sabato 16 marzo 2019

P. BALESTRIERE E N. PARDINI PRESENTANO: "ARIANNA" DI UMBERTO CERIO


P. Balestriere e N. Pardini presentano “ARIANNA” di 
Umberto Cerio

Pasquale Balestriere,
collaboratore di Lèucade

 In questo poemetto Umberto  Cerio, il cantore dei miti che s’inverano  nel pulsare vorticoso della vita di ogni tempo,   tesse la tela  poetica di una vicenda d’amore disilluso, cioè  sperato, desiderato, promesso, però mai veramente realizzato. Il mito al quale stavolta il poeta allude è quello di Arianna, figlia di Minosse, re di Creta,  e di Pasifae, figlia del Sole. Ella, dopo aver aiutato Teseo ad uscire dal labirinto dove l’eroe aveva ucciso il Minotauro (figura mostruosa, che - non si dimentichi  - era  fratellastro di Arianna, per  essere entrambi figli della stessa madre), fu abbandonata sull’isola di Nasso ( ma, secondo una tradizione, ciò accadde  contro il volere del principe ateniese che fu trascinato via da una tempesta, senza potervisi opporre; qui però la voce narrante propende per l’abbandono volontario) . Nell’isola cicladica la giovane principessa, addolorata e piangente , fu trovata da Bacco che la recuperò all’amore e alle gioie della vita.
Qui però Cerio innova e, al mito classico,  utile solo sotto il profilo allusivo, oppone  una vicenda  del nostro tempo,  in cui lo “spirito amante” - con un autentico ribaltamento dei ruoli-  non è più la “classica”  Arianna, ma  un io poetico di sesso maschile che rivolge il suo amore a una “Arianna d’oggi”,  abbandonata involontariamente -questa volta sì-  dal suo uomo perito in un incidente stradale; da lei ottiene in risposta dei “forse” che lo tengono in una condizione di sospensione e di dubbio doloroso, in attesa di una risposta decisiva e finale.  Questo io poetico, improvviso e rapido, s’impossessa  della scena occupandone il centro già dall’inizio,   la gestisce, instaura  con Arianna un dialogo del quale ci offre solo gli esiti (“forse, forse”) ma che il lettore, se partecipe emotivamente, può facilmente intuire e ricostruire.
Il poemetto, che è di gradevolissima lettura  per freschezza, potenza e venustà di immagini e per soluzioni linguistiche,ma anche per implicazioni psicologiche che lo percorrono,  si  snoda attraverso un gioco di rimbalzi tra le due vicende, l’antica, tersa e consegnata al paradigma mitologico,  e l’attuale, viva e pulsante, mito essa stessa, ma in fieri, com’è giusto per tutto ciò che compie un percorso vitale in modo non passivo. Un lettore superficiale, di fronte alla fitta occorrenza del mito -dei miti-  nella produzione poetica di Cerio, potrebbe essere indotto a ritenere  che egli sia  attratto prevalentemente  dal mito classico. Non è così, perché il Nostro è affascinato soprattutto da un mito che ingloba  tutti i miti, antichi e moderni: il mito della vita.

Pasquale Balestriere




Una poemetto che s’incunea con tutta la sua portata emotivo-paradigmatica nei meandri del vissuto; è vita, amore, sorte, melodia. Si batte e si leva, si usa la bacchetta da maestro d’orchestra per reificare immagini e sentimenti. Una dualità che non è tale, dacché il poeta sa unificare due mondi che sembrerebbero distanti in una unità inscindibile; una simbiotica fusione di mito e reale dove il mitopoieta fa del classico il nuovo e del nuovo il classico. Una  visione estremamente umana in una narrazione che rivela le capacità creative di Cerio. E si sa quanto il poeta sia legato al mito e in questo caso al mito dei miti: Arianna. Una storia conosciuta ma che Cerio sa rinnovare con arguzia e intelligenza fattiva e creativa. Tutto si dipana con versi che si inanellano tra  loro su uno spartito di elegante fattura; di oggettiva proposta poematica. Ognuno vi può leggere una storia attuale, e forse una parte di se stesso, della sua storia. E’ questa la grande trasfusione che il Nostro opera; la grande umanizzazione di personaggi che, attorniati da accessori naturalistici di ampio respiro, si fanno ancor più reali, attuali, dacché questi non fanno altro che collaborare alla loro visualizzazione. E tutto scivola leggero, dolce, armonioso fino all’apertura immensa dell’ultimo verso che, staccandosi dal contesto, apre scenari di libertà marine, di orizzonti infiniti dal sapore di baudelairiana vicinanza, armonizzati da figure di gabbiani e aironi che liberi e melanconici volano e svolano sulle distese del mare.     

Nazario Pardini


ARIANNA

Umberto Cerio
collaboratore di Lèucade

     Hai odore di mare
e ti sei fatta perduta malia,
insistente ferita
di instabile futuro di tempesta,
di clessidra impazzita
al canto dei gabbiani
nella caduta del sole di agosto,
rammarico di ciò che potevamo.

     “Forse, forse” mi dici
e non decidi il dove della vita,
- morso di frutti acerbi -
sequenza degli addii e dei ritorni.
Vagabondare incerto di stagioni.

      E l’attesa non conta?
Non segna i giorni delle primavere
che passano più atroci
del silenzio e d’ogni solitudine?

     Io più non amo l’altalena,
eppure mi ci illudo in gioco,
il fascino dell’amara cicuta
sento e l’acredine
delle ferite d’altri,
del male del passero che si schiaccia
informe su cristallo d’auto in corsa
e non sa della vita e della morte.

     Ci resta in cuore la disarmonia,
l’assurdo tradimento delle stelle.

     Scriverò mai il poema d’amore,
la vita dell’inconsolata Arianna
che perde un uomo e trova un dio
su un’isola deserta e senza l’ara?
Mi manca, forse, il dove
per fugare l’oscurità del mondo
e la follia di ritornare indietro.

     “Forse, forse” mi dici,
ma l’impazzita giostra non si ferma
e ricomincia il giro
senza più tempo e luogo.
La diastole dei nostri desideri
che nel meriggio di sole ci acceca
s’impenna sulla cima
del veliero alto sul mare.

     Un gesto, e giri la clessidra.

     Notti più brevi e più lontane,
l’isola è solitaria,
le nostre solitudini più lunghe,
e l’abbandono volontario
- le vele della nave ormai lontana -
dirupa sull’anima
con atroce stridore di gabbiani
in cerchio di dolore.
Vola la nave con la vela nera.
Cieco errore, in debito di memoria.

     La cetra d’oro è appesa
al ramo dell’alloro disseccato
e prima della morte una cicala
stride la sua canzone
sempre uguale e pietosa e disperata.
Ed anche lì mi dici ancora “forse”.

     Dove è lontano il mare
e disabitata la bianca casa
e dove l’uva spina
un ricordo -una memoria- dipana
permangono dolori
- tu non trovasti un dio innamorato -
e stridori di ruote e di lamiere.

     Altro che crucci, Arianna,
Nasso è lontana, Teseo più lontano.
Donne pietose scrivevano per te
lettere sue mai scritte
e restava la tua bellezza intatta,
il cielo e il mare azzurri,
forte odore di mirto e di lentisco,
il ricordo di vele all’orizzonte.

     Quante leggende allora
narrarono per l’abbandono atroce
gli aedi ed i poeti?
E quale dio guidò il tuo destino,
la tua richiesta di futura sposa
che naufragò con i tuoi sogni,
di Dioniso in delirio
il rapimento per la tua bellezza?

     Forse è il declino del giorno sul mare
quando si perde il sole
e la marina sogna perle nere
nel sonno della sera
che segna il tuo tramonto d’oro
e parla il mio silenzio
alla catena triste che ti resta
nell’anima avvinghiata e non si scioglie.

     Ma l’altro abbandono fu involontario
tra stridore di ruote  e di lamiere,
carne che brucia ed anima in tumulto
e l’ultima speranza,
il cuore nel buio che appena batte,
ferite nell’anima
e in agguato la tua disperazione.

     Donami le tue solitudini
ch’io le trapianti sopra il mio dolore.

     Pensi. Che pensi Arianna?
Che pensi ancora al buio delle notti,
nel nero del dolore?
Trovi anche tu un dio che ti ama
e l’odore del mirto
e un’altra vela bianca a consolarti,
il volo di un gabbiano
che lento si avvicina alla tua mente,
alla fuga delle tue primavere?

     “Forse, forse” mi dici
e scorre la tua vita, nell’estate
del tuo destino - forse ingeneroso -
e corone di mirto
e nella notte i tuoi sogni infranti
e nell’aria che la tua luce tinge
lontana, più lontana del tuo dio.

     Ricordi il tuo tremore,
l’improvvido abbandono,
la sotterranea luce che ti investe,
la sistole del giorno che ti brucia
ed il silenzio atroce
di nave che si perde nello spazio
e la marea della disperazione
che s’alza nella notte,
il sibilo del buio,
l’acre ed attonita solitudine?

     Quale costellazione,
dove approdare, in quale cielo nero,
o in quale marina
l’ancora gettare della tua nave
o i tuoi pensieri bui
- l’anima tua triste ed offuscata –
(così mi è parso un giorno
quando per certo non mentivi!)
Arianna triste d’oggi
che ancora vivi un abbandono atroce?

     Dammi una primavera,
ch’io la trapianti nel mio sangue!

     La mia disarmonia
è non sapere tutto
e non poterti chiedere la luce.
Non sapere che pensi e che hai pensato.
È l’atroce subbuglio delle attese.
E il mio gabbiano bianco
ha un volo senza meta.
Volteggia in cerchio sopra il tuo dolore,
sul crudele stridio dei tuoi pensieri,
sulla nostra amarezza solitaria.

     E il labirinto buio,
il mare attraversato in fuga
per l’ira di Minosse
per la morte del Minotauro,
e poi l’infame inganno di Teseo,
la tua bellezza infranta
e l’amore violento che ti ha scossa,
il pianto silenzioso
al tuo vano risveglio senza luce
e il tuo destino avaro
hanno segnato il tuo futuro.

     E rimane l’abisso
dentro il tuo cuore spento, vuoto, amaro,
condanna a solitudine straziante,
e rimane il sentore
acre d’erba selvaggia
su una deserta spiaggia, senza voli,
priva di aironi e di gabbiani
la strada senza uscita
- un limbo dove non si vuole entrare -
follia sospesa della nostra attesa
prima che il giorno passi
e giunga la tempesta delle stelle.

     Che dici, Arianna d’oggi,
che il mio sogno è come una falena
che corre alla tua luce
come incontro a bufera
senza fine, e verso la sua fine?
Ma quale cetra d’oro
potrà cantare altra armonia?

     Portami la tua luce
ch’io l’innesti sull’anima in tumulto.

     La verità è scritta
sul tuo segreto diario
e con parole dure e ripetute.
“Forse, forse” vi scrivi,
ma il giro delle stelle non si ferma,
la tua costellazione è più lontana.
E ti perdi tra l’erbaspada
e l’arida conchiglia del tuo cielo.

     Ahimè, “forse” mi dici
e forse scenderà la luce
sul dirupo dei nostri sogni                                                          che non conoscono domani,
quando il mio tempo è consumato
senza risveglio e senza tempo.

     Che senso ha l’arteria,
la vena cava quando il cuore pulsa
se altro è il sangue,
se la malia sconfina in altro cuore?
Che senso ha il labirinto
della mente dove fiorisce il seme
d’ogni rimpianto, dove si fa carne
il dolore dei giorni
e si arresta il volo della farfalla?
Aspri  arbusti alicoli
da te a me attecchiscono ferrigni,
l’alidore della tua terra
trapassa nel mio sangue e nel pensiero
e più non sono gerbido e mi perdo
- insulsa parabola del trapianto -.

     Ma non sono io il tuo Teseo.
Sono io il tuo Teseo?
Ritorno ai tuoi vent’anni amari,
e lo scompiglio delle tue certezze
la sotterranea notte
l’oasi e la duna interminabile?
Esco, forse, dal labirinto assurdo?

     Salsedine e profumo d’altro mare
- e salpa altro veliero -
- altri gabbiani gridano assonanti –
- scompare Glauco e le Nereidi -
- volge altro vento alla marea -
giungono dal profondo dell’abisso,
e l’ombra si fa carne
ed anima smarrita
che non comprende geometrie di uscita.

     La mia marea scompiglia
i flutti, e navi con le vele bianche
sbilenche oscillano
in pericolo di affondamento,
il porto si allontana
e la mia anima è sempre più sola
come anima del mondo
che vana trascina strappate reti.
E la tua anima è sempre più sola,
sempre più esposta a rischio
di perdere la rotta,
- il faro in alto è spento -
senza timone e senza la deriva.

Dammi una bussola
con gli smeraldi dei tuoi occhi verdi
ed un veliero bianco
ch’io possa navigare nel tuo cuore.

     Ma il grido del gabbiano
è l’ago della bussola in allarme,
nocchiero e sentinella,
bussola e crocevia,
la clessidra che batte il nostro tempo.
Siamo ciò che vogliamo,
la nostra via di pietre è lastricata
e porta non so dove
o forse dove volge il sud del mondo.

     Non sappiamo l’intreccio
della siepe e l’armonia delle nubi,
il sale che s’incrosta,
dove la serpe si nasconda,
il seme che germoglia,
l’assurda disarmonia del termine
improvviso, e quando senti l’amara
illusione che tenta la speranza.

     O quando dici “Ora aspetta , mio cuore,
ora c’è un’altra attesa
che ci sconvolge le certezze”.

     Ma ci aspettiamo il vento
che taglia il nostro viso e gli occhi chiusi,
altro mattino di abbandono,
la bandiera impazzita
che sbalza senza sosta
sul mare azzurro della nostra terra.

     L’altro abbandono, quello volontario,
forse sarà dimenticato.
I gabbiani torneranno a volare
sulla deriva della nostra nave.
Gli urli saranno un’armonia.

     Precipitare dalla rupe
- non più d’Icaro il volo
né di Elle la fatale caduta -
sarà come il volo di Psiche
rapimento del Vento
per il dono all’innamorato iddio?

     Donami un’altra attesa
ch’io l’innesti sul delirio del Sole.

     Dov’è l’eroe di Atene,
cos’è rimasto del tuo amore folle?
Piante spinose sconosciute,
pozzanghere d’acqua salmastra, acida,
stocchi d’agave amara,
catini di vetriolo
e sonno di cicuta
e biechi riflessi di argentovivo.
Il filo lungo, e dopo il tradimento!
La favola è finita
ed ignori nei miti il tuo destino,
la morte del fratello,
del padre tuo l’ira furibonda.

     Ed è, l’inganno, triste
roveto che si attorce senza fine.

     Dolce memoria di collina d’avi
che mi scende sugli occhi come mare,
ricordi di paranze
come antiche costellazioni, bianche
di stelle e di comete,
la mezzaluna a falce sulla casa,
ad occidente il fiume che straripa,
il taglio atroce di un coltello,
respiro lento, fermo
sui nostri visi, e sulle mani travi
di indurito cemento
e doppio tradimento,
bocche cucite per non farci urlare.

     Dammi una tua memoria
ch’io la trapianti sulle mie parole.

     Oh Arianna dolce,
come strana è la vita!
Erede degli Dei fulgidi un tempo
e decaduta al rango di un’amante
abbandonata, e paghi il fio
per un eroe spergiuro che ti inganna.
Neppure il dio può ripagarti in tutto
del duro oltraggio dell’eroe di Atene.

     “Forse, forse”, mi dici.
Fermare questa giostra,
l’impazzita clessidra,
il gallo al vento in cima al campanile,
l’ombra dell’astronave in volo buio,
pensieri amari e dolorosi.
Cercare, cercare l’ansia
di un intreccio di vite e di destini
quando non dici il tempo della fine
né la fine del tempo
e cerchi il sentore del mirto
ed il profumo dolce del lentisco.

Gabbiani e aironi in volo nel mio cielo.
  
Umberto Cerio

















   

3 commenti:

  1. Un poeta parla sempre e comunque di miti. Ne può parlare in tantissimi modi e linguaggi diversi, ma mai in termini antiquari o scientifici, da antropologo, studioso e classificatore di miti. Che Umberto Cerio, da poeta qual'è, prenda spunto dai miti classici, è un fatto innegabile, ma questo per lui è soltanto un mezzo, una chiave per aprire lo scrigno delle essenze che appartengono all'uomo di sempre. E ha pienamente ragione Balestriere nel dire che il Nostro, per quanto sembri "prevalentemente attratto" dal mito classico", in realtà risulta "affascinato soprattutto da un mito che ingloba tutti i miti, antichi e moderni: il mito della vita". Ed è per questo che innova, giungendo superbamente a parlare di un'"Arianna di oggi" che un destino avverso priva della possibilità di amare, gettandola sull'isola (forse di se stessa) e condannandola senza speranze a una solitudine estrema. Eterna e disperata attesa dello "spirito amante", di quell'Amore che in fondo è il vero autore del canto, padrone della scena "già dall’inizio", reclamando una pienezza impossibile, un'assolutezza che "neppure il dio può ripagare". Poemetto struggente, con versi che rapiscono e fanno molto riflettere sulla condizione umana.
    Franco Campegiani

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  2. Sono stato sempre attratto e non poco dalla musicalità verbale insita nelle poesie di U. Cerio. La sua è sempre un canto che rapisce il lettore e che lo conduce nel mito quale fonte della sua ispirazione poetica. P. Balestriere lo definisce, a ragione, "il cantore dei miti" poichè attraverso questi imbastisce la sua trama poetica, il suo messaggio. Balestriere e Campegiani hanno evidenziano che in questo poemetto il mito è la vita quale mito dei miti e con sequenza copiosa di metafore e immagini l'autore ne descrive il travaglio interiore dell'uomo per possederla nella sua pienezza. Ma Lei sfugge, sfugge sempre nell'attimo in cui crede di averla fatta sua: " Un gesto e giri la clessidra". Tale travaglio U. Cerio lo esprime con un linguaggio crudo, duro,forte ma sempre nitido: "del male del passero che si schiaccia informe sul cristallo d'auto in corsa..." ;"vola la nave con la vela nera"; "...quando il mio tempo è consumato senza risveglio..." e così via; ma, alla fine, uno sprazzo di serenità nel disperato animo quando "Gabbiani e aironi (sono)in volo nel mio cielo". U. Cerio, un AEDO del 3° Millennio. Pasqualino Cinnirella

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  3. In questa sua preziosa rivisitazione del mito l’io poetico di Umberto Cerio, impaziente e ansioso, dubbioso e implorante, supplice e disperante, reclama una promessa d’amore che, se accordata, potrà finalmente liberare la vitale energia di un’anima. È quell’io in cerca, a un tempo, anche di una redenzione e di un riscatto dal dolore e dal buio. Ma attenzione: qui il poeta non cerca una soluzione individuale o personale alla disillusione e alla mancanza d’amore, in quanto il dramma della precarietà e dell'abbandono, del tradimento e dell'inganno, non riguarda solo Arianna o, come in questo caso, un suo alter ego, catapultato come per metempsicosi nel nostro millennio; qui il dramma riguarda, per estensione, l’umanità intera. Ed è questa la chiave di lettura dell'Arianna di Umberto Cerio, il focus della sua riscoperta del mito: solo la promessa d’amore può garantire, ad ogni umano tradito e abbandonato, una via di fuga dal labirinto della solitudine, per nuovamente riassaporare la pienezza della vita. È questo il dono inestimabile che il mito, stavolta attraverso le rotte della luce del “filo di Arianna”, ha consegnato per sempre al sentimento e alla poesia. Ancora una volta Umberto Cerio, magistralmente rielaborando e reinventando quella classicità a lui così cara, ci regala versi e immagini di indiscutibile bellezza e profondità, come peraltro puntualmente hanno evidenziato nelle loro presentazioni, con la consueta, inarrivabile bravura, Pasquale Balestriere e Nazario Pardini.
    Umberto Vicaretti.

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