Autore: Dario
Ghiringhelli – Via Roma 105 22078 Turate (Co) – tel.cel. 3384630174
Nella nostra
insulsa incoscienza ed illusoria spensieratezza non eravamo molto adusati
all’idea della morte che ci sembrava un evento lontanissimo e neppure da
prendere in considerazione, perché gli entusiasmi della vita ce lo facevano
apparire come una cosa a cui non eravamo tenuti di pensare, quasi come se noi
fossimo immuni da una circostanza di tal fatta.
La vorticosa
ruota dell’esistenza quotidiana ci assorbiva totalmente, impedendoci di pensare
e di riflettere sugli aspetti spiacevoli derivanti dalla considerazione che,
prima o poi, ogni individuo ha un’alfa e un’omega.
L’immensa
distanza della prima lettera dell’alfabeto greco, che ben conoscevamo,
esistente dall’ultimo simbolo, ci pareva significare un’eternità di tempo mai
destinata ad interrompersi.
Solo una
volta all’anno, quando veniva novembre, si andava a rendere visita alle tombe
dei parenti defunti e a compiere un giro tra i lumini e i crisantemi che
ravvivavano la cupa atmosfera dei cimiteri, quasi come se la visita della
gente, in folla, ai camposanti fosse una specie di festa.
Cadevano le
foglie e, ad autunno inoltrato, in prossimità di un anno che si esauriva, noi
eravamo ben vivi, ben vestiti e si finiva per mettere la testa nel freddo di
alcune tombe di famiglia dove erano riposti nonni, zii, ed altri parenti che
forse non avevamo neppure fatto in tempo a conoscere.
Vittorio,
orfano di padre, era un giovanotto forte, esuberante e lieto che non faceva
altro che vivere, come tutti noi, cioè mangiare, bere, studiare, andare al
Cadorna e ridere con gli amici.
Aveva
scoperto che il mondo era bello, divertente e tutto da ridere. Faceva parte,
fin dall’inizio, del nostro gruppo. Dopo le medie superiori si era iscritto ad
un corso di scenografia tenuto presso la Scuola dei Filodrammatici di Milano.
Aveva una
predisposizione innata per il disegno e, da appassionato di teatro qual era,
intendeva specializzarsi per diventare uno scenografo professionista. Si era
già cimentato in questa sua passione, disegnando le scene di alcuni
spettacolini rappresentati da oratori del nostro paese.
Era un tipo
molto minuzioso che curava ogni piccolo particolare, forse un po’ introverso
come tutti gli artisti dotati di grande sensibilità e qualità innate. Però, in
compagnia, il suo buon umore rumoroso e dilagante contribuiva a renderci tutti
ancora più amanti delle buone cose della vita.
Aveva
incominciato a frequentare il Cadorna poco più che diciottenne, legando immediatamente
con tutti noi ragazzi, mentre con le ragazze si dimostrava molto riservato,
perché già impegnato con una fanciulla da circa tre anni. Più volte aveva
manifestato il desiderio di sposarsi non appena la sua attività di scenografo
gli avesse consentito una certa tranquillità economica. Il suo idolo
letterario era Orazio ed il suo modo di concepire la vita era perfettamente in
sintonia con la filosofia che lui amava di più: “Non
preoccuparti del futuro, sarebbe inutile e infausto, cogli l’attimo, vivi il
momento, credendo nel domani il meno che puoi”.
Si era
innamorato di questo carme oraziano, adattandoselo a suo sistema di vita: “Godi il
presente, ed il resto appena credilo”.
Subito dopo
Gigi, era da noi considerato uno dei più prestanti ed affascinanti ragazzi del
Cadorna. Si era attaccato sentimentalmente ad una giovane molto carina ed assai
assennata che si guadagnava la vita collaborando con la madre nella portineria
che gestiva le case di via Volonterio, riservate ai dipendenti delle F.N.M..
Vittorio
viveva con la pensione della madre nel popolare quartiere di via Volta,
arrotondando la magra entrata della genitrice mediante la sua capacità di
disegnare e pitturare quadretti colorati che vendeva agli amici.
In
quell’estate del ’65 era piuttosto elettrizzato perché, per la prima volta
nella sua vita, era imminente la possibilità di trascorrere un Ferragosto al
mare, grazie ai risparmi che la sua fidanzata aveva accumulato svolgendo, nei
ritagli di tempo, l’attività di sarta a cui ricorrevano molti inquilini
dipendenti delle Nord.
Qualche
giorno prima di partire per Gatteo Mare, Vittorio ci illustrava il programma da
lui concertato per quei pochi giorni di vacanza.
“Ragazzi,
sapete che in piscina vi ho sempre superato come un buon nuotatore. Fra poco
potrò cimentarmi anche al mare, mettendo in pratica la mia abilità. Voglio
andare a nuotare molto al largo, dove la trasparenza dell’acqua mi consentirà
di vedere dei fondali che immagino diversi dagli oggetti caduti e rimasti sul
fondo della piscina che frequentiamo. Scatterò anche delle fotografie insieme
con Luciana che vi mostrerò al mio ritorno”.
Noi lo
ascoltavamo con pazienza per non
sminuire l’entusiasmo di quella sua imminente vacanza, senza fargli rimarcare
le nostre precedenti avventure marine per vivere le quali non eravamo obbligati
ad aspettare la settimana del Ferragosto.
Ma la sua
bontà d’animo, non disgiunta da una certa innocente, spontanea ingenuità, ce lo
faceva apparire un ragazzo molto meno scafato di noi, di fronte al quale il nostro
comune atteggiamento di ostentata indifferenza e disprezzo nei confronti di
valori morali e sociali, si sgonfiava come un palloncino pieno di gas, proprio
come avveniva con i giocattoli dei bambini.
Gli volevamo
bene perché era uno dei migliori fra tutti noi, proprio per il suo candore e
per la sua pulitezza morale.
Eugenio fu il
promotore di una colletta fra di noi organizzata per racimolare i pochi soldi
necessari a regalargli un orologio da subacqueo quale nostro augurio di buone
vacanze.
In quel fine
settimana di Ferragosto, del nostro gruppo, solo in due eravamo rimasti a
Saronno: io, in quanto i genitori avevano deciso di tenere, comunque, aperto il
bar, l’albergo ed il ristorante, e Grazia impegnata, come al solito dalle
Orsoline, per organizzare un viaggio in Umbria con tutte le allieve prima della
ripresa dell’anno scolastico.
In un afoso
pomeriggio del ventiquattro agosto, mentre ero impegnato in un frenetico
ripasso di matematica e fisica, materie che avrei dovuto riparare in settembre
per conseguire la maturità classica, una telefonata dal centralino interruppe
il mistero di seno, coseno e tangente in cui ero immerso.
“Le passo
Gatteo Mare”.
“Pronto,
Dario, sono Luciana ………………”, poi un silenzio di qualche minuto, “Vittorio …..”
, altra pausa,
“Vittorio
cosa, Luciana dimmi”.
“Vittorio è
annegato!”.
La
comunicazione si interruppe. Probabilmente a Luciana erano venute meno le forze
per continuare.
Del tutto
impietrito rimasi per qualche minuto con la cornetta in mano senza avere la
reazione di deporla.
Come in uno
squarcio di lucidità, caddi nella spiacevole sensazione di essere riportato
sulla terra di fronte a una realtà che mi era totalmente sconosciuta. Non so per
quale ragione mi venne in mente un pensiero:
“Non è tanto
importante quello che si trova alla fine della corsa, ma ciò che si prova
durante la corsa”, rendendomi conto che questa stupida considerazione
costituiva il fulcro della vita spezzata di Vittorio.
Tutti gli
amici e le amiche fecero ritorno a Saronno senza aver concluso il periodo di
ferie programmato. Il cimitero
ci appariva come un campo di un’infanzia non fiorita, un silenzioso riquadro
nel cui mezzo appariva, non si sa per quale errore o concessione, la tomba di
un ventenne: il nostro amico Vittorio, che guardava i passanti, ritratto nel
pieno della sua consueta gran risata. Quel sorriso
balordo emergente tra le lapidi e le croci in quella selva dei morti innocenti,
dalle vite appena accese e spente nel candore, rappresentava emblematicamente
la nostra stupefazione.
Era la stupefazione
di tutti noi al pensiero che Vittorio fosse là, tra i giovani innocenti, con la
bocca aperta ad un sorriso come uno sbadiglio che non cessa mai, quasi a
fermarci e a farci pensare, come ci impressionava con il suo buon umore
rumoroso e dilagante.
“Perché tanta allegria,
se ti è toccata così precoce morte? Sei qui a fermare il passo dei vecchi
amici, a sorprenderli con l’immagine della tua risata”.
Non sapevamo che dire:
“Un ragazzo, un giovane
pieno di vita, che a vent’anni era morto di un caso qualsiasi, al quale non
credeva, come si poteva vedere da quel suo riso aperto alle cose gustose e
solide del mondo”.
Era un giovanotto come
noi, forte, esuberante e lieto che non faceva altro che vivere. Rideva tanto di ogni
cosa, che le poche fotografie rimaste dopo la sua morte lo effigiavano con la
bocca aperta e gli occhi socchiusi dal gran ridere. E così è
rimasto, quando, ogni anno, a novembre, andavamo a portar fiori sulla sua
tomba: uno splendido ragazzo prelevato dalla sorte affinché ridesse a lungo,
più a lungo di tutti noi.
Tutto ciò
avveniva nel pieno di quella nostra generazione che stava sempre “sulla
strada”, per non stare da nessuna parte, risoluta ad essere sempre nel presente
infinitamente espanso che era il solo unico tempo oltre che il solo spazio in
cui ci si poteva sentire protetti.
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