lunedì 3 febbraio 2020

NAZARIO PARDINI LEGGE: GUIDO ZAVANONE "POESIA DI UNA VITA"


Guido Zavanone: Lo sciame delle parole. Poesia di una vita. Interlinea Edizioni. Novara. 2015. Una  vita di poesia.


Mi è giunto stamani 31 gennaio 2019 il libro FOTO RICORDO di Guido Zavanone. Emozioni, memorie, tempo che fugge, anima inquieta; mi tornano in mente, inevitabilmente, i tempi dei premi di Guerrieri a Spezia, dove, con il poeta giudice, ero in commissione. Un grande amico, con un animo nobile, intenso, votato alla poesia. Quante discussioni sull’arte di Apollo, di Orfeo, quante osservazioni ricche di humanitas, di prosodici commenti; di ontologici intendimenti. Ho letto, da subito, la prima poesia del testo Cercano la luce, e i ricordi si sono impossessati del mio fragile stato emotivo: “Ammiro quelli che discendono/ sul fondo della loro anima, speleologi/ coraggiosi e prudenti,/ con torce elettriche e corde/ e determinazione metodica visitando/ le tenebrose caverne/ illuminano/ le reliquie degli avi e le molte/ ricchezze nascoste. Quando/con eguale circospezione risaliti/ alla plaudente chiarità gli amici in attesa raccontano/ e sorridendo ai fotografi…/ / Però amo gli altri/ che giacciono sul fondo dell’anima/ non per volontà ma sospinti/ da una loro frana improvvisa/ senza torce non scorgono che fantasmi/ temono e desiderano di risalire./ E amano la luce quanto/ definitivo ne avvertono l’abbandono:/ in questi pozzi di dolore si riflette/ inconsapevole, una generazione”. Questo è Zavanone: il suo campo di ricerca, la sua dolce e mansueta metafora, lo scavo, l’abbandono interiore a una verità difficilmente perseguibile, la vita, l’amicizia, la coscienza del tempo che fugge, la famiglia, le memorie, la POESIA. Ho ritenuto, a questo punto, di riportare per intero una mia perlustrazione esegetica sul suo LO SCIAME DELLE PAROLE che si può slargare, volendo, a tutto il percorso artistico frutto di una continua ricerca interiore: “In altra occasione ebbi a scrivere su Guido Zavanone: “Fenollosa Ernest Francisco affermava che la poesia è l’arte del tempo. Perché riportare tale affermazione. Perché il tema del tempo ha una funzione determinante nella poesia di Zavanone. Non solo da un punto di vista del memoriale, ma soprattutto da quello della realtà contingente: hic et nunc. In lui l’ieri, l’oggi e il domani si embricano indissolubilmente per dare energia espansiva al suo poema. È cosciente del tepus fugit Zavanone. E la realtà costante la vive come frammento del suo essere mortale e degradante. Ma dall’altra parte sente l’urgenza di farne un accadimento perpetuo, di vincerne quel sapore di caducità, ricorrendo all’idea di arte/poesia; per proiettarsi oltre il breve tratto della vicenda umana. Oltre lo sfacimento degli autunni; per accostare le chant d’un chardonneret che sa tanto d’azzurro…”. Iniziare da questo frammento testuale significa avvicinarci il più possibile allo spirito poetico di Guido Zavanone di cui il libro in questione segna, in maniera diacronica, le tappe fondamentali. Un testo corposo, di ben 350 pagine, che, dato alle stampe nel 2015 coi caratteri di Interlinea Edizioni, si presenta come tomo di grande fascino per la sua essenzialità editoriale ma soprattutto per il fatto che riporta a memoria volumi di grande pregio e di invitante livello contenutistico; consuntivo, nostos; il viaggio di una vita che ci pone di fronte alla valenza del poeta genovese, allo spessore del suo linguismo, alla polivalenza del suo verso e al proficuo entusiasmo per la scrittura. Sì, proprio così, una vita, un redde rationem, con tutto il suo rocambolesco andirivieni di sogni, di aspirazioni, di illusioni, delusioni, saudade, amore,  memoriale e ignoto: “Vorrei cavalcare l’ignoto/ e come un cavallo alato/ allungare il collo nel vuoto/ nel mai esplorato/…”.  Ma quello che più di ogni altra cosa incide sulla sua poetica è la coscienza della fragilità del vivere; dell’esistere in questo mondo che lascia infiniti perché irrisolti e irrisolvibili. Tutte le questioni dell’esser-ci vi sono contemplate: abbrivi edenici, sobbalzi esistenziali, riflessioni ontologiche, scottature emotivo-vicissitudinali; e fughe verso l’oltre, verso una vetta da cui il Poeta possa abbracciare “… la (tua) sua croce nera/ che affonda nella terra riarsa/ e nel limpido cielo”. Una vera spinta verso l’alto per sottrarsi alle deficienze della condizione umana: “Tu cercavi soltanto/ un sorriso e lo trovi/ nella foto sbiadita/ della lapide accanto”. Ed è proprio così: il fatto che più inquieta è il rapporto fra l’uomo e l’infinito; fra l’uomo e la scadenza di una storia; fra l’uomo e le aporie del viaggio: “…/ Perché fratello,/ non è una montagna felice/ da salire cantando tenendosi per mano,/  una montagna di rocce, d’abissi, d’agguati,/ dove l’aria ti manca/ nessuna corda che ti possa aiutare/ e sulla vetta ad attendere forse/ null’altro/ che un cielo chiaro”; dacché non sempre la religione può sopperire a tale travaglio, per cui, spesso, si ricorre alle memorie per costruire un mondo virtuale, vero, più vero del reale nel tentativo di prolungare magari il fatto di esistere o di trovare un rifugio alle sottrazioni della quotidianità: “L’anima (se esiste)/ l’immergerei nella fontana della/ ritrovata giovinezza/…”. D’altronde la poesia non è mai solo realtà fenomenica; non è mai solo il prato, il mare, il colle, l’arancio di un tramonto, o l’oro di un’alba. È essenziale che queste configurazioni si traducano in immagini, occorre che restino in animo a decantare per ri-farsi vere, vogliose di ri-vivere. Tutto deve passare dal serbatoio dell’anima; tutto deve essere intinto nel calamaio del nostro esistere: “Lungo i sentieri squallidi del tempo/ già si spengono i fuochi e s’allontana il canto/ delle dolci fanciulle./ La grande notte passa e nel suo volo/ l’ombre dei morti”;   quei sentieri, quei fuochi o quelle ombre devono farsi corpo dei nostri frammenti di vita; devono essere commisurati al tempo che fugge irrimediabilmente; un repêchage continuo a corpo a corpo con la voracità della clessidra. Questo, tutto questo è nella poesia di Zavanone che, pur partendo  dalle piccole cose, dai piccoli accidents o dagli odeporici messaggi, sa elevarsi all’universale; sa oggettivare ogni sensazione  che si fa parte di un tutto in cui ognuno di noi si ritrova, ricorrendo, anche, in maniera estremamente simbolica, al mito dei miti, sempre e estremamente attuale: “…/ Alla soglia della luce/ Orfeo si volterà, perderà per sempre/ l’amata Euridice./ Serberà il canto”, quello che, nell’animo dell’Autore, può farsi eterno.  Opera vasta in diacronico movimento: Lo sciame delle parole. Poesia di una  vita, il titolo. Un titolo emblematico e risolutivo; un’opera di grande forza comunicativa, dove il verbo, trattato con tutti i crismi epigrammatici e euritmici, diviene corpo indissolubile della storia del Poeta; elemento portante, fiore profumato in piena fioritura dopo una lunga fecondazione su terricci sapidi di vita: la cultura, il senso dell’estetica, la profondità psicologica, il culto della parola, l’amore per il poièin, lo studio, la riflessione, l’inquietudine, la ricerca della luce, del bello, del verso compatto e plastico sono gli ingredienti di un excursus antologico che, partendo da LA TERRA SPENTA, si protrae fino all’ultima silloge inedita ULTIME. Ed anche se i tasselli dell’esistere sono tante stazioni di una via crucis; anche se alla fin fine permangono dubbi e insoluzioni, quello che sembra primeggiare in questo percorso è una dolce illusione di memoria foscoliana: affidare tutto noi stessi al canto nella speranza che vinca le ristrettezze del giorno, la futilità del nostro soggiorno, per prolungare una storia oltre i limiti dei nostri orizzonti:

Come ti ha cambiato il tempo,
mio piccolo usignolo!                 
Di te è rimasto soltanto
il canto
che accompagna il tuo volo (Il tempo e il canto).

Sì, il canto e il volo.”.

Nazario Pardini

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