in dono

Ovattato silenzio in chiaroscuro,
deboli battiti in attesa del sole,
una carezza lontana è una promessa;
 poi lo schianto, il silenzio e la paura,
le tenebre scendono come a notte fonda,
la nenia dolce ora è un   urlo infranto,
 il sorriso di madre si fa pianto:
inerme, un fiore, ha conosciuto il mondo e se n’è andato,
lieve come la piuma il suo volare
greve il tormento racchiuso dentro il cuore.
Poi il pianto, nei giorni si fa canto,
e il canto sale come una preghiera:
a Te lo offro in dono o mio Signore,
curalo con le note del tuo amore,
tienilo stretto che più non vacilli,
per me che sono sangue del suo sangue,
 fa che spunti luce nuova all’orizzonte,
donami la speranza per calmare
un dì con un vagito questa ambascia. 



Autunno

Scheletri imploranti,
piangono, nel bosco foglie gialle,
la pioggia scroscia e sferza i poverelli
 incoraggiando il pianto delle nubi,
una brezza leggera, fischiettando,
monta la scena  con un mulinello,
sfratta le nubi e, con un sole amico,
 ridipinge l’universo    di speranza.  


Camminerò
 (1° classificata alla VI edizione del  Premio Letterario Capannese
“Renato Fucini”ottobre 2010)

Camminerò
nel respiro più intimo del mondo,
mi aggrapperò
ad ogni lacrima di bimbo
per dare un urto
alle coscienze addormentate,
piangerò
quando per tutti sarà festa
e loderò il Fattore
se nelle pene umane
saprò capire
 quando può giovare la pietà.



Canna al vento

Corre, sospeso, tra l’immenso e il mondo
l’uomo, avvilito, come canna al vento,
rincorre mete che lo fan brillare
sopra   sentieri d’insulso domani.
Ramingo e immenso senza una speranza
superbo l’io oscura ogni cammino.
Un vuoto immane spazia nella mente,
detta il decalogo della sua esistenza:
violenza, invidia, odio e vanità.
E corre    il passo a ricercare allori,
vacilla ignaro sulle foglie morte
di una fosca stagione di menzogne.
corre e non vede l’ombra dei cipressi,
né ode il cupo gemito del vento.
  Non mi tentare corsa iniqua e buia
per ottenere ciò che non so dare!
Voglio cambiare la rotta mendace
voglio seguire sentieri di pace,
  urlare ai sordi con versi suadenti
fermare il passo che guida all’occaso.





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