martedì 26 giugno 2018

EMANUELE ALOISI LEGGE: "UN PUGNO DI CORIANDOLI" DI ANDREA ACCAPUTO



Recensione di Emanuele Aloisi, presidente di Giuria
del premio

“La Gorgone d’oro” di Gela,
alla poesia
"Un pugno di coriandoli"
(nuova Luna a Birkenau)
di

Andrea Accaputo-Avola (SR)

Emanuele Aloisi,
collaboratore di Lèucade

Lirica dal contenuto profondo cesellato nei “frantumi di scritture (e) frammenti di elegie”: il verso “chiave” che permette all’intelletto, e dopo il pianto inevitabile dell’anima, di compiere un viaggio nel tempo, e riscoprirlo sempre uguale, così anche l’Uomo, nel figlio non diverso di una stessa Madre, seppure: “Tutto (sia) compiuto”, sia stato scritto, eternamente rivissuto. È il tempo di una canna che non si è ingiallita, e all’apice non ha la spugna dell’aceto, ma che percuote, discriminando e allontanando da una terra, da un’altra madre e dal suo grembo; così come fa il vento tra le foglie, la voce di altre “razze superiori”, e di altri uomini le mani, che ancora infliggono ferite e si spartiscono le vesti. Moderna elegia nell’elegante metrica, nei settenari e nel sinfonico fluire dei molti alessandrini, dei pochi endecasillabi, nella profondità delle metafore, nel dolce stilnovismo di parole. È il canto di una morte, quella di un uomo che non teme di morire, ma che ha il sorriso di un fanciullo, la forza di schernire chi la morte la procura, colui che genera il dolore, quando non sa cosa vuol dire Amare. 


Andrea Accaputo-Avola (SR)

Poesia vincitrice
Al premio
“La Gorgone d’oro” di Gela.

Un pugno di coriandoli
(nuova Luna a Birkenau)

Disse: Tutto è compiuto.
S’udì, solo, del vento,
stormire, tra le foglie.
E tacquero latrati, d’incaute lontananze.
La canna mi percosse, e, piano, m’avviai.
Di notte, fui rapito dal ventre d’una madre,
strappato dalle mani dell’umile mia terra.
Si fecero brandelli di liriche celate,
riposte in un cassetto d’illeciti sospiri.
Qual efferato gioco, voluto dall’umano,
sospinse quella voce che mi credette insano?
Lasciai la mia dimora, e più non vi tornai.
Di sere, mi sovvenne, d’una panchina vuota.
Ancor non vi narrai di quante volte,
al lume d’una lucerna antica,
vi presi a disegnare il volto di chi amai:
d’Amor che non s’esprime, lui, n’era l’espressione.
Non v’è condanna alcuna
che faccia, dell’orrore
che il corpo mi si strazi,
ragione che mi renda,
d’Amore, menzognero.
Recidano i capelli. Spartiscano le vesti.
Infliggano ferite. Si laceri la pelle.
Che il fango mi divori.
Che il tempo mi dilani.
Che il Sole si dilegui.
Posso, ancora, ridere,
schernire, d’essi, l’”ego”;
illuder, che vi sia la “razza superiore”.
Che l’urlo, poi, m’assordi
di lame mi trapassi.
Che il fuoco mi consumi.
Si rendano a mia madre le ceneri raccolte.
Ditele che non pianga: ditelo per mio conto.
Ditele d’un sorriso, beffardo, d’un fanciullo.
Ditele che non ebbi paura di morire;
ditele che stringevo coriandoli in un pugno:
frantumi di scritture, frammenti d’elegie,
ov’io racchiusi il senso d’un mai tradito “T’amo”.


















1 commento:

  1. È doveroso rivolgere un accorato ringraziamento al Blog “Alla volta di Leucade”, al professor Pardini, nonché al caro Emanuele Aloisi, per avermi onorato di questo passaggio.
    A prescindere da qualsiasi graduatoria o riconoscimento, la Poesia, alla pari di qualunque altra forma d’espressione artistica, si nutre della Gioia di giungere dritta al cuore di chi abbia voglia di accostarsene. Questo è il Premio più alto al quale potessi ambire. Andrea Accaputo.

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