martedì 4 febbraio 2020

FRANCO CAMPEGIANI LEGGE: "RINASCERE DA VECCHI" DI GIANFRANCO LAURETANO

Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade


"RINASCERE DA VECCHI", DI GIANFRANCO LAURETANO
(Puntoacapo Editrice)



La rigenerazione è il fil rouge, il filo conduttore, il leit motiv, il nesso che annoda i vari momenti di questa raccolta poetica di Gianfranco Lauretano.  Un momento aurorale incessante che sorge da un tramonto altrettanto incessante, da un declino perpetuo, infinito. Punto e a capo, tanto per riecheggiare il titolo dell'Editrice. Un rinnovamento perenne che sgorga da una stagnazione perenne, da un'eterna crisi. Ci troviamo sempre nel mezzo di una rinascita che avviene nel cuore di una decadenza infinita. In queste pagine, pertanto, accade qualcosa di speciale. Di paradossale, se vogliamo. Di inaspettato, forse di prodigioso: un vero e proprio capovolgimento, un insperato cambio di prospettiva, dove scopriamo che le cose non sono mai a senso unico e che negazioni e affermazioni si giovano le une delle altre.
Apocalisse e palingenesi, potremmo anche dire. Armonia di contrari, comunque. L'esistenza annoda e riannoda i viventi in smarrimenti e perdite, in angosce e privazioni, ma ecco, d'incanto, gli ultimi diventare i primi: grande metafora del trionfo dello spirito, non sulle ingiurie materiali, ma sulle offese di una materia arbitrariamente scissa dalle proprie radici spirituali. Non vorrei però venire frainteso: non è di fede religiosa che sto parlando, pur non volendo, né potendo, celare la matrice cristiana di questo poeta e della sua scrittura. Qui si parla di poesia ed è solo di poesia che qui intendo parlare. Ovvero di spiritualità, della disposizione dell'anima a rinnovarsi, a stupirsi del mondo, a smetterla di trascinarsi passivamente nell'esistenza per iniziare finalmente a vivere, anziché lasciarsi vivere come quasi sempre la costringiamo a fare.
Rinascere dalle proprie ceneri come l'araba fenice. Risorgere spiritualmente dalle rovine del mondo, senza tuttavia demonizzare questo mondo, e anzi amandolo per tutto ciò che ci può dare. C'è indubbiamente un momento di ribellione, di rifiuto del mondo, di liberazione dagli autoritarismi e dai cosiddetti retaggi, in quanto l'esperienza del vivere pretende giustamente di essere diretta, di prima mano. "Tutto ciò che ho fatto e volevo dire", scrive Lauretano, "aspettava la tua approvazione / padre, tutto consisteva in quella / ma ho sbagliato". I padri vivono nei figli come il seme nel frutto ("il figlio che vive glorifica il padre", dice Lauretano), quindi pensiamo a noi, più che a loro, pensiamo alla nostra generazione: è l'unico modo per continuare a farli vivere, i padri.
Questa ribellione verso il mondo si addolcisce tuttavia nel testo, mano a mano che cresce e si potenzia la coscienza spirituale. Non esisterebbe infatti la liberazione dell'anima in assenza delle catene che ne imbrigliano la spinta propulsiva. Dunque amore a trecentosessanta gradi: "Riallacciamo rapporto mondo / ... / Tra te e me non corre sempre buon sangue / le strade del nulla mi distraggono", ma sta proprio qui, in questo smarrimento, il seme della possibile rigenerazione. Così, all'improvviso, tutto appare rinnovato e l'amore, dice il poeta, "esce di casa quasi straripando, il suo profumo mi segue / e io cammino, cammino per la prima volta / e i piedi non toccano neppure il selciato".
Nella poesia intitolata Tramonto assistiamo a un incredibile evento ("una rivoluzione, un'era nuova"): "Tutto il mondo vide quella sera // uno spettacolo, anzi due / il sole che tramontava e me / che sorgevo, fisso all'apparizione". La rinascita di se stessi nel crepuscolo del mondo, sta qui la poetica di Lauretano. Dove anche la decadenza ha un ruolo da svolgere: quello di preparare nel suo notturno grembo le nuove stagioni aurorali dell'uomo e del mito. Nel cuore nero dell'inverno c'è "qualcosa che da secoli incede / una sollevazione nel gelo" e "avanza la rivolta, corre da sempre / un'insurrezione. Anche noi / risorgiamo come il mondo intero / tutto sta levandosi adesso / nell'inverno reale e apparente / adesso ossa e anime risorgono / adesso arriva la rivoluzione".
Se è vero che la città è sempre allo sfascio, in rovina ("Nessuna malattia / sta guarendo, nessun problema si risolve / nessun dolore viene risarcito"), è pur vero che il mondo non è mai totalmente dannato. C'è sempre una luce che si accende nelle tenebre, come quella del piccolo lavavetri maomettano che nessuno considera e che sorride all'incrocio, beatamente canticchiando il corano nello squallore di "una Bologna di vecchi condomini / fiume di macchine e camion / palazzi popolari parallelepipedi / croste d'intonaco grigio / grigia gente, grigia fine di giorno / ... / fiumi di cemento sulla terra / sembra cemento anche il cielo / che vita abbrutita". Ma se è vero che "un manto d'inchiostro ha intriso la città", è pur vero che qualcuno sfugge sempre, furbescamente, all'agguato.  
L'amore non fa scalpore, vive nell'anonimato, rifugge dalle ribalte, dal clamore, dai nomi celebrati. Di un suo viaggio in Russia, il poeta ama ricordare, si, il suo  incontro con la patria di Tolstoj, di Cechov, di Dostoevskij, ma soprattutto ama ricordare la Russia che silenziosamente l'ha accompagnato "nella passeggiata notturna di Mosca", aiutandolo a ritrovare la comunione universale, il giusto senso delle cose. E' sempre all'improvviso che l'amore ci sorprende, facendo nuovo il mondo e risorgendo "dal vocabolario consumato" che stancamente ripete il nome delle cose senza più saper parlare delle cose stesse. Questo vuol dire rinascere da vecchi. E giustamente il pensiero di Gianfranco corre a Nicodemo, il membro del Sinedrio che - dice Giovanni - chiede a Gesù come sia possibile rinascere da vecchi, non potendo rientrare una seconda volta nel grembo materno.
L'interrogato non dà una risposta (sarebbe dogmatismo), ma invita ad "osservare quegli stupefacenti colori / di cielo con dentro la terra e di terra con dentro il cielo". Fuor di metafora, la terra non basta, occorre fondere materia e spirito. Per cui la conclusione è che "nascere da vecchi / non solo è possibile - è l'unica cosa possibile". Si deve però stare sul campo di battaglia dell'amore, accettando ogni sconfitta ed ogni naufragio per ricostruire sempre il battello ed orientare sempre meglio la prua. Una lotta infinita, come quella della figlia dell'autore, "diciassette anni e un innamorato / addirittura non corrisposto", che si trova "al centro della guerra dell'amore / la più bella e spietata / quella che lascia sul campo / vittime su vittime e qualche vincitore".
E si è sempre soli in questa guerra, spinti da un desiderio di assolutezza inappagato, perché la convulsa vita separa ciascuno nella propria solitudine ed "ognuno va dove deve e dove / quasi certamente non vuole" andare. Così, ci troviamo "gettati nel mondo", come dice Sartre, nella deiezione di cui parla Heidegger, immersi nella vita anonima di tutti e di nessuno, in cui nessuno è se stesso, presi in un moto vorticoso dove paradossalmente non succede mai nulla, perché tutto è scontato, ripetitivo, seriale, prodotto in fotocopia. C'è tuttavia, silenzioso, l'agguato dell'anima, capace di trasformare la solitudine in coro universale e in estrema compagnia. Soltanto lì, in quelle abissali profondità che attendono di essere risvegliate, tutto si muove e tutto accade realmente. Solo lì si può realmente rinascere a nuova vita.

Franco Campegiani

Genzano, 01/02/2020

Nessun commento:

Posta un commento